Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 12-10-2011) 09-12-2011, n. 45905

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza del 17 maggio 2006 il G.u.p. del Tribunale di Macerata, in sede di giudizio abbreviato, condannava T. S. alla pena di due mesi e venti giorni di reclusione per il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.), oltre alle spese processuali e al risarcimento dei danni in favore del coniuge, B.F., costituitasi parte civile, mentre lo assolveva dal reato di calunnia e da quello di tentata violenza privata.

La Corte d’appello di Ancona, in accoglimento dell’impugnazione del pubblico ministero, ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, appellata anche dall’imputato, e ha ritenuto questi responsabile anche dei due reati dai quali era stato assolto, condannandolo alla pena complessiva di tre anni di reclusione, con l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni.

I giudici di secondo grado hanno ritenuto fondate le accuse contenute nei capi di imputazione originariamente contestati, secondo cui il T. avrebbe presentato una denuncia presso la procura della Repubblica di Macerata, successivamente confermata in sede di sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria, in cui accusava la moglie, B.F., dalla quale era separato, di violenza sessuale, anche di gruppo, in danno dei figli G. e Gi., con riferimento anche a periodi in cui erano minori degli anni sedici; inoltre, avrebbe registrato indebitamente, mediante l’uso di appositi strumenti, quanto avveniva nel domicilio domestico in cui vivevano il coniuge e i figli; infine, avrebbe costretto la moglie, sotto la minaccia di presentare una falsa denuncia nei suoi confronti, a rinunciare alla casa coniugale e a consentire che la figlia minore G. fosse affidata a lui.

2. – Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato e con un primo motivo deduce il vizio di motivazione e l’erronea valutazione delle prove in relazione all’art. 192 c.p.p., per avere la Corte d’appello fondato il giudizio di colpevolezza sulle scelte processuali dell’imputato, così traendo argomenti a suo carico dalla omessa produzione nell’udienza preliminare della consulenza fonica relativa alle conversazioni captate, nonchè dalla presentazione dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, tutte circostanze di nessun rilievo probatorio. Inoltre, con lo stesso motivo lamenta l’immotivato diniego dell’integrazione probatoria richiesta nel giudizio di merito sul materiale intercettato.

Con un secondo motivo censura la sentenza, in relazione al reato di tentata violenza privata, rilevando che il giudizio di colpevolezza si fonda sulle accuse della moglie contenute nella querela scritta, senza che i giudici abbiano compiuto alcuna valutazione sull’attendibilità della persona offesa, portatrice di un interesse anche economico alla condanna dell’imputato, essendosi costituita parte civile. Sotto diversi profili eccepisce l’inutilizzabilità della sentenza del Tribunale di Macerata del 15.12.2008 relativa ad un fatto del tutto diverso contestato all’imputato, sentenza che la Corte territoriale ha comunque preso in considerazione.

Con il terzo motivo deduce il vizio di motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 368 c.p., anche sotto il profilo del dolo. In particolare, si evidenzia come dalle stesse conclusioni contenute in sentenza e dalle indagini tecniche svolte dal consulente di parte (ing. P.) sul materiale intercettato, in cui si è sottolineata la difficoltà di comprensione delle conversazioni intercettate e si sono comunque individuate alcune frasi equivoche pronunciate dalle persone oggetto della captazione, i giudici avrebbero dovuto desumere quantomeno il dubbio sulla mancanza, da parte dell’imputato, della consapevolezza dell’innocenza della moglie. Il ricorso passa poi in rassegna, in maniera analitica, gli argomenti utilizzati dalla sentenza per sostenere l’esistenza del dolo, sottoponendoli ad una serie di censure finalizzate a dimostrare l’illogicità della motivazione.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce l’erronea applicazione dell’art. 615 bis c.p. e il connesso vizio di motivazione. In particolare, assume che l’imputato, dinanzi al sospetto che i figli minori potessero subire atti di violenza sessuale, quale genitore e portatore di una posizione di garanzia dei figli minorenni, aveva l’obbligo di rivolgersi all’autorità giudiziaria, sicchè il ricorso al sistema delle intercettazioni e, quindi, ad un’attività invasiva della vita privata del coniuge e degli stessi figli, aveva l’unico scopo di corredare l’eventuale denuncia di elementi probatori idonei.

Riprendendo argomenti già utilizzati nell’atto di appello, il ricorrente evidenzia come nella valutazione di tale condotta, di per sè illecita, rivesta un ruolo delicato l’accertamento del profilo del dolo e della ricorrenza di eventuali scriminanti. In particolare, sostiene che gli obblighi nascenti dalla posizione di garanzia del genitore valgono a conferire all’attività invasiva della sfera privata una "funzione pubblicistica", cioè quella di tutelare l’integrità psico-fisica dei minori, bene protetto dalla norma che l’imputato riteneva violata, quella di violenza sessuale; in ogni caso, considerata la situazione di emergenza che l’imputato si era rappresentato, assume che l’antigiuridicità della condotta posta in essere debba essere esclusa o alla luce della scriminate di cui all’art. 51 c.p., sussistendo in capo al T. il dovere, ex art. 147 c.c., di impedire l’evento lesivo in danno dei figli minori, ovvero in virtù della causa di giustificazione di cui all’art. 52 c.p. sulla legittima difesa.

Secondo il ricorrente, tali argomenti, come pure quelli attinenti alla putatività delle scriminati, non sono stati presi in esame dalla sentenza impugnata, che li ha liquidati in maniera apodittica.

Con il quinto motivo si lamenta la violazione dell’art. 133 c.p. in materia di determinazione della pena.

Motivi della decisione

3. – Il ricorso è inammissibile.

3.1. – Preliminarmente, deve rilevarsi la manifesta infondatezza delle critiche relative alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, dovendo condividersi pienamente le valutazioni contenute nella sentenza impugnata (v. pag. 6-8).

3.2. – Ciò che emerge dagli articolati motivi proposti è il tentativo di offrire una lettura alternativa in ordine alla ricostruzione dei fatti così come ritenuti in sentenza, ponendo in essere un’operazione che non è consentita in sede di legittimità.

Occorre ribadire che, ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile, cioè l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Peraltro, l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente ("manifesta illogicità"), cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze (Sez. 1, 26 settembre 2003, Castellana ed altri). In altri termini, l’illogicità della motivazione, deve risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. 4, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri). Inoltre, va precisato, che il vizio della "manifesta illogicità" della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica "rispetto a se stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica (Cass., Sez. 4, 2 dicembre 2004, Grado ed altri).

I limiti del sindacato della Corte non sono mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) intervenuta a seguito della L. 20 febbraio 2006, n. 46, là dove si prevede che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia sia "effettiva" e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; non sia internamente "contraddittoria", ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi del suo ricorso per cassazione: c.d. autosufficienza) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico.

Alla Corte di Cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito.

Così come non sembra affatto consentito che, attraverso il richiamo agli "atti del processo", possa esservi spazio per una rivalutazione dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito. In altri termini, al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre, anche nel quadro nella nuova disciplina, essa è e resta giudice della motivazione.

3.3. – Sostituire la propria ricostruzione dei fatti a quella contenuta in sentenza è l’operazione condotta dal ricorrente nei primi tre motivi, là dove ha dedotto anche il vizio di motivazione senza dimostrare che le argomentazioni utilizzate dai giudici d’appello fossero intrinsecamente illogiche o contraddittorie.

3.3.1. – In particolare, non può certo affermarsi, come sostenuto nel ricorso, che la sentenza abbia fondato il proprio giudizio sulle scelte processuali dell’imputato, in quanto la sua colpevolezza è stata riconosciuta in base ad una serie di elementi di accusa, tra cui le dichiarazioni della persona offesa e le stesse ammissioni del T., rispetto ai quali le argomentazioni relative alla omessa produzione in sede di udienza preliminare della consulenza fonica rappresentano un semplice riscontro logico alla tesi accusatoria.

3.3.2. – Allo stesso modo, appaiono manifestamente infondate le critiche sulla mancata valutazione di attendibilità della persona offesa: al contrario, la parziale riforma della sentenza di primo grado viene giustificata proprio da una attenta rivalutazione delle dichiarazioni di B.F., che vengono ritenute pienamente attendibili, sia dal punto di vista soggettivo, perchè prive di contraddizioni, che da quello oggettivo, essendo riscontrate (v. pag.

18-20 della sentenza impugnata).

