Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 04-07-2012, n. 11161 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 19-9-2002 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma respingeva le domande proposte da R.D. e L. M. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dirette ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto ai rispettivi contratti di lavoro intercorsi con la società (quanto alla R. dal 23-2-98 al 30-4-98, prorogato di 30 gg., per "esigenze eccezionali" ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e succ. e dal 1-7-98 al 30-9-98 per "necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie", quanto alla L. dal 14-10-97 al 31-1-98 per "esigenze eccezionali", dall’8-6-98 al 30-9-98 per "concomitanza di assenze per ferie" e dal 27-10-98 al 30-1-99, ancora per "esigenze eccezionali", prorogato al 30-4-99), con il conseguente riconoscimento della sussistenza del rapporto a tempo indeterminato e con la condanna della società al ripristino del rapporto e al pagamento, anche a titolo risarcitorio, delle retribuzioni non percepite.

Le lavoratoci proponevano appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

La società si costituiva resistendo al gravame.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 2-11-2006, in parziale riforma dell’impugnata sentenza dichiarava la nullità del termine apposto al terzo contratto della L. con la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato dal 27-10-98 "ancora in atto", e condannava la società a pagare alla L. a titolo risarcitorio un importo pari alle retribuzioni maturate dalla data di costituzione in mora (4-12-2000) nei limiti del triennio decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro, oltre interessi e rivalutazione. La corte territoriale confermava, poi, la sentenza nei confronti della R. e compensava le spese del doppio grado nei confronti della L. e dell’appello nei confronti della R..

Per la cassazione di tale sentenza la R. ha proposto ricorso con quattro motivi.

La società ha resistito al ricorso della R. con controricorso.

Nel contempo la società ha proposto distinto ricorso nei confronti della L., con quattro motivi.

La L., a sua volta, ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con un unico motivo.

Infine la R. e la L. hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso della R., con riferimento al primo contratto della stessa si sostiene che, ai fini della legittimità del termine, la società avrebbe dovuto dimostrare la oggettiva esistenza delle esigenze eccezionali dedotte in relazione alla assunzione specifica de qua, essendo necessaria la prova che in concreto tale assunzione fosse "dipesa dalla necessità di affrontare esigenze eccezionali che fossero state la conseguenza della ristrutturazione e della rimodulazione dei processi occupazionali".

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha costantemente affermato con specifico riferimento alle assunzioni a termine di dipendenti postali previste dall’accordo integrativo 25-9-1997, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 (v.

fra le altre Cass. 26-7-2004 n. 14011, Cass. 8-7-2009 n. 15981), l’attribuzione alla contrattazione collettiva del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine, rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per il loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali e di provare la sussistenza del nesso causale fra le mansioni in concreto affidate e le esigenze aziendali poste a fondamento dell’assunzione a termine.

Correttamente, quindi, la Corte di merito ha ritenuto che "l’apposizione del termine fosse in tal caso giustificata, stante la valutazione contrattuale espressa preventivamente al riguardo".

Del resto alla base della tesi della ricorrente è l’assunto secondo cui non sarebbe consentito autorizzare un datore di lavoro ad avvalersi liberamente del tipo contrattuale del lavoro a termine, senza l’individuazione di ipotesi specifiche di collegamento tra contratti ed esigenze aziendali cui sono strumentali (in contrasto, quindi, con quanto ripetutamente affermato da questa Corte e ribadito dalle Sezioni Unite con la sentenza 2-3-2006 n. 4588).

Con il secondo motivo la R. ribadisce la tesi della nullità della proroga del detto primo contratto, effettuata in base all’accordo del 27-4-1998, lamentando la violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 2 e 3, dovendo la proroga essere sempre dettata da esigenze contingenti ed imprevedibili e determinata da circostanze ontologicamente diverse rispetto a quelle che avevano determinato l’apposizione del termine.

Tale tesi è stata più volte disattesa da questa Corte in casi analoghi (v. fra le altre Cass. 24-9-2007 n. 19696), sulla base della sussistenza, riconosciuta in sede collettiva, delle esigenze contingenti ed imprevedibili, connesse con i ritardi che hanno inciso negativamente sul programma di ristrutturazione.

