Cass. civ. Sez. I, Sent., 04-07-2012, n. 11151 Vendita fallimentare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 5.7.2010, ha respinto l’appello proposto da Pafes s.n.c. di Comparini Ezio & C., aggiudicataria dei beni posti all’asta dal Fallimento della Casa Vinicola Tres Tabernae s. coop. a r.l., avverso la sentenza del Tribunale di Latina che aveva a sua volta respinto la domanda dell’appellante di ammissione in prededuzione, allo stato passivo della procedura, di un credito di complessivi Euro 1,439.000, preteso ai sensi dell’art. 1492 c.c., sul presupposto della totale difformità fra il compendio acquistato e quello offerto in vendita, a titolo sia di restituzione di una parte del corrispettivo versato sia di risarcimento del danno.

La Corte territoriale ha premesso che non poteva trovare accoglimento il motivo d’appello con il quale Pafes, lamentando che il Tribunale l’avesse dichiarata decaduta dalla facoltà di articolare nuovi mezzi istruttori, aveva chiesto in sede di gravame la concessione di appositi termini a tal fine; ha quindi affermato, nel merito: che la tesi dell’appellante, secondo cui si versava in fattispecie di vendita di aliud pro alio, in quanto il complesso di beni costituenti l’azienda vinicola della Tres Tabernae offerta in vendita dal Fallimento si erano rivelati del tutto inidonei a consentire la ripresa dell’attività produttiva, non trovava riscontro probatorio nè nella relazione del ctu, che aveva stimato il valore a base d’asta dei singoli beni, senza mai far riferimento ad un complesso aziendale funzionante, nè nell’ordinanza di vendita, che non menzionava mai la parola "azienda", nè, infine, negli atti successivi all’aggiudicazione, in cui il curatore aveva usato tale parola in maniera atecnica; che la prova che il Fallimento aveva posto in vendita l’azienda vinicola della Tres Tabernae, anzichè l’insieme dei beni mobili e immobili che un tempo ne facevano parte, non poteva desumersi neppure dal fatto che l’Agenzia delle Entrate avesse assoggettato a tassazione la transazione qualificandola "cessione d’azienda", posto che l’accertamento fiscale non poteva influire, ai fini civilistici, sul contenuto e sul regime del contