Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 26-09-2011) 09-12-2011, n. 45909

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1 .-. R.S., L.L., L.E., P. B. e F.G. hanno proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, con la quale il Tribunale di Bologna, adito ex art. 309 c.p.p., ha annullato la misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di L.E. e di L.L. un riferimento al capo B) (tentata estorsione aggravata in concorso ai danni di G. L.), disponendone la scarcerazione formale, e ha confermato detta misura nei confronti di tutti gli indagati in riferimento al capo A) (estorsione aggravata in concorso ai danni di B. M.).

R.S. deduce violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza della aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. A suo avviso, il Tribunale avrebbe errato nel porre a fondamento di tale aggravante unicamente le impressioni riportate dalla parte lesa senza indicare ulteriori elementi e senza considerare che nessun riferimento era stato fatto da parte dell’indagato a specifici gruppi mafiosi o camorristici operanti nel territorio L.L. eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a suo carico, sostenendo in particolare che il contenuto delle intercettazioni effettuate non sarebbe dotato dei necessari requisiti di certezza, precisione e concordanza. Denuncia altresì gli stessi vizi in riferimento alla ritenuta sussistenza della aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, con argomenti analoghi a quelli sopra illustrati.

L.E. lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento ai gravi indizi di colpevolezza, in quanto, in particolare, il Tribunale non avrebbe tenuto conto del provvedimento del Tribunale del Riesame di Napoli in data 7-3-11, con cui si era annullata la misura per mancanza della motivazione in ordine alla urgenza di cui all’art. 27 c.p.p. Eccepisce poi la nullità dell’ordinanza in data 29-3-11 per violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato interrogatorio di esso L. E. nel termine di cinque giorni dalla esecuzione della misura.

Gli ulteriori motivi di ricorso sono del tutto analoghi a quelli formulati nell’interesse di L.L. e sopra sinteticamente riportati.

P.B. denuncia violazione di legge, sostenendo la nullità ovvero la inutilizzabilità delle dichiarazioni del B. (sulle quali erano fondate le accuse) in quanto rese da soggetto che si sarebbe autoindiziato del reato di cui all’art. 629 c.p., aggravato ex L. n. 203 del 1991, art. 7. Eccepisce altresì gli stessi vizi in ordine alla ritenuta sussistenza a suo carico dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari. Infine F.G. deduce in primo luogo la nullità ed abnormità dell’ordinanza impugnata, in quanto avrebbe confermato l’ordinanza con la quale il GIP di Bologna, territorialmente competente, pronunciandosi ex art. 27 c.p.p. a seguito di dichiarazione di incompetenza per territorio, aveva confermato la misura coercitiva del GIP di Nola medio tempore annullata dal Tribunale del Riesame competente in ordine alla misura interinale. In secondo luogo eccepisce la violazione dell’art. 294 c.p.p. con conseguente inefficacia della misura per avere il GIP omesso di effettuare l’interrogatorio entro cinque giorni dalla esecuzione della nuova misura. Con il terzo ed il quarto motivo di ricorso denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza degli indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari.

2 .-. P.B. risulta scarcerato in data 2-8-11, e cioè successivamente alla presentazione del ricorso in discussione. Ne deriva la esigenza di verificare, preliminarmente, la persistenza dell’interesse al ricorso in capo all’indagato. Secondo un oramai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in materia cautelare l’interesse alla impugnazione persiste in capo all’indagato, pur se rimesso in libertà, in relazione all’accertamento della sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., in quanto tale accertamento può costituire presupposto per il riconoscimento del diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare ingiustamente subita (Sez. Un. n. 20 del 12-10-1993, Durante).

Corollario di tale principio è che l’interesse alla impugnazione di un provvedimento coercitivo dopo la cessazione della misura cautelare non permane quando l’impugnazione è diretta ad ottenere una decisione sulla sussistenza delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 c.p.p. o sulla scelta tra le diverse misure possibili ai sensi dell’art. 275 c.p.p., in quanto si tratta di cause di illegittimità inidonee a fondare il diritto di cui all’art. 314 c.p.p., stante la tassatività della formulazione di tale disposizione, che si riferisce esclusivamente alle condizioni di applicabilità delle misure di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. (sez. 6, 26-5-2004, n. 37894, Torriglia; sez. 5, 9-12-1993, n. 4091, Lazzarini).

Già in applicazione di questi principi in riferimento ai motivi di ricorso in cui si fa questione unicamente di esigenze cautelari deve concludersi per la insussistenza di un attuale interesse ad impugnare in capo all’indagato.