Legittimamente, quindi, la Corte di merito ha affermato che la "società, nel prorogare di un mese i contratti in scadenza al 30/4/98, si è attenuta all’accordo del 27-4-98, che la legittimava in tal senso, in termini compatibili con quanto previsto dalla L. n. 230 del 1962, art. 2".

Con il terzo motivo la R., denunciando violazione degli artt. 8 e 87 del ccnl del 1994 e dell’art. 1362 c.c., e segg., in sostanza censura la impugnata sentenza nella parte in cui, con riferimento al secondo contratto, ha affermato che con l’art. 87 citato le parti collettive "hanno voluto disciplinare in maniera dettagliata non solo la vigenza della formazione pattizia ma anche il periodo di tempo successivo alla scadenza sino alla stipula del nuovo contratto collettivo nazionale".

Tale interpretazione non può condividersi, in quanto risulta contraddittoria e contraria sia al criterio letterale sia a quello sistematico.

Come è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito, "i contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l’ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l’opposto principio di ultrattività sino ad un nuovo regolamento collettivo – secondo la disposizione dell’art. 2074 cod. civ. – ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall’art. 39 Cost." (v. Cass. S.U. 30-5-2005 n. 11325). Pertanto, come pure è stato affermato, "a seguito della naturale scadenza del contratto collettivo, in difetto di una regola di ultrattività del contratto medesimo, la relativa disciplina non è più applicabile, ed il rapporto di lavoro da questo in precedenza regolato resta disciplinato dalle norme di legge, salvo che le parti abbiano inteso, anche solo per facta concludentia, proseguire l’applicazione delle norme precedenti" (v.

Cass. 2-2-2009 n. 2590).

Orbene l’art. 87 del ccnl 26-11-1994 recita testualmente:

"1. Fatte salve le diverse decorrenze espressamente indicate per i singoli istituti, il presente contratto ha decorrenza dalla data della stipulazione e rimarrà in vigore fino al 31 dicembre 1997.

2. Dalla medesima data il rapporto di lavoro del personale dell’Ente è disciplinato dal codice civile – libro 5^ – dalle leggi che regolano il rapporto di lavoro nell’impresa, dal regolamento d’azienda, dal presente contratto e dal contratto individuale. 3. La parte relativa al trattamento economico scadrà il 31 dicembre 1995".

La volontà delle parti collettive, in merito al primo contratto collettivo nazionale del rapporto di lavoro privatizzato dei dipendenti dell’Ente Poste Italiane, è chiara sia nelle singole espressioni letterali sia nel suo complesso.

La decorrenza del contratto, salve diverse decorrenze espressamente indicate per singoli istituti, è quella della data di stipula e la scadenza prevista è quella del 31-12-1997. Il comma 2, che non può essere letto isolatamente e per di più falsando il riferimento temporale iniziale (così, in sostanza, intendendo la "medesima data" come quella di scadenza anzichè quella di decorrenza), si sviluppa chiaramente sulla premessa di cui al primo comma e nel contesto della privatizzazione del rapporto, di guisa che è evidente che è dalla data di stipulazione e di decorrenza del contratto collettivo che il rapporto di lavoro del personale dell’Ente è soggetto alla disciplina privatistica di legge e del contratto collettivo stesso.

In tal modo, soltanto, il secondo comma non risulta in contraddizione con il primo, ed assume un chiaro senso logico-sistematico, all’interno della privatizzazione (anche sostanziale) del rapporto.

Del resto, pur dopo la trasformazione dell’Amministrazione postale in ente pubblico economico (D.L. n. 487 del 1993, art. 1, conv. in L. n. 71 del 1994), ai rapporti di lavoro tra l’Ente ed i propri dipendenti doveva ritenersi ancora applicabile, sino alla data di stipulazione del contratto collettivo di lavoro (avvenuta, nella specie, il 26/11/1994), la precedente normativa pubblicistica, in virtù dell’art. 6 del D.L. citato (v. fra le altre Cass. S.U. 1-4-1999 n. 205), che ha disposto "un assetto transitorio della normativa sostanziale", senza escludere la natura privatistica del rapporto e senza incidere sulla giurisdizione del giudice ordinario (v. fra le altre Cass. S.U. 7-7-1999 n. 388, Cass. S.U. 6-6-2002 n. 8237, Cass. S.U. 27-11-2002 n. 16840, Cass. S.U. 3-3-2003 n. 3152, Cass. S.U. 27- 4-2005 n. 8691).

