Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-06-2012, n. 10957 Risoluzione del contratto per inadempimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 480 del 30 maggio 2005, la Corte di appello dell’Aquila, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarò che il contratto preliminare del 4 maggio 1981 con cui R.L. si era impegnato a vendere un terreno a D. D.D., D.D.E. e C.T. si era risolto, a seguito di diffida ad adempiere rimasta senza effetto, per inadempimento del promittente venditore, condannando i suoi eredi, P.R.L., R.A. e R. M. alla restituzione della somma di Euro 17.559,53 ricevuta alla firma del preliminare a titolo di acconto sul prezzo ed al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 15.493,70, con rivalutazione ed interessi legali. Il giudice di secondo grado motivò la sua decisione affermando che il contratto intercorso tra le parti, che aveva ad oggetto la vendita di una porzione libera di terreno che il promittente venditore avrebbe a sua volta acquistato dalla baronessa d.R.M., non era da considerarsi, così come sostenuto dagli eredi R., sottoposto ad alcuna condizione sospensiva, rappresentata dall’acquisto effettivo del bene da parte del promittente venditore e dal suo rilascio da parte dell’affittuario, ma doveva qualificarsi come vendita di cosa altrui, con conseguente obbligo del venditore di procurarsi la proprietà del bene e che, essendo la diffida ad adempiere inviata dai promissari acquirenti alla controparte dopo numerose e concordate proroghe rimasta senza effetto, il contratto doveva ritenersi risolto per colpa del promittente venditore; aggiunse, riformando sul punto la decisione di primo grado, che ai promissari acquirenti non spettava il pagamento del doppio della caparra versata al momento del preliminare, ma solo la sua restituzione quale acconto sul prezzo, avendo essi scelto di chiedere il risarcimento del danno nei modi ordinari, domanda che ritenne fondata in relazione al pregiudizio rappresentato dalla differenza tra il prezzo del bene contrattualmente convenuto ed il valore maggiore che esso aveva acquistato al momento della risoluzione del contratto.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 7 febbraio 2006, con atto notificato il 6 aprile successivo, ricorrono P. R.L., R.A. e R.M., affidandosi a tre motivi, illustrati da successiva memoria.

Resistono con controricorso D.D.D., D.D. E., C.M., C.P. e D.D. V..

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, e art. 1363, nonchè degli artt. 1478 e 1358 cod. civ., ed omessa ed insufficiente motivazione, censurando la decisione impugnata per avere qualificato il contratto preliminare come vendita di cosa altrui, escludendo che esso fosse stato sottoposto alla condizione sospensiva dell’acquisto del terreno da parte del R. quale promittente venditore e del suo rilascio da parte dell’affittuario che all’epoca lo occupava.

In realtà, sostengono i ricorrenti, il richiamo nell’atto al contratto preliminare di acquisto del bene da parte dell’allora titolare baronessa D.R. ed al rilascio da parte dell’affittuario che lo occupava, a meno di non ritenerli del tutto superflui, costituiscono elementi testuali certi per far ritenere che le parti avevano convenuto di dare seguito alla vendita soltanto qualora tali condizioni si fossero verificate, sottoponendo l’efficacia del loro impegno negoziale a condizione sospensiva. La Corte di merito ha invece ignorato tali riferimenti testuali, che collegavano l’attesa vendita del terreno da parte della D.R. all’assunzione dell’obbligo da parte del R., contravvenendo alle regole di interpretazione letterale del contratto, che fanno obbligo all’interprete di valutare il significato delle parole e delle espressioni usate dai contraenti nella loro connessione logica e di interpretare le singole clausole le une a mezzo delle altre. Il giudice a quo ha inoltre colpevolmente trascurato di esaminare il comportamento successivo delle parti, che avevano a più riprese concordemente prorogato la data di stipula del definitivo, proroghe che andavano lette proprio in funzione del collegamento stabilito dalle parti tra le due vendite, in forza del quale l’una condizionava l’altra.

Il motivo è infondato.

Va premesso che, per giurisprudenza costante di questa Corte, l’interpretazione del contratto si configura come operazione che, implicando apprezzamenti di fatto, è demandata in via esclusiva al giudice di merito, con l’effetto che essa diviene censurabile in cassazione soltanto sotto il profilo della violazione delle regole ermeneutiche e dell’obbligo di motivazione. E’ noto peraltro che, nel giudizio di legittimità, la denunzia della violazione delle regole in materia di ermeneutica contrattuale richiede la specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati e del modo attraverso cui si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione esige la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito e che, per sottrarsi a censura, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass., n. 24539 del 2009; 22.5.2006, n. 10131; Cass., 17.7.2003, n. 11193). Contrapporre a quella fornita dal giudice di merito una diversa ed opposta interpretazione del contratto si risolve in una mera richiesta di un nuovo accertamento sul fatto, come tale non ammessa dinanzi a questa Corte, che è giudice del diritto e non del fatto.