Deve però rilevarsi che, come recentemente osservato da questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 1956 del 15-11-2006, Campodonico), anche quando viene contestata la sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari è pur sempre necessaria la verifica della attualità e della concretezza dell’interesse, tenuto conto che l’art. 568 c.p.p., comma 4, richiede, come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza di un interesse che abbia tali caratteri, sia diretto cioè a rimuovere un effettivo pregiudizio che la parte asserisce di avere subito con il provvedimento impugnato, interesse che deve persistere sino al momento della decisione. Pertanto, come precisato anche nella citata sentenza delle Sezioni Unite, tale interesse "non può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato", priva cioè di incidenza pratica sulla economia del procedimento. Conseguentemente "una applicazione pressochè automatica dei principi posti dall’orientamento più volte ricordato delle Sezioni Unite presenta il rischio di accogliere una nozione di "interesse" troppo ampia, che finisce per presumere sempre e comunque che l’indagato agisca anche al fine di precostituirsi il titolo in funzione di una futura richiesta di un’equa riparazione per la ingiusta detenzione ai sensi della disposizione contenuta nell’art. 314 c.p.p., comma 2, che tra l’altro disciplina una fattispecie tendenzialmente eccezionale e residuale rispetto alle altre ipotesi previste". In realtà è proprio la presunzione della esistenza di un interesse, scollegata da ogni manifestazione di volontà in tal senso, ad essere il sintomo più eloquente della mancanza di un interesse attuale e concreto alla impugnazione. Ne deriva che "in difetto di una espressa indicazione che dimostri l’intenzione di una futura utilizzazione della pronuncia, l’interesse in questione finisce per essere commisurato al probabile successo dell’azione di riparazione e l’impugnazione diventa lo strumento per rimuovere un pregiudizio futuro, solo teoricamente ed eventualmente collegato al provvedimento impugnato, là dove è pacifico che la situazione pregiudizievole che l’impugnazione tende a rimuovere deve porsi in rapporto causale con l’atto impugnato, del quale deve essere conseguenza immediata e diretta". Ciò comporta quanto meno l’onere a carico del ricorrente di rappresentare l’esistenza di un simile interesse anche con riferimento alla mancanza delle cause ostative di cui all’art. 314 c.p.p., comma 4: occorre cioè che "la parte manifesti, in termini positivi ed univoci, la sua intenzione di servirsi della pronuncia richiesta in vista della azione di riparazione per l’ingiusta detenzione, intenzione che, naturalmente, nel giudizio in cassazione può essere comunicata dal difensore direttamente in udienza ovvero attraverso memorie scritte".

In proposito deve ulteriormente precisarsi che a tale scopo non può ritenersi sufficiente la mera generica richiesta di trattazione del ricorso, formulata dal difensore alla udienza camerale, sul presupposto che l’indagato starebbe valutando se agire per la riparazione della ingiusta detenzione. Occorre quanto meno che la volontà di agire in tal senso da parte dell’interessato sia reale e non meramente ipotetica, risulti con certezza e sia documentata in modo idoneo.

Pertanto il ricorso del P. deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse anche in riferimento alle censure in cui si fa questione di sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura, per le quali non risulta alcuna sicura e documentata manifestazione di volontà da parte dell’interessato, diretta ad utilizzare la decisione al fine di proporre l’azione di riparazione ex art. 314 c.p.p..

3 .-. I residui ricorsi sono infondati.

A quanto risulta dagli atti, a seguito del fermo operato nei riguardi del F. nel circondario di Nola, il predetto era stato sottoposto a convalida del GIP di Nola, il quale, pur non convalidando la misura precautelare, gli aveva applicato la custodia cautelare in carcere, spogliandosi della competenza ex art. 27 c.p.p..

La predetta misura era stata impugnata innanzi al Tribunale del Riesame di Napoli, che, con ordinanza in data 11-3-2011, la aveva annullata per mancanza della motivazione in ordine all’urgenza di cui all’art. 27 c.p.p., rimettendo in libertà il F..

Il GIP di Bologna aveva poi, in data 15-3-2011, "confermato" ex art. 27 c.p.p. la misura custodiate nei confronti del F..

Da quanto sopra emerge chiaramente che il precedente annullamento della misura cautelare risulta disposto dal Tribunale di Napoli per motivi esclusivamente formali e che, al di là della terminologia usata dal GIP di Bologna ("conferma"), sta di fatto che questi, quale giudice competente per territorio, non avendo nei suoi confronti alcuna efficacia preclusiva l’annullamento di Napoli, ha "applicato" nei confronti del F. la richiesta misura custodiale (v. S.U. n. 15 del 18-6-93, rv. 194315). D’altra parte questa Corte ha già chiarito che il provvedimento di custodia cautelare disposto dal giudice per le indagini preliminari che, contestualmente, si dichiari incompetente viene, a tutti gli effetti, sostituito dalla ordinanza pronunciata tempestivamente dal giudice competente, cioè entro i venti giorni previsti dall’art. 27 c.p.p.. Ne consegue che la decisione del tribunale del riesame, avente ad oggetto l’ordinanza del giudice incompetente, non ha effetto sullo "status libertatis" dell’imputato, il cui unico titolo è costituito dal provvedimento pronunciato dal giudice competente, di talchè alla prima ordinanza non può essere riconosciuta alcuna efficacia preclusiva (Sez. 5, Sentenza n. 28563 del 27/06/2007, Rv. 237570, Gallo). Dalle considerazioni sopra svolte discende la infondatezza del primo motivo di ricorso del F. e, trattandosi delle medesime censure, anche dei motivi del ricorso di L.E. incentrati sull’asserito effetto preclusivo del precedente annullamento pronunciato dal Tribunale di Napoli.

