Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., 03-07-2012, n. 11100 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ricorso alla Corte d’appello di Napoli, T.A., R.C. e R.S., quali eredi di R.A. deceduto nel (OMISSIS), proponevano domanda di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001 per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata del giudizio in materia di impiego pubblico, instaurato dal loro dante causa dinanzi al TAR Campania nell’aprile 1999, e definito in primo grado con sentenza di rigetto nell’aprile 2008. La Corte d’appello rigettava la domanda, ritenendo nella specie di poter escludere che il dante causa dei ricorrenti (questi ultimi non si erano costituiti nel giudizio presupposto) avesse subito il pregiudizio non patrimoniale normalmente conseguente al protrarsi del giudizio oltre la durata ragionevole, considerando la presumibile sua originaria consapevolezza della inconsistenza delle proprie pretese, avendo proposto un ricorso collettivo in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale sulla interpretazione della normativa applicabile nella specie, e non avendo mai assunto le pur possibili iniziative per ottenere – secondo la prassi consolidata- la più sollecita definizione del giudizio.

2. Avverso tale decreto gli eredi R. hanno proposto ricorso a questa Corte, illustrato anche da memoria, cui resiste l’Amministrazione intimata con controricorso.

3. Il collegio ha disposto farsi luogo a motivazione semplificata.

4. Con i primi due motivi si censura, sotto il profilo della violazione di norme di diritto (artt. 110, 111 c.p.c., artt. 23 e 456 c.c. nonchè art. 462 c.c.), il rigetto della domanda, sull’assunto che la Corte di Napoli avrebbe erroneamente escluso la trasmissibilità agli eredi, in quanto non costituiti nel giudizio presupposto, del diritto all’indennizzo maturato dall’originario ricorrente deceduto nel corso del giudizio stesso. Tali doglianze sono infondate perchè erroneo è il presupposto dal quale muovono:

la Corte di merito non ha invero espresso la ratio decidendi criticata dai ricorrenti, essendosi limitata ad evidenziare la mancata assunzione da parte dei predetti della qualità di parte del processo presupposto, senza trame le conseguenze evidenziate dai ricorrenti; ed anzi al contrario motivando il rigetto con riferimento alla insussistenza, in capo al dante causa dei ricorrenti, di pregiudizio derivante dalla durata del processo, con la implicita conseguenza che, non avendo egli maturato il diritto all’indennizzo, non può averlo trasmesso ai suoi eredi per successione. 5. Con gli altri sei motivi – la cui stretta connessione ne consiglia l’esame congiunto – si censura, sotto il profilo della violazione di norme di diritto (L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 6.1 C.E.D.U., art. 2697 c.c.) nonchè del vizio di motivazione, le statuizioni relative alla mancanza nella specie di pregiudizio non patrimoniale: si sostiene che la sofferenza ed il disagio sono presenti ove il processo si protragga oltre il limite di durata ragionevole, salvi i casi nei quali risulti che la parte istante abbia abusato dello strumento processuale facendo valere pretese temerarie, il che nel caso in esame non risulta; e che l’infondatezza del ricorso presupposto, o la sua presentazione unitamente ad altre persone, al pari della mancanza di istanze di prelievo, non valgono ad escludere la sofferenza per il protrarsi irragionevole del giudizio presupposto.

6. Tali doglianze sono fondate, essendo la statuizione censurata priva di adeguata motivazione. In primo luogo, relativamente ai giudizi amministrativi – quale quello in esame – iniziati prima della entrata in vigore della legge n. 133/2008, la mancanza della istanza di prelievo, per consolidato orientamento di questa Suprema Corte a partire dalla nota S.U.n.28507/05, può assumere rilevanza solo ai fini dell’apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio non patrimoniale, non già per escluderlo (cfr. ex multis Cass. n. 28428/08; n. 25518/10). Parimenti inidonee a giustificare il rigetto della domanda di equa riparazione debbono ritenersi, alla luce dell’orientamento prevalente della giurisprudenza di questa Corte di legittimità (cfr. ex multis Cass. n. 12494/11; 9938/10; 9337/08; n. 5064/06; n. 19204/05; n. 3410/03), tanto l’essere stata la lite promossa unitamente a numerosissime altre persone, quanto la esistenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato di segno contrario a quello propugnato nell’atto introduttivo. Nè all’una nè all’altra circostanza può invero attribuirsi rilevanza ai fini della esclusione della sofferenza morale per l’eccessivo protrarsi del processo, che, quale conseguenza normale di tale irragionevole durata, non può, senza incorrere in contraddizione, essere disconosciuta alla parte la cui pretesa giudiziale viene respinta (o in generale che subisce un esito sfavorevole del giudizio), salvi i casi nei quali questa abbia posto in essere un vero e proprio abuso del processo, configurabile allorquando risulti che abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura, il perfezionamento della fattispecie di cui alla L. n. 89 del 2001. La ricorrenza nel caso in esame di una siffatta fattispecie di abuso non risulta neppure specificamente evidenziata nel decreto impugnato, che tantomeno ne ha indicato gli elementi di riscontro. L’accoglimento del ricorso segue dunque di necessità.

7. Il provvedimento impugnato è pertanto cassato, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, tenendo presente: a) che il giudizio presupposto si è protratto, sino al decesso del dante causa dei ricorrenti, per un periodo di circa otto anni e otto mesi, che eccede di cinque anni e otto mesi la ragionevole durata di un giudizio non complesso quale quello in esame; b)che va fatta applicazione della giurisprudenza di questa Corte (tra le tante: Sez. 1^, 14 ottobre 2009, n. 21840), a mente della quale l’importo dell’indennizzo può essere di Euro 750 per anno per i primi tre anni di durata eccedente quella ritenuta ragionevole, in considerazione del limitato patema d’animo che consegue all’iniziale modesto sforamento, mentre solo per l’ulteriore periodo deve essere richiamato il parametro di Euro 1.000 per ciascun anno di ritardo. Pertanto, l’Amministrazione resistente deve essere condannata al pagamento in favore dei ricorrenti, nella misura delle rispettive quote ereditarie, di Euro 4.900 oltre agli interessi legali dalla data della domanda, in conformità ai parametri ormai consolidati ai quali questa Corte si attiene nell’operare siffatte liquidazioni.

8. Le spese di entrambi i gradi del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti precisati in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero resistente a corrispondere ai ricorrenti, nella misura delle rispettive quote ereditarie, la somma di Euro 4.900,00 con gli interessi legali a decorrere dalla data della domanda. Condanna inoltre il Ministero al pagamento delle spese del giudizio di merito – in Euro 445 per onorari, Euro 378 per diritti e Euro 50 per esborsi – e di questo giudizio di legittimità, in Euro 565 per onorari e Euro 100 per esborsi, oltre, per entrambi, le spese generali e gli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 1, della Corte Suprema di Cassazione, il 8 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2012
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