Cass. civ. Sez. I, Sent., 04-07-2012, n. 11154 Ammissione al passivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Torino, con decreto del 3.11.010, ha respinto l’opposizione L. Fall., ex art. 98, proposta da B.P., titolare dell’omonima ditta individuale di autotrasporti, per ottenere l’ammissione allo stato passivo del Fallimento della Hub Logistic s.r.l. del credito privilegiato, ex art. 2751 bis c.c., n. 5, di complessivi Euro 42.764, oltre interessi legali, derivante da prestazioni effettuate in favore della società poi fallita, che il G.D. aveva ammesso nella minor misura di Euro 25.764, riconoscendogli collocazione chirografaria.

Il Tribunale, pur avendo dichiarato, nel dispositivo, il ricorso inammissibile perchè tardivo, ha nella motivazione affrontato il merito della pretesa della ricorrente. In ordine al quantum, il giudice ha rilevato che il fallimento aveva prodotto una nota di credito della Autrotrasporti Bottino, con la quale la creditrice disponeva lo storno parziale di una propria precedente fattura "per erroneo addebito viaggi", ed ha affermato che, trattandosi di documento contabile, redatto su carta intestata della ditta e registrato nella contabilità della fallita, il suo generico disconoscimento da parte dell’opponente non era idoneo a privarlo dell’efficacia probatoria di cui all’art. 2710 c.c.; ha escluso, poi, che al credito già ammesso allo stato passivo potesse riconoscersi il privilegio artigiano, osservando che l’esistenza dei presupposti di cui all’art. 2083 c.c., andava provata in concreto, a nulla rilevando che l’impresa della B. fosse iscritta al R.I. con la qualifica artigiana, e che in senso sfavorevole alla pretesa deponevano sia il notevole fatturato registrato dall’opponente nell’anno di insorgenza del credito, sia l’esistenza di elevati costi di gestione dell’attività, sia l’appalto a terzi delle prestazioni, elementi che lasciavano dubitare della prevalenza del lavoro del titolare sul capitale.

B.P. ha proposto ricorso per la cassazione de decreto, affidato a cinque motivi, cui il Fallimento Hub Logistic ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1) Con il primo motivo di ricorso, lamentando vizio di motivazione, B.P. denuncia l’insanabile contraddittorietà esistente fra la motivazione del provvedimento impugnato ed il dispositivo;

deduce, altresì, che, dichiarando d’ufficio la tardività dell’opposizione, che era invece tempestiva, il giudice del merito non solo è incorso in errore, ma ha pronunciato ultra-petita.

Il motivo deve essere dichiarato inammissibile, in quanto l’eventuale contrasto insanabile fra motivazione e dispositivo non da luogo a un vizio deducibile sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma a nullità della sentenza, e dunque ad un error in procedendo, denunciabile esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass. nn. 10158/08, 14966/07, 17392/04).

Nella specie, peraltro, la pronuncia di inammissibilità è frutto di un evidente errore materiale e non costituisce ostacolo alla comprensione del procedimento logico-giuridico posto a fondamento della decisione, con la quale il giudice ha inteso rigettare nel merito l’opposizione. L’errore, d’altro canto, non ha pregiudicato il diritto di difesa della B., che ha ampiamente illustrato, negli ulteriori motivi di ricorso, le ragioni che dovrebbero condurre alla cassazione sia del capo della pronuncia che ha negato l’ammissione del maggior credito preteso, sia del capo che ha escluso che il credito già ammesso potesse trovare collocazione privilegiata.

2) Con il secondo ed il terzo motivo, che sono fra loro strettamente connessi e che vanno congiuntamente esaminati, la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 2702, 2710 c.c., artt. 214, 215 e 216 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, lamenta che il Tribunale abbia attribuito rilevanza probatoria alla nota di credito prodotta dal Fallimento, di cui ella aveva ripetutamente disconosciuto l’autenticità e la provenienza. Deduce che la nota, priva di timbro e di sottoscrizione, non integrava nè un documento contabile nè una scrittura ricognitiva del debito e che, in ogni caso, il Tribunale non avrebbe potuto tenerne conto sia perchè allegata in fotocopia nel fascicolo di parte del Fallimento, che ne aveva depositato l’originale solo tardivamente, con la comparsa conclusionale, sia perchè il curatore, non chiedendone la verificazione, aveva rinunciato ad avvalersene. Osserva, infine, che il giudice del merito ha erroneamente applicato l’art. 2710 c.c., che può operare solo fra imprenditori.

Le censure sono infondate.

La nota di credito è un documento contabile che, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, comma 2, può essere emesso quando l’operazione in precedenza fatturata sia venuta meno, in tutto o in parte, o ne sia stato ridotto l’ammontare in conseguenza di una delle cause previste dalla stessa norma.