Così delimitato il sindacato di legittimità affidato a questa Corte, deve dirsi che gli argomenti testuali richiamati dal ricorso a sostegno della dedotta violazione dei canoni di interpretazione letterali del contratto non appaiono decisivi al fine di dimostrare l’erroneità della conclusione accolta dalla decisione impugnata.

Premessa la differenza, sul piano dogmatico, tra la figura della vendita di cosa altrui, in cui il venditore assume l’obbligo di procurare la proprietà del bene, accollandosi il rischio della mancata acquisizione, e quella della vendita sottoposta a condizione sospensiva dell’acquisto del bene da parte del venditore, in cui gli effetti e le obbligazioni proprie del contratto sorgono in virtù ed al momento dell’acquisto, con conseguente distribuzione dell’alea su entrambi i contraenti, sembra evidente l’insufficienza degli elementi testuali addotti dal ricorrente a sostegno della propria tesi difensiva, risolvendosi essi nel mero rilievo che, nelle premesse del documento contrattuale, le parti avevano dato atto che il bene apparteneva ad un terzo e che il promittente venditore si era a sua volta impegnato ad acquistarlo e, inoltre, che esso, benchè occupato da un affittuario, sarebbe stato consegnato libero in ragione dello specifico impegno assunto dall’attuale proprietaria. Sono questi, invero, richiami testuali che, di per sè, da un lato, non appaiono affatto incompatibili, ma anzi convergenti, con la figura della vendita di cosa altrui e, dall’altro, non provano che i contraenti, al momento della stipula del contratto preliminare, avevano voluto condizionare la nascita e la vincolatività del loro impegno al verificarsi della condizione che il bene venisse effettivamente acquistato dal promittente venditore. Analoga conclusione merita la circostanza relativa alle proroghe che le parti hanno convenuto nel tempo per la data di stipula del contratto definitivo, le quali trovano la loro ovvia ragion d’essere nel persistente interesse dei contraenti al trasferimento e nella conseguente tolleranza dimostrata nell’attenderne il presupposto costitutivo, ma che certo non provano l’esistenza di una condizione nel contratto.

Deve pertanto convenirsi che, sulla base degli elementi addotti, la clausola che introduce una condizione sospensiva degli effetti del negozio, in forza della quale le parti convengono che esso avrà effetto solo nel caso in cui l’evento futuro ed incerto verrà ad esistenza, non appare chiaramente enunciata nel contratto preliminare intercorso tra le parti, in guisa da evidenziare una chiara violazione da parte dell’interprete dei canoni di interpretazione letterale. Ciò anche perchè la condizione è elemento accidentale del negozio, ma una volta che essa sia inserita ne diventa elemento essenziale, con l’effetto che essa, nei contratti a forma scritta, deve risultare dal testo e non aliunde, il che impone l’onere di una sua chiara formulazione.

In conclusione, da un lato non si ravvisano gli errori di interpretazione del contratto denunziati dal ricorso, dall’altro le censure finiscono per investire il risultato stesso dell’interpretazione dell’atto contrattuale, cioè quell’apprezzamento del significato della dichiarazione negoziale che la legge riserva unicamente al giudice di merito e che nel caso di specie, per le ragioni sopra dette, non appare affatto incompatibile con il richiamo fatto in contratto all’appartenenza del bene ad un terzo.

Quanto al denunziato vizio di motivazione, va invece precisato che, pur dandosi atto che la sentenza impugnata non ha argomentato in maniera idonea il rigetto della tesi degli appellanti, essendosi limitata ad una illustrazione astratta delle differenze tra la figura contrattuale della vendita di cosa altrui ed il contratto sottoposto a condizione sospensiva, gli elementi addotti dal ricorso, ed il cui esame appare trascurato dalla Corte di merito, difettano, per le ragioni sopra indicate, del requisito di decisività necessario ad evidenziare il vizio di motivazione, il quale ricorre soltanto nei casi in cui tali elementi, se considerati, avrebbero potuto portare ad una conclusione diversa.

Il secondo motivo di ricorso, che denunzia omessa motivazione e valutazione di risultanze processuali anche in relazione all’art. 112 cod. proc. civ. e violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 cod. civ., lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto i convenuti R. responsabili della mancata conclusione del contratto definitivo senza considerare che essi non potevano considerarsi in colpa atteso che il contratto di acquisto del terreno che essi avrebbero dovuto concludere con la baronessa D.R., come risulta dai documenti prodotti in causa, non era stato stipulato per cause indipendenti dalla loro volontà.

Anche questo motivo appare infondato.

La sentenza impugnata, nell’affrontare il tema della responsabilità per inadempimento del promittente venditore per la mancata stipulazione del contratto definitivo, ha affermato che la prova della impossibilità della prestazione, nella fattispecie della vendita di cosa altrui prevista dall’art. 1478 cod. civ., non può consistere nella mera allegazione del mancato trasferimento da parte del terzo, essendo il venditore tenuto, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., a dimostrare che la mancata esecuzione della sua obbligazione è dipesa da causa a lui non imputabile.

La decisione sul punto va senz’altro condivisa.

L’eccezione di non imputabilità dell’inadempimento sollevata dai ricorrenti appare affidata invero alla mera allegazione di non avere potuto concludere il contratto definitivo in quanto il bene compromesso non era stato loro trasferito da chi glielo aveva promesso in vendita. Tale deduzione non integra, all’evidenza, prova liberatoria, atteso che, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, nella vendita di cosa altrui, in cui il venditore assume lo specifico obbligo di procurarsi il bene, il venditore è responsabile dell’inadempimento in forza della clausola generale posta dall’art. 1218 cod. civ. se non prova, superando la presunzione di colpa a suo carico da essa stabilita, che lo stesso è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile (Cass. 12410 del 2001; Cass. n. 3839 del 1983; Cass. S.U. n. 1676 del 1982), prova che, in ragione del particolare oggetto dell’obbligazione assunta, non può certo risolversi nel fatto che il terzo non gli abbia ceduto il bene, ma richiede la dimostrazione di avere fatto ogni sforzo possibile per procurarselo, adottando le iniziative, anche giudiziarie, più idonee, prima fra tutte, con riguardo al caso di specie, l’azione ex art. 2932 cod. civ..

Del resto, che il rifiuto del terzo proprietario alla cessione non costituisca fatto esimente della responsabilità del venditore, anche qualora tra i due sia intervenuto una promessa di trasferimento, discende dai principi generali secondo cui il contraente inadempiente non può invocare come fatto liberatorio della sua responsabilità l’inadempimento del suo debitore, rientrando l’inadempimento, salvo che lo stesso assuma la forma del caso fortuito, fra gli eventi normalmente prevedibili.

A queste considerazioni, già di per sè decisive, merita aggiungere che, nella vendita di cosa altrui, la consapevolezza del venditore di alienare o promettere l’alienazione di un bene appartenente ad altri non è senza incidenza sul giudizio di responsabilità per inadempimento, potendosi il venditore ritenersi in colpa già per il solo fatto di avere assunto un impegno senza disporre dei mezzi, anche giuridici, per poterlo adempiere.

Il terzo motivo di ricorso denunzia omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia e violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2697 cod. civ., assume che la Corte di appello, nel liquidare il danno in favore degli attori ha ritenuto sussistente la differenza di valore del terreno senza considerare che, come accertato dallo stesso consulente tecnico d’ufficio, il bene non era adatto ad una utilizzazione agricola intensiva e non era edificabile, nonchè il minor prezzo con cui i suddetto terreno è stato successivamente venduto nell’aprile 1990, che avrebbe dovuto portare a ritenere diminuito nel tempo e non aumentato il suo valore.

In ogni caso la valutazione operata dal giudicante risulta compiuta senza alcun riferimento specifico ai dati del mercato immobiliare.

Il motivo è infondato.

La statuizione del giudice di appello in merito all’accertamento ed alla liquidazione del danno appare adeguatamente motivata e corretta nell’applicazione dei criteri di liquidazione, avendo essa fatto espresso riferimento alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, peraltro mitigate in accoglimento delle osservazioni della consulenza di parte convenuta, risultanze che non formano oggetto di specifica critica da parte del ricorso.

La censura che lamenta la mancata valutazione del contratto con cui il bene compromesso sarebbe stato successivamente venduto appare invece inammissibile, per difetto del requisito di autosufficienza, non indicando il ricorso nè l’esatto contenuto del contratto suddetto nè il momento in cui esso sarebbe stato prodotto in giudizio, mancanza che impedisce al Collegio di per cassazione che deduca l’omessa considerazione o erronea valutazione da parte del giudice di merito di risultanze istruttorie ha l’onere di riprodurre esattamente il contenuto dei documenti e delle prove che si assumono non esaminate, specificando il momento in cui esse sono state prodotte o acquisite in giudizio (Cass. n. 17915 del 2010; Cass. n. 18506 del 2006; Cass. n. 3004 del 2004).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, vanno poste, per il principio di soccombenza, a carico dei ricorrenti.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

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