Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-06-2012, n. 10953 Risoluzione del contratto per inadempimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 9 maggio 1994 il sig. B. C., sulla premessa che con contratto preliminare del 18 gennaio 1992 la Taurus Club s.r.l. si era impegnata a cedergli il locale commerciale in (OMISSIS), per il prezzo di lire 700.000.000, e che egli aveva contestualmente versato la caparra di lire 200.000.000 senza che alla scadenza pattuita del luglio 1992 gli fosse stato consegnato l’immobile e che, poi, venisse stipulato il contratto definitivo, malgrado la notificazione di diffida ad adempiere del 1 aprile 1994, conveniva la suddetta società dinanzi al Tribunale di S. Maria Capua Vetere per ottenere la dichiarazione di risoluzione del suddetto contratto preliminare e la condanna della Taurus Club s.r.l. al pagamento del doppio della caparra (pari a L. 400.000.000), oltre interessi dal 1 agosto 1992.

La Taurus Club s.r.l., costituitasi in giudizio, chiedeva in via riconvenzionale la risoluzione del contratto per inadempimento del B., il riconoscimento del diritto ad incamerare la caparra, la condanna dell’attore al pagamento di ulteriore somma da quantificarsi in corso di causa per le opere realizzate su richiesta dello stesso.

Con sentenza in data 12 febbraio 2002 il Tribunale adito pronunziava la risoluzione del preliminare per inadempimento della Taurus Club s.r.l., rigettava la domanda riconvenzionale, condannava la predetta società convenuta ai rimborso della somma di lire 200.000.000, al pagamento della ulteriore somma di lire 200.000.000 a titolo risarcitorio, incrementata quest’ultima della rivalutazione monetaria in lire 40.724.465, oltre interessi sulla somma di lire 400.000.000 dalla domanda.

Interposto appello da parte della Taurus Club s.r.l. e nella resistenza dell’appellato, la Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 810 del 2005 (depositata il 17 marzo 2005), confermava l’impugnata decisione.

A sostegno dell’adottata sentenza la Corte territoriale escludeva l’incapacità a testimoniare del figlio dell’attore, richiamava la seconda scrittura tra le parti in cui si prevedeva il pagamento di lire 150.000.000 al 20 gennaio 1992 a titolo di caparra, di lire 400.000.000 alla stipula del rogito notarile, di lire 100.000.000 entro il 31 gennaio 1992 e si fissava alla data del 31 gennaio 1992 il momento in cui sarebbe dovuto intervenire il saldo del prezzo, consentito successivamente alla stipula, rilevando che, comunque, la stipula con la consegna avrebbe, a tutto voler concedere, dovuto aver luogo entro il termine stabilito per il pagamento del saldo, essendo inconcepibile che il promittente acquirente, pur obbligandosi a pagare l’intero prezzo entro il 31 gennaio 1992, avesse poi rimesso all’arbitrio del venditore ogni decisione in ordine alla data della consegna e alla stipula del definitivo. Rilevava, altresì, la Corte di secondo grado che, in ogni caso, vi era stata la diffida ad adempiere e la risposta data a tale diffida era inverosimile, considerandosi, inoltre, che l’inadempimento dell’appellante non era di scarsa importanza. Rilevava, altresì, la Corte territoriale che, alla stregua della clausola n. 9 contenuta nel contratto preliminare, l’appellante era stata legittimamente condannata, oltre che alla restituzione della caparra incamerata, anche al pagamento dell’ulteriore somma di L. 200.000.000 prevista a titolo di penale per il risarcimento del danno in caso di eventuale risoluzione del contratto.

La Taurus Club s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza di appello basandolo su un unico complesso motivo;

ha resistito il B. con controricorso. Il difensore della ricorrente ha, altresì, depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1. Deve, in primo luogo, essere rigettata l’eccezione di difetto di "ius postularci" formulata nell’interesse del controricorrente sulla scorta dell’assunta genericità della procura speciale apposta a margine del ricorso, non contenente uno specifico riferimento all’impugnazione della sentenza della Corte di appello di Napoli n. 810 del 2005. Infatti, secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte, la procura a ricorrere per cassazione apposta a margine del ricorso, ancorchè con espressioni generiche ed onnicomprensive dell’estensione del mandato, ma che tuttavia non escludano univocamente la volontà della parte di proporre ricorso per cassazione, deve ritenersi speciale, e non generica, proprio in quanto incorporata al ricorso ed in applicazione del principio interpretativo di conservazione dell’atto giuridico di cui è espressione, in materia processuale, l’art. 159 c.p.c. (cfr, ad es., Cass. n. 3349 del 2003 e Cass. n. 2340 del 2006).

2. Con il proposto motivo la ricorrente ha denunciato (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c. e art. 112 c.p.c., nonchè (in virtù dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) il vizio di contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della controversia. In particolare, con tale complessa doglianza, la Taurus club s.r.l. ha inteso dedurre il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale, nel procedere all’interpretazione della clausola n. 9 del contratto preliminare e nel confermare la statuizione di primo grado, pur dando atto che con la predetta clausola le parti avevano inteso escludere l’applicazione del principio della restituzione del doppio della caparra (nel caso di inadempimento della promittente venditrice) introducendo l’obbligo per l’inadempiente di pagare una penale in una misura corrispondente alla caparra stessa, aveva ritenuto che la parte inadempiente fosse obbligata alla restituzione della caparra e, in più, al pagamento della penale pari all’importo della caparra, senza considerare che il promissario acquirente non aveva formulato il necessario recesso. Pertanto, secondo la prospettazione della ricorrente, la Corte partenopea aveva erroneamente liquidato in favore del B., a titolo di penale, il doppio della caparra malgrado tale ipotesi sia prevista in caso di esercizio di recesso e non in caso di risoluzione del contratto, così incorrendo nella violazione dell’art. 1385 c.c., comma 2, ragion per cui, nella specie, il B. avrebbe potuto aver diritto alla sola restituzione della comma conferita di L. 200.000.000 all’atto della stipula del preliminare.

3. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

Al di là del profilo che, nel caso di specie, la ricorrente non ha specificamente dedotto alcuna violazione riconducibile ai criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. c.c. in ordine alla valutazione della contestata clausola di cui al punto n. 9) del contratto preliminare del 18 ottobre 1992 intercorso tra le parti, rileva il collegio che non sussistono nè la dedotta violazione di legge nè il supposto vizio di ultrapetizione (in ordine al quale, peraltro, avrebbe dovuto richiamare la violazione riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) nè la prospettata contraddittorietà del percorso motivazionale. Infatti, con motivazione logica ed adeguata oltre che rispondente alla comune volontà delle parti e alla condotta dalle stesse complessivamente adottata anche posteriormente alla conclusione del suddetto contratto preliminare (all’atto della cui stipula è incontroverso che il B. ebbe a versare la somma di L. 200.000.000 a titolo di caparra), la Corte territoriale ha correttamente statuito che, in effetti, mediante la previsione di cui all’anzidetta clausola (nella quale era stato stabilito che l’inosservanza di una qualsiasi delle clausole contrattuali sarebbe stata causa di rescissione – rectius:

risoluzione – del contratto e la penale rimaneva fissata in una somma pari alla sola caparra), le parti inteso evidentemente escludere l’applicazione del principio della restituzione del doppio della caparra (per l’eventualità dell’inadempimento del promittente venditore), introducendo, tuttavia, l’obbligo per l’inadempiente di corrispondere all’altra parte una penale equivalente (nel suo importo) alla misura della caparra stessa versata al momento della conclusione del preliminare. In tal senso, dunque, ed avendo del tutto legittimamente reintepretato i termini del "decisum" del giudice di primo grado (che era giunto alla medesima conclusione, ancorchè discorrendo impropriamente di restituzione del doppio della caparra, ma distinguendo la funzione delle due differenti somme di L. 200.000.000), la Corte di appello non è incorsa nel supposto vizio di ultrapetizione, avendo qualificato, sul piano giuridico, correttamente la portata della domanda originariamente proposta dal B. sulla base dei fatti posti a suo fondamento e della esatta portata del contenuto contrattuale. Del resto è risaputo che il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (cfr., ad es., Cass. n. 19331 del 2007; Cass. n. 3012 del 2010 e, da ultimo, Cass. n. 23794 del 2011).