Come tutti i documenti contabili, che non richiedono sottoscrizione, la nota di credito soggiace al regime probatorio di cui agli artt. 2709 e 2711 c.c. e non a quello delle scritture private, di cui all’art. 2702 c.c., artt. 214/216 c.p.c.: è dunque palesemente errato l’assunto della B. secondo cui il Fallimento, per potersi ancora avvalere del documento dopo il suo avvenuto "disconoscimento", avrebbe dovuto proporre istanza di verificazione.

Neppure risulta che la ricorrente, nel corso del giudizio di merito, abbia mai mosso specifiche contestazioni, ai sensi dell’art. 2719 c.c., in ordine alla mancanza di conformità della copia del documento al suo originale: deve in conseguenza escludersi che il Fallimento fosse tenuto a produrre l’originale od a far accertare, con altri mezzi di prova, che la copia ne era una fedele riproduzione (Cass. nn. 10855/010, 9439/010, 6651/09).

Il "disconoscimento" operato dalla B., privo di specifico significato tecnico-giuridico, siccome non riconducibile nè al disposto dell’art. 214 c.p.c. nè a quello dell’art. 2719 c.c., è stato pertanto correttamente interpretato dal Tribunale come mera contestazione della valenza probatoria del contenuto della nota di credito.

Altrettanto correttamente, con motivazione adeguata, priva di vizi logici e perciò non censurabile nella presente sede di legittimità, il giudice del merito ha poi ritenuto che detta contestazione fosse del tutto generica, e perciò inidonea a privare il documento redatto su carta intestata della ditta Autotrasporti Bottino e registrato nella contabilità di Hub Logistic s.r.l., di cui un notaio aveva attestato la regolare tenuta) dell’efficacia attribuitagli dagli artt. 2709, 2710 c.c..

Infine, a parte la natura di per sè decisiva della prima delle circostanze evidenziate dal Tribunale (posto che la nota non impugnata di polso faceva prova contro la B.), va rilevato che l’art. 2710 c.c. ben può trovare applicazione anche nel caso in cui una delle parti sia stata dichiarata fallita, allorchè la prova attenga ad un rapporto obbligatorio sorto in periodo antecedente alla dichiarazione di fallimento e non tra il curatore e l’imprenditore ancora "in bonis" (Cass. nn. 1543/06, 28299/05).

3) Con il quarto motivo, la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 2751 bis c.c., n. 5 e L. Fall., art. 54, nonchè vizio di motivazione del provvedimento impugnato, lamenta il rigetto della domanda di riconoscimento del privilegio. A sostegno del motivo, la Bottino deduce; che nel corso della procedura di concordato preventivo, che aveva preceduto la dichiarazione di fallimento di Hub Logistic, il curatore, che aveva all’epoca svolto le funzioni di commissario giudiziale, l’aveva inserita fra i creditori muniti di privilegio artigiano; che ella non si avvaleva delle prestazioni di dipendenti, ma solo della collaborazione del fratello o di soggetti terzi, ed eseguiva in proprio la quasi totalità dei trasporti; che la ditta non aveva mai superato i parametri dimensionali richiesti, ai fini del riconoscimento della qualifica artigiana di un’impresa individuale esercente autotrasporti, dalla L. n. 443 del 1985, art. 2, comma 1 e art. 4, comma 1, lett. d); che il riferimento operato dal Tribunale ad un limite massimo di fatturato dell’impresa individuale artigiana pari ad Euro 250.000 annui non trova riscontro in nozioni di comune esperienza e non può essere considerato fatto notorio.

Il motivo non merita accoglimento.

Va premesso che l’attuale testo dell’art. 2751 bis c.c., n. 5, introdotto dal D.L. n. 5 del 2012, art. 36, convenuto dalla L. n. 35 del 2012, il quale prevede che hanno privilegio generale sui mobili crediti dell’impresa artigiana, definita ai sensi delle disposizioni legislative vigenti, quand’anche interpretabile nel senso indicato dalla ricorrente (ovvero come norma volta ad attribuire, anche ai fini del riconoscimento del privilegio, efficacia costitutiva all’iscrizione, legittimamente effettuata, all’albo delle imprese artigiane) non può trovare applicazione nel caso di specie, posto che la Bottino si è cancellata dal R.I. sin dal 2008.