Nell’economia della motivazione, nessun rilievo determinate ha avuto il riferimento alla sentenza del Tribunale di Macerata del 15.12.2008, di cui la difesa chiede l’inutilizzabilità. 3.3.3. – E’ soprattutto con il terzo motivo che il ricorrente offre una lettura alternativa a quella contenuta nella sentenza impugnata, mettendo in discussione la sussistenza del dolo nel delitto di calunnia. I giudici di appello hanno ritenuto la totale infondatezza delle gravi accuse mosse dall’imputato nei confronti della moglie, desumendo l’esistenza del dolo dall’accertata incongruenza del contenuto delle registrazioni eseguite dall’imputato e le trascrizioni delle stesse da questi effettuate: in altre parole, la sentenza ha preso in esame gli accertamenti di polizia giudiziaria e la consulenza fonica fatta eseguire dalla parte civile sul materiale registrato, da cui è emerso che le trascrizioni del T. non hanno trovato il minimo riscontro nelle registrazioni, in cui non vi è alcuna traccia di frasi riconducigli a rapporti sessuali di qualsiasi tipo o a possibili situazioni scabrose, come quelle denunciate dall’imputato. Dopo avere acquisito questo dato obiettivo i giudici sono passati a verificare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, desumendolo dalle stesse modalità esecutive della condotta posta in essere dall’imputato, giungendo a riconoscere l’esistenza del dolo, nella forma della premeditazione: nella delicata ricostruzione degli elementi dimostrativi del dolo, un ruolo fondamentale acquista non solo la tempistica nel rapporto tra registrazione, denuncia e procedimento di separazione, ma soprattutto il contenuto stesso della denuncia presentata nel settembre del 2004, di cui i giudici riportano alcuni passaggi dove l’imputato rivolge accuse pesantissime al coniuge, poi ribadite nel ricorso ex art. 136 bis c.p.c.. Inoltre, viene messo in rilievo la strumentalizzazione di tali presunte registrazioni compromettenti che l’imputato tenta di fare con il proprio coniuge, al fine di ottenere la casa coniugale, comportamento che i giudici ritengono del tutto incongruente per un genitore che effettivamente ritenga che i propri figli stiano correndo pericoli così gravi per la loro integrità psico-fisica.

Il ricorrente, anche in questa sede, assume che i giudici avrebbero dovuto avere quantomeno il dubbio circa la mancanza di consapevolezza, da parte dell’imputato, dell’innocenza dell’accusata, dimenticando che la sentenza ha preso in esame anche tale aspetto, fornendo al riguardo risposte convincenti e logiche, oltre che rispettose delle norme applicabili. Infatti, la mancanza di consapevolezza dell’innocenza, che può portare ad escludere il dolo, presuppone che il soggetto attivo del reato di calunnia abbia un ragionevole motivo di ritenere la colpevolezza dell’accusato, sulla base di elementi seri e pregnanti, laddove se alla base del convincimento vi siano elementi equivoci o superficiali si finisce per ricadere nel terreno dei sospetti "temerari e irragionevoli", rientranti nel campo degli atteggiamenti psicologici idonei a fare escludere la mancanza di consapevolezza della innocenza dell’incolpato, con conseguente sussistenza del dolo richiesto nel reato di cui all’art. 368 c.p. (Sez. 6, 6 novembre 2009, n. 3964, De Bono; Sez. 6, 6 novembre 2009, n. 46205, Demattè).

3.4. – Manifestamente infondato è anche il quarto motivo. Nessuna posizione di garanzia può giustificare una condotta calunniosa, nè in questo caso può esservi spazio per l’applicazione degli invocati artt. 51 e 52 c.p., soprattutto dopo avere escluso ogni ipotesi di buona fede nella condotta dell’imputato. A questo proposito il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non abbia preso in esame questi motivi, fatti valere nell’atto di appello: si osserva che in sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa è disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata; infatti, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa (Sez. 2, 19 maggio 2004, n. 29434, Candiano; Sez. 2, 26 maggio 2009, n.33577, Bevilacqua). Nel caso in esame, il riconoscimento della sussistenza del reato di calunnia e, quindi, della premeditazione dolosa della condotta dell’imputato nell’utilizzazione delle registrazioni giustifica l’omesso esame delle tesi difensive dedotte, in quanto oggettivamente incompatibili con la ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza.

3.5. – Del tutto infondato è, infine, il motivo con cui il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 133 c.p.: la sentenza ha fatto una corretta applicazione di tale norma, giustificando l’entità della pena applicata e l’esclusione delle attenuanti genetiche con la gravità del fatto, l’intensità del dolo e la mancanza del minimo segno di resipiscenza, tutti criteri contemplati dall’art. 133 c.p. Per quanto riguarda il riferimento al comportamento processuale, si osserva che è nella logica del sistema che l’imputato possa dare risposte contrarie al vero e possa negare la propria responsabilità anche contro l’evidenza, in armonia con il principio nemo tenetur se detegere; tuttavia se da un tale atteggiamento non può dedursi alcun elemento positivo di prova è pur vero che di esso il giudice possa tenere comunque conto – secondo le indicazioni dell’art. 133 c.p. proprio perchè inerisce alla condotta del colpevole – ai fini di valutarne la personalità in vista di un pronostico sulla condotta futura.

4. – In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende, che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00; inoltre, l’imputato deve essere condannato anche a rimborsare le spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano in Euro 2.500,00 per onorari, aumentati del 12,5 % per le spese generali, oltre i.v.a. e c.p.a..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende e, inoltre, lo condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in Euro 2.500,00 per onorari, aumentati del 12,5 % per spese generali, oltre i.v.a. e c.p.a..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *