Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 27-10-2011) 13-12-2011, n. 46243 Bancarotta fraudolenta Circostanze del reato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

T.C. propone ricorso per cassazione contro la sentenza del tribunale di Pescara con la quale, su sua richiesta, gli veniva applicata la pena di anni due di reclusione per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale commessi in qualità di amministratore della società Digital Trading S.r.l. Con due motivi di ricorso T.C. lamenta l’applicazione dell’aggravante di cui alla L. Fall., art. 219, incompatibile con la bancarotta impropria, e si duole del fatto che il tribunale abbia affermato nella sentenza di patteggiamento che egli avrebbe ammesso gli addebiti, cosa non vera. Sotto il primo profilo chiede l’annullamento della sentenza con rinvio al Gip del tribunale di Pescara; con riferimento al secondo motivo di ricorso chiede che la corte elimini dalla parte motiva della sentenza la frase "avendo sostanzialmente ammesso gli addebiti".

Il procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, in quanto palesemente infondato.

In merito all’applicabilità della L. Fall., art. 219, comma 1, della alla fattispecie di bancarotta impropria, il procuratore generale ricostruisce gli orientamenti di questa corte per giungere alla conclusione che è assolutamente consolidato l’indirizzo opposto a quello patrocinato dal difensore del ricorrente. Quanto alla affermazione di ammissione di colpevolezza, sostiene il procuratore generale che la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., manifesti un implicito riconoscimento di colpevolezza, per cui il gip del tribunale di Pescara non ha commesso alcuna violazione di legge. Inoltre, rileva come il ricorrente difetti di interesse all’impugnazione, dato che l’eliminazione della parte censurata della motivazione non comporterebbe alcun effetto sulla decisione.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato e come tale va dichiarato inammissibile. Quanto al punto relativo alle considerazioni sulla sostanziale ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato, la censura è inammissibile per totale difetto di interesse da parte del ricorrente, posto che nessuna influenza sulla decisione svolge il passo della motivazione censurato, nè alcun effetto produrrebbe la sua eliminazione. Nè, infine, la presenza di questo inciso all’interno della motivazione può comportare alcun effetto pregiudizievole per il ricorrente, tanto più che la sentenza di applicazione piena è ormai pacificamente considerata alla stregua di una sentenza di condanna.

La questione relativa all’applicabilità dell’aggravante di cui alla L. Fall., art. 219, comma 1, è inammissibile in questa sede, avendo l’imputato richiesto l’applicazione della pena, manifestando condivisione per il fatto di reato contestato.

Anche nel "merito", peraltro, la doglianza sarebbe infondata;

corrisponde a verità che questa stessa sezione della corte ha recentemente affermato che non è applicabile la circostanza aggravante ad effetto speciale del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui alla L. Fall., art. 219, comma 1, all’ipotesi di bancarotta documentale fraudolenta impropria, stante il richiamo letterale della L. Fall., art. 219, comma 1, circoscritto alla L. Fall., artt. 216, 217 e 218 (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 8829 del 18/12/2009 Ud. (dep. 05/03/2010) Rv. 246154); tuttavia non può parlarsi di vero e proprio contrasto, che imporrebbe la rimessione alle sezioni unite, trattandosi di una pronuncia isolata che si inserisce nell’ambito di un orientamento consolidato in senso contrario (tra le più recenti si vedano Sez. 5, Sentenza n. 30932 del 22/06/2010, Rv. 247970 e Sez. 5, Sentenza n. 17690 del 18/02/2010, Rv. 247320, mentre per il passato si possono vedere Cass. Sez. 5, 29 novembre 1968, Solare, CED Cass. 110171; Cass. Sez. 5, 27.4.1992, Bertolotti, CED Cass. 191564).

L’arresto di questa sezione del 2009 ha rammentato che la bancarotta c.d. "impropria" si presenta come reato a diversa struttura rispetto alla fattispecie "propria", sicchè mancando, nell’art. 223, il rinvio all’art. 219, non sarebbero applicabili ai soggetti di cui all’art. 223 le predette aggravanti, non potendosi operare un’interpretazione analogica, vietata dal divieto di analogia in malam partem in ambito penale (risolvendosi l’operazione ermeneutica in una lettura sfavorevole al reo).

Ma all’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 217 non si giunge percorrendo la via dell’interpretazione analogica, bensì tramite una semplice operazione ermeneutica di tipo sistematico ed, al più, con una interpretazione di tipo estensivo; si vuole dire che l’applicabilità dell’aggravante per la bancarotta impropria deriva direttamente dalla sua disciplina normativa e non si ricava invece in via di integrazione analogica di una disciplina carente.

