Cass. civ. Sez. V, Sent., 28-06-2012, n. 10824

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 53/12/09, depositata il 16.4.2009, la CTR del Lazio, in accoglimento dell’appello proposto dal Comune di Roma, ha rigettato il ricorso proposto dalla MG Adverting S.r.l. avverso svariati avvisi d’accertamento, relativi ad imposta sulla pubblicità per l’anno 2001. Dopo aver affermato la legittimazione del dirigente del servizio a rappresentare il Comune in giudizio, i giudici d’appello hanno ritenuto che l’Ente aveva dato prova delle ragioni della pretesa impositiva per ciascun impianto, mentre la Società aveva solo svolto difese generiche e non aveva prodotto le ricevute di pagamento relative al periodo in contestazione.

La Società MG Adverting ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato ad otto motivi, successivamente illustrati da memoria. Il Comune di Roma ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

La produzione documentale depositata dalla ricorrente alla pubblica udienza è inammissibile: non solo non risultano osservate le forme di cui all’art. 372 c.p.c., comma 2 (ed il Comune non è intervenuto in udienza, cfr., in proposito, Cass. SU n. 450 del 2000, n. 529 del 2003; n. 14657del 2009), ma il documento non attiene, neppure in astratto, all’ammissibilità del ricorso, trattandosi, invero, di una circolare del Dipartimento Regolazione e Gestione Affissioni e Pubblicità del Comune di Roma, che detta adempimenti e tempi per completare la procedura di definizione agevolata delle liti, di cui alla Delib. CC n. 31 del 2009, per i contribuenti che avevano tempestivamente presentato istanza di "adesione generica".

I motivi del ricorso sono inammissibili: come non ha mancato di far rilevare il controricorrente, nessuno di essi è, infatti, corredato dalla formulazione del quesito di diritto nè contiene l’esposizione del momento di sintesi, in violazione dell’art. 366-bis c.p.c., in base al quale, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr. Cass. n. 4556 del 2009), la censura con cui si deduce un vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a "dieta" giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso, in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende la motivazione inidonea a giustificare la decisione. Questa Corte ha, in particolare, precisato che in un sistema processuale che già prevedeva la redazione del motivo, con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., consiste, proprio, nell’imposizione al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della censura, onde favorire la formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, il miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità (v. tra le altre, Cass. N. 20409/2008 n. 2799/2011).

Deve solo aggiungersi che l’abrogazione dell’art. 366 bis c.p.c., intervenuta ai sensi della L. n. 69 del 2009, art. 47, è diventata efficace, della citata L. n. 69 del 2009, ex art. 58, comma 5, per i ricorsi avanzati con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente all’entrata in vigore della legge stessa (4.7.2009), con la conseguenza che per quelli pubblicati, come nella specie, antecedentemente (e nella vigenza del D.Lgs. n. 40 del 2006), tale norma è ancora applicabile (cfr. Ord. n. 7119/2010, Cass. n. 26364/2009).

Le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’intimato delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.500,00, di cui Euro 100,00 per spese, oltre ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

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