Quanto alla seconda censura formulata dal F. e dal L. E., deve ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, da cui non vi sono valide ragioni per discostarsi, "in materia di impugnazioni avverso i provvedimenti limitativi della libertà personale, nel procedimento incidentale di riesame disciplinato dall’art. 309 c.p.p. – e nel successivo giudizio di Cassazione – non sono deducibili, nè rilevabili di ufficio, questioni relative all’inefficacia della misura cautelare diverse da quelle concernenti l’inosservanza dei termini stabiliti dai commi 5 e 9 dello stesso articolo (Nella specie, si trattava di asserita inefficacia della misura per il mancato interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p.; la Suprema Corte, nell’enunciare il principio di cui in massima, ha ritenuto inammissibile la questione, riproposta in Cassazione in conseguenza di declaratoria di inammissibilità pronunciata in sede di riesame, ed ha precisato che la questione stessa – in quanto estranea all’ambito del riesame – avrebbe dovuto formare oggetto di istanza al giudice del procedimento principale, con conseguente provvedimento ex art. 306 c.p.p. soggetto all’appello previsto dall’art. 310 c.p.p." (Sez. 4, 6.5.1999, n, 1430, Barbaro, m. 214243; Sez. 6, 10.6.2003, n. 29564, Vinci, m. 225222).

Ne deriva la infondatezza anche di questi motivi di ricorso (v. da ultimo: Sez. 3, Sentenza n. 16386 del 10/02/2010, Rv. 246768, Vidori).

Con le ulteriori censure il F. e i due L. hanno denunciato violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari a loro carico. Si tratta di motivi inammissibili per genericità e per manifesta infondatezza. Il Tribunale di Bologna ha, infatti, espressamente preso in esame tutte le doglianze oggi riproposte, osservando che le risultanze delle indagini avevano dimostrato la sussistenza di una grave piattaforma indiziaria a carico dei prevenuti in ordine ai reati loro ascritti (ad eccezione del capo B) nei riguardi dei due L.). In particolare il Tribunale si è ampiamente diffuso in una analitica ricostruzione dei fatti, ricostruzione operata in termini non soltanto logici e coerenti, ma anche aderenti alle risultanze delle indagini. Quanto alle esigenze cautelari, il Tribunale non solo ha ritenuto operativa la presunzione di cui all’art. 275 cpv. c.p.p., ma ha ritenuto in concreto sussistente il pericolo di reiterazione di fatti della stessa specie (art. 274 c.p.p., lett. c). A fronte di queste coerenti conclusioni, i ricorrenti, come si è visto, si sono sostanzialmente limitati a prospettare rilievi del tutto generici ed apodittici e a contestare in modo del tutto assertivo la sussistenza del quadro indiziario a loro carico e la attualità delle esigenze cautelari, proponendo ricostruzioni alternative dei fatti. In definitiva, il tessuto motivazionale dell’ordinanza censurata non presenta affatto quella carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua dei principi affermati da questa Corte, può indurre a ritenere sussistente il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), nel quale si risolvono queste censure.

Restano da esaminare i motivi formulati da R.S. e dai L. in riferimento alla ritenuta sussistenza della aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. Anche in questo caso però non può non rilevarsi che, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, il Tribunale ha attentamente vagliato detta aggravante, ritenendola nel caso di specie sussistente, essendosi gli indagati presentati come un unico sodalizio composto da soggetti di origine campana con solidi rapporti con le consorterie malavitose operanti nella loro Regione di provenienza e avendo i correi espressamente evocato il potenziale intimidativo mafioso (si pensi a uno dei L. che riferisce alla vittima che il P. era affiliato al clan Tutolo; si pensi a L.L. che mostra alla parte lesa una pistola, dicendogli che era meglio cautelarsi…) In definitiva, le argomentazioni del Tribunale, oltre a costituire applicazione di consolidati orientamenti giurisprudenziali, appaiono logiche ed adeguate e, a fronte di esse, i ricorrenti si sono sostanzialmente limitati, anche in questo caso, a dedurre, in modo apodittico, tesi di segno contrario e ad insistere in ricostruzioni alternative dei fatti. Ma non può costituire vizio deducibile in sede di legittimità la mera prospettazione di una diversa (e, per i ricorrenti, più adeguata) valutazione delle risultanze processuali.

Non rientra, infatti, nei poteri di questa Corte quello di compiere una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, essendo il sindacato in questa sede circoscritto alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione.

4 .-. Al rigetto dei ricorsi di R.S., L.L., L.E. e F.G. consegue la condanna di ciascuno dei predetti al pagamento delle spese processuali. La Cancelleria provvedere agli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di P.B. per sopravvenuta carenza di interesse. Rigetta gli altri ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
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