Non sussiste – come già preannunciato – nemmeno la prospettata violazione di legge ricondotta all’illegittima applicazione dell’art. 1385 c.c., comma 2. Deve, in proposito, osservarsi che, in tema di caparra confirmatoria, il principio di cui all’art. 1385 c.c., comma 2 (in virtù del quale la parte non inadempiente ha facoltà di recedere dal contratto ritenendo la caparra ricevuta od esigendone il doppio rispetto a quella versata) non è applicabile (come, in effetti, dedotto dalla ricorrente) tutte le volte in cui la parte non inadempiente, anzichè recedere dal contratto, si avvalga del rimedio ordinario della risoluzione del negozio, perdendo, in tal caso, la funzione di liquidazione convenzionale anticipata del danno;

tuttavia, deve affermarsi (cfr., ad es., Cass. n. 11356 del 2006) che, qualora, anzichè recedere dal contratto, la parte non inadempiente si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio (come verificatosi nella specie), la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione, giacchè in tale ipotesi essa perde la suindicata funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 ss. c.c. (salvo che non ne sia stata convenzionalmente predeterminata la misura sotto forma di clausola penale). In altri termini, qualora la parte non inadempiente, invece di recedere dal contratto, manifesti la volontà di optare per l’esercizio del rimedio ordinario della risoluzione del negozio, la restituzione di quanto versato a titolo di caparra è dovuta dalla parte inadempiente quale effetto della risoluzione stessa in conseguenza della caducazione della sua causa giustificativa, senza alcuna necessità di specifica prova del danno, essendo il danno stesso (consistente nella perdita della somma capitale versata alla controparte maggiorata degli interessi) "in re ipsa", mentre la prova richiesta alla parte che abbia scelto il rimedio ordinario della risoluzione del preliminare riguarderà esclusivamente l’eventuale maggior danno subito in conseguenza dell’inadempimento dell’altra parte. Tuttavia, per il caso di previsione cumulativa di caparra e penale nello stesso contratto, tale ulteriore danno sarà automaticamente determinato nel "quantum" previsto a titolo di clausola penale che ha la funzione di limitare il risarcimento del danno nel caso in cui la parte che non è inadempiente preferisca, anzichè recedere dal contratto, domandarne la risoluzione. A tale principio la Corte partenopea si è correttamente attenuta nella fattispecie allorquando, nell’interpretare globalmente la menzionata clausola n. 9 del contratto preliminare in discorso, ha adeguatamente rilevato che, nel caso di inadempimento della promittente venditrice e di intervenuta risoluzione del contratto, la Taurus club s.r.l.

sarebbe stata tenuta alla restituzione della caparra e, in aggiunta, al pagamento della penale quantificata in una misura corrispondente a quella della caparra stessa (e non, quindi, al pagamento della sola penale corrispondente all’importo di L. 200.000.000, evidenziando anche l’illogicità degli effetti discendenti dall’opzione ermeneutica proposta dall’appellante secondo cui il promittente venditore, in caso di risoluzione del contratto, sarebbe stato autorizzato a trattenere la caparra e a pagare soltanto la penale).

Occorre, infine, rilevare che solo nella memoria difensiva ex art. 378 c.p.c. il difensore della ricorrente ha dedotto l’erroneità della sentenza di appello nella parte in cui aveva riconosciuto la rivalutazione monetaria sulla somma computata a titolo di penale.

Tale deduzione, tuttavia, non può essere esaminata, in quanto inammissibilmente proposta solo nella suddetta memoria senza costituire oggetto di autonoma censura nel formulato ricorso per cassazione. La giurisprudenza uniforme di questa Corte (cfr., per tutte, Cass., S.U., n. 11097 del 2006) è concorde nel ritenere che nel giudizio civile di legittimità, con le memorie di cui all’art. 378 c.p.c., destinate esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni già compiutamente svolte con l’atto di costituzione ed a confutare le tesi avversarie, non è possibile specificare od integrare, ampliandolo, il contenuto delle originarie censure che non fossero state prospettate con il detto atto introduttivo, diversamente violandosi il diritto di difesa della controparte in considerazione dell’esigenza per quest’ultima di valersi di un congruo termine per esercitare la facoltà di replica.

4. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile della Corte di cassazione, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

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