Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-06-2012, n. 10893 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 2093 del 2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Torino, in accoglimento della domanda proposta da M.S. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine finale apposto al contratto concluso tra le parti per il periodo 1-6-1999/30-10-1999, per "esigenze eccezionali" ex art. 8 ccnl del 1994 come integrato dall’acc. az. 25-9-97 e succ, con la conseguente sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato e condannava la società al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di ricezione della richiesta per tentativo obbligatorio di conciliazione oltre accessori, detratto l’aliunde perceptum.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con il rigetto della domanda.

La M. si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza depositata il 5-2-2007, respingeva l’appello.

Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso con due motivi.

La M. è rimasta intimata.

La società, infine, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la società lamenta che la Corte territoriale, violando la L. n. 56 del 1987, art. 23 gli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione all’accordo 25-9-97 e ai successivi accordi integrativi, erroneamente ha subordinato la legittimità del termine apposto al contratto de quo alla dimostrazione della sussistenza del nesso eziologico tra l’assunzione del singolo lavoratore e le esigenze dedotte in contratto, anche con riferimento allo specifico ufficio di applicazione, dovendo, invece, ritenersi legittimo il termine anche in assenza della prova del nesso causale tra tali esigenze e la specifica assunzione per cui è causa, non avendo le parti collettive previsto nè voluto tale requisito.

Il motivo non può essere accolto, anche se la motivazione della sentenza merita di essere in parte corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., come più volte affermato da questa Corte in casi analoghi di ricorsi avverso sentenze dello stesso tenore (v. fra le altre Cass. 24-3-2009 n. 7042, Cass. 22-1-2009 n. 1626, Cass. 7-1- 2009 n. 41, Cass. 12-11-2008 n. 27030, Cass. 19-11-2008 n. 27470).

Peraltro la questione, come emerge dalla lettura del ricorso stesso, risulta già ampiamente trattata nel giudizio di merito, avendo la società con l’appello ribadito chiaramente la natura ricognitiva degli accordi attuativi dell’acc. az. 25-9-97.

In specie la decisione impugnata, nella parte in cui ha affermato la illegittimità del termine apposto al contratto de quo, deve ritenersi conforme a diritto anche se la motivazione della sentenza deve ritenersi parzialmente erronea.

In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al D.Lgs. n. 368 del 2001), sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esarne congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento tra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8- 2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1- 10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In base al detto orientamento, ormai consolidato, deve quindi ritenersi illegittimo il termine apposto al contratto in esame per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo il 30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto normativo.

Con il secondo motivo la società, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, art. 1362 c.c., comma 2, e art. 2697 c.c., e art. 115 c.p.c., nonchè omessa e insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante "la mancanza di una qualsiasi manifestazione di interesse alla funzionalità di fatto di un contratto a termine (in ipotesi) illegittimamente apposto" per un rilevante periodo prolungato di tempo, e nonostante che dalla copia del libretto di lavoro in atti fosse emerso che la M. dal 7-3-2001 aveva reperito altra occupazione stabile presso altra società.

In particolare la società lamenta, poi, che la Corte di merito "non si è in alcun modo preoccupata di accertare l’eventuale volontà dismissiva dell’odierna intimata" e deduce altresì che la M., invitata a riprendere servizio in esecuzione della sentenza di primo grado e non essendosi presentata, è stata licenziata con lettera del 15-9-2005.

Il motivo non merita accoglimento.

Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonchè da ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, "è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. da ultimo Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2.011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1- 2-2010 n. 2279).

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23-7-2004 n. 13891 e Cass. 6-7- 2007 n. 15264).

Orbene nella fattispecie la Corte territoriale, premesso che la società "avrebbe dovuto dedurre, e provare, un comportamento della lavoratrice che costituisse chiara ed univoca manifestazione, rivolta nei confronti della stessa società, della volontà di rinunciare alla ricostituzione del rapporto di lavoro con le Poste Italiane", ha affermato che nella fattispecie "tale prova non è stata fornita".

In particolare la Corte di merito ha osservato che "anzitutto, è irrilevante che la lavoratrice abbia atteso anni prima di chiedere alle Poste di essere riammessa in servizio, atteso che non si può esigere che il lavoratore reiteri l’offerta della propria prestazione lavorativa ad un datore di lavoro che non appare più interessato alla sua attività".

La Corte, inoltre, ha affermato che "neppure l’accettazione, da parte del lavoratore, di un’altra stabile occupazione lavorativa ha il significato inequivoco di dismissione delle pretese nei confronti del precedente datore di lavoro, sia perchè è ben comprensibile che il prestatore, in assenza di altre chiamate da parte di Poste Italiane, abbia cercato di impegnarsi in altra attività non potendo vivere senza alcun reddito, sia perchè l’art. 1227 c.c., comma 2 gli imponeva di adoperarsi con l’ordinaria diligenza per limitare le conseguenze dannose dell’illegittima cessazione del rapporto di lavoro con Poste".

Tale accertamento di fatto risulta conforme ai principi sopra richiamati e resiste alla censura della ricorrente, la quale, in sostanza, da un lato si limita ad invocare la prolungata inerzia con la mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto, e dall’altro lamenta una omessa motivazione sull’accertamento della "volontà dismissiva" della lavoratrice, accertamento che, invece, non solo è stato effettuato dalla Corte di merito ma risulta altresì congruamente motivato.

Nè al riguardo poteva assumere rilevanza l’evento successivo del licenziamento del 2005, in quanto tale evento (peraltro chiaramente incompatibile con l’asserita precedente risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito) è estraneo all’oggetto del presente giudizio.

In tal senso, quindi, va respinto il ricorso, non essendo stata, peraltro, avanzata alcuna altra censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine ed il capo relativo al risarcimento del danno.

Al riguardo, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

Orbene, a prescindere da ogni altra considerazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

Tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Infine non deve provvedersi sulle spese, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

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