Va escluso, infatti, che la nuova disposizione abbia natura interpretativa (e conseguente valenza retroattiva), non solo perchè priva di un’espressa previsione a riguardo, ma anche in ragione dell’assenza di quei presupposti (situazioni di incertezza o significativi contrasti giurisprudenziali nell’applicazione del precedente testo, necessità di ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore) che, a tutela del valore della certezza del diritto e del principio costituzionale di uguaglianza, consentono il superamento del divieto di irretroattività della legge, sancito dall’ari. 11 preleggi, il quale, come ripetutamente ricordato dalla Corte costituzionale, rappresenta una regola essenziale del sistema, cui il legislatore deve ragionevolmente attenersi, salvo un’effettiva causa giustificatrice (Corte costituzionale nn. 78/2012, 209/010, 311/09, 155/90).

Va dunque fatto riferimento all’indirizzo giurisprudenziale formatosi nel vigore del previgente testo della norma, secondo il quale il coordinamento tra la disciplina codicistica e quella contenuta nella Legge Speciale n. 443 del 1985, deve essere realizzato ritenendo che i criteri richiesti dall’art. 2083 c.c., ed in genere dal codice civile, valgano per la identificazione dell’impresa artigiana nei rapporti interprivati, mentre quelli posti dalla legge speciale siano, invece, necessari per fruire delle provvidenza previste dalla legislazione (regionale) di sostegno, con la conseguenza che l’iscrizione all’albo di un’impresa artigiana, legittimamente effettuata ai sensi della citata L. n. 443 del 1985, art. 5, pur avendo natura costitutiva, nei limiti sopra indicati, non spiega di per sè alcuna influenza – neppure quale presunzione "iuris tantum" della natura artigiana dell’impresa – ai fini dell’applicazione dell’art. 2751 bis c.c., n. 5, dettato in tema di privilegi, dovendosi, a tal fine, ricavare la relativa nozione alla luce dei criteri fissati, in via generale, dall’art. 2083 c.c. (Cass. n. 19508/05, 14365/00).

Tanto precisato, va rilevato che il Tribunale ha tratto il proprio convincimento da un’unitaria valutazione delle circostanze di fatto acquisite in via documentale agli atti del giudizio, la quale non richiede la discussione di ogni singolo elemento o la confutazione di tutte le contrarie argomentazioni difensive (Cass. n. 5235/01), ed ha escluso che all’opponente potesse riconoscersi il privilegio in base ad un percorso logico complessivo in cui non sono riscontrabili contraddittorietà o deficienze aventi rilevanza causale decisiva sulle conclusioni raggiunte. Il giudice, infatti, non si è limitato ad asserire che, secondo nozioni di comune esperienza, i ricavi di un’impresa artigiana individuale non superano i 250.000 Euro annui, ma ha osservato come non apparissero compatibili con l’asserita qualità artigiana della ditta Bottino due circostanze (gli elevati costi di gestione ed il fatto che circa la metà delle prestazioni risultassero appaltate a terzi) che inducevano ad escludere che il lavoro della titolare avesse prevalenza su ogni altro fattore produttivo.

Ebbene, attraverso la censura, la ricorrente, pur prospettando vizi di motivazione su punti decisivi della controversia, mira in realtà a contrapporre a tale valutazione la propria personale interpretazione delle medesime circostanze, che, anzichè considerare globalmente, esamina singolarmente, cercando di enucleare da ciascuna di esse quegli elementi che avrebbero potuto condurre ad un loro diverso apprezzamento.

Trova dunque applicazione il principio, ripetutamente enunciato da questa Corte, secondo cui i vizi della sentenza posti a base del ricorso per cassazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice del merito o che siano attinenti alla difforme valutazione delle prove da questi operata, rispetto a quella pretesa dalla parte (Cass. nn. 17901/010, 10657/010, 7992/07, 12467/03).

Il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza non può infatti spingersi fino alla rielaborazione del giudizio di fatto espresso dal giudice del merito, alla ricerca di una soluzione alternativa rispetto a quella ragionevolmente raggiunta, solo perchè ritenuta la migliore possibile (Cass. n. 21153/010), non essendo in discussione la giustizia o meno della decisione, ma la presenza di difetti sintomatici di una possibile decisione ingiusta, che tali possono ritenersi solo se l’errore oggetto di possibile rilievo in cassazione abbia avuto adeguata incidenza causale sulla stessa (Cass. nn. 12468/03, 7635/03, 5235/01).

4) Ugualmente infondato è l’ultimo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente, deducendo violazione dell’art. 92 c.p.c., lamenta che il Tribunale abbia posto interamente a suo carico le spese del giudizio, nonostante il rigetto delle eccezioni preliminari di rito sollevate dal Fallimento.

La soccombenza va infatti riferita alla causa nel suo insieme, con particolare riferimento all’esito finale e complessivo del giudizio, con a conseguenza che è totalmente vittoriosa la parte che abbia visto respingere integralmente l’avversa domanda, a nulla rilevando che siano state disattese sue eccezioni di carattere processuale.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 1.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2012

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