In tale quadro ed in ossequio al disposto di legge, le parti collettive hanno, quindi, semplicemente fissato la decorrenza del ccnl contestualmente alla data di stipulazione, coincidente con la decorrenza della disciplina sostanziale privatistica.

Deve quindi disattendersi la interpretazione secondo cui le parti stesse, con il comma 2 dell’art. 87 citato, abbiano voluto, fin dall’inizio, disporre una ultrattività del contratto collettivo, come affermato dalla Corte di merito.

Ciò non esclude, però, che le stesse parti collettive abbiano, eventualmente, anche solo per facta concludentia, proseguito nella applicazione del contratto collettivo pur dopo la scadenza fissata (v. Cass. 2590/2009 sopra richiamata), di guisa che comunque ben possono assumere rilevanza il comportamento successivo delle parti medesime e gli accordi successivamente intercorsi, in base alle rituali allegazioni e prove delle parti (sul tema specifico v., fra le altre, Cass. 1-3-2011 n. 4990).

In tali sensi va, quindi, accolto il terzo motivo del ricorso della R., risultando assorbito il quarto (riguardante ulteriormente il detto secondo contratto).

Passando all’esame del ricorso della società nei confronti della L., con i primi tre motivi la s.p.a. Poste Italiane censura, sotto vari profili, la statuizione della sentenza impugnata circa la illegittimità del termine apposto al contratto della L. decorrente dal 27-10-1998.

Al riguardo osserva il Collegio che la Corte di merito, tra l’altro, ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo.

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v.

fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n. 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In applicazione di tale principio vanno quindi respinti i primi tre motivi del ricorso della società, unitariamente considerati.

Con il quarto motivo la società, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c., lamenta che la Corte di merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine alla effettiva messa in mora del datore di lavoro e non avrebbe tenuto "conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente", disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 cod. civ., e segg.".

Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v.

fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente specifichi in alcun modo il contenuto dell’atto che, secondo il suo assunto e contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non costituirebbe messa in mora.

Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente.

Così respinti i primi tre motivi e ritenuto inammissibile il quarto motivo del ricorso della società, che, quindi, non investe validamente il capo del risarcimento del danno e delle conseguenze economiche della nullità del termine, osserva, infine, il Collegio che non merita accoglimento il ricorso incidentale, con il quale la L. censura la determinazione del quantum del risarcimento del danno nei soli limiti del periodo che va dalla messa in mora (4/12/2000) fino al compimento del triennio (30-4-2002) dalla cessazione del rapporto a termine.

Al riguardo, infatti, va rilevato che, alla luce dello ius superveniens (L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, 6 e 7) – a prescindere dalla correttezza o meno della statuizione impugnata in base alla disciplina previgente -, la censura risulta infondata in considerazione del divieto di reformatio in peius, non potendo comunque la ricorrente incidentale ottenere, in base alla nuova disciplina, più di quanto gli è stato già riconosciuto dalla Corte di Appello.

In conclusione va accolto, nei sensi di cui in motivazione, il terzo motivo del ricorso della R., rigettandosi i primi due, assorbito il quarto, e la impugnata sentenza va cassata in relazione alla censura accolta con rinvio alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione, la quale, statuendo anche sulle spese di legittimità tra la R. e la società, sulla base delle rituali allegazioni e prove delle parti, provvederà attenendosi ai principi sopra richiamati. Vanno respinti invece gli altri due ricorsi, compensandosi, in ragione della soccombenza reciproca, le spese del giudizio di cassazione fra la L. e la società.
P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il terzo motivo del ricorso della R., rigetta i primi due, assorbito il quarto; rigetta gli altri due ricorsi, compensando tra la L. e la società le spese del giudizio di cassazione; cassa la impugnata sentenza in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese, tra la R. e la società alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2012

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