Innanzitutto si devono distinguere le ipotesi previste dall’art. 223, comma 1, da quelle del comma successivo; mentre in quest’ultima norma vengono introdotte nuove fattispecie di reato, per le quali il rinvio all’art. 216 è solo quoad poenam, nel primo comma vengono sanzionate le stesse condotte previste dall’art. 216, con l’unica differenza che in questo caso sono realizzate da soggetti diversi dall’imprenditore, sebbene in qualche modo legati all’amministrazione dell’ente collettivo. Ne consegue che le differenze strutturali tra la bancarotta propria e quella impropria di cui all’art. 223, comma 1, sono minime e non attengono al dato oggettivo della condotta; ne conseguirebbe, pertanto – seguendo l’interpretazione propugnata dal ricorrente – una ingiustificata disparità di trattamento a favore degli amministratori degli enti collettivi, tanto più irragionevole se si pensa che le più vaste dimensioni dell’impresa societaria comportano normalmente una maggiore gravità e diffusività delle conseguenze dannose del reato di bancarotta, anche a causa del più elevato dinamismo e della più intensa pericolosità degli organismi societari, capaci di ledere molteplici interessi.

E’ ben vero che una tale considerazione di ordine logico non sarebbe sufficiente a scalfire una chiara disposizione normativa in senso contrario, ma nel caso in esame vi è la possibilità di operare una interpretazione non solo costituzionalmente orientata, bensì anche più aderente al dato sistematico.

Ebbene, l’art. 223, comma 1 dice che agli amministratori (…) di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nell’art. 216, si applicano le pene ivi stabilite. Ciò significa che la determinazione della pena per i reati commessi ai sensi dell’art. 223, comma 1, si deve operare con riferimento a quanto previsto dall’art. 216 per la bancarotta propria; ma le pene per la bancarotta propria si determinano tenendo conto non solo dei minimi e massimi edittali contemplati dall’art. 216, bensì anche considerando le attenuanti e le aggravanti "speciali" previste per tali reati. Il rinvio alla determinazione della pena, cioè, deve ritenersi integrale ed è basato sul presupposto della identità oggettiva delle condotte; ogni diversa interpretazione sarebbe irragionevole in quanto condotte potenzialmente più pericolose sarebbero punite in modo più lieve. Ne conseguirebbe il rilievo d’ufficio della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 223, comma 1, nella parte in cui non prevede che ai reati di bancarotta commessi dai soggetti gestori delle imprese societarie si applichino le aggravanti previste dalla citata Legge, art. 219. Ma, per costante insegnamento del giudice delle leggi, l’interprete deve prima di tutto verificare se sia possibile operare un’interpretazione costituzionalmente orientata e solo in caso negativo rimettere gli atti alla Consulta.

Nel caso di specie non risulta essersi formato un diritto vivente, impeditivo di una diversa interpretazione, mentre sussiste invece la possibilità di operare un’interpretazione, peraltro conforme alla giurisprudenza maggioritaria, che sia rispettosa dei canoni costituzionali. Nè può dirsi ostativa ad una tale interpretazione la recentissima sentenza delle Sezioni Unite (21039/2011, Loy), la quale affronta il problema incidentalmente in un breve passo della motivazione; non è chiaro, infatti, l’intendimento delle sezioni unite, le quali prima parlano di interpretazione estensiva e poi di applicazione analogica. Pare emergere dal contesto della motivazione (riferita al diverso caso dell’applicabilità dell’art. 219, comma 2, n. 1) che l’applicabilità dell’art. 219 alla bancarotta impropria sia diretta ("..il richiamo contenuto nelle norme incriminatici della bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatolo previsto per le corrispondenti ipotesi ordinane non legittima margini di dubbio sull’applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l’aggravante sui generis di cui si discute. D’altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v’è ragione, ricorrendo l’eadem ratio, di differenziare la disciplina sanzionatoria"); il periodo successivo della motivazione sembra indicare che l’applicabilità dell’art. 219 può operare solo in via analogica "L’applicazione analogica della L. Fall., art. 219, ai reati di bancarotta impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione favorevole all’imputato.."), ma così interpretato implicherebbe una contraddittorietà evidente tra i due passi della sentenza. Quest’ultimo periodo deve dunque essere interpretato come argomento subordinato per giustificare l’applicabilità della L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1 alla bancarotta impropria, anche qualora tale applicabilità presupponesse un’interpretazione analogica (che viene però esclusa dalla sentenza). Vi è, infine, da prendere in esame un ultimo aspetto, di natura sistematica, che potrebbe indurre l’interprete ad una interpretazione restrittiva; la L. Fall., da art. 223 all’art. 226 si occupano dell’estensione delle pene previste per l’imprenditore individuale agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori delle società dichiarate fallite. In tali norme sono richiamati espressamente gli artt. 216, 217, 218 e 220, mentre non è mai richiamato il art. 219. Da ciò potrebbe desumersi un’esclusione volontaria di quest’ultima norma, da parte del legislatore, con conseguente sua inapplicabilità a tutte le ipotesi di bancarotta impropria. In realtà una tale interpretazione si palesa superficiale e non tiene conto di un dato fondamentale, e cioè del fatto che mentre gli artt. 216, 217, 218 e 220 individuano delle specifiche fattispecie di reato, l’art. 219 contempla delle semplici circostanze (anche se la sentenza citata delle Sezioni Unite riqualifica sostanzialmente l’aggravante di cui all’art. 219 c.p., comma 2, n. 1 come una peculiare disciplina del concorso di reati). Anche se fosse ammissibile il ricorso del T., dunque, sarebbe infondata la sua censura di violazione di legge per violazione della L. Fall., art. 223. Consegue a quanto esposto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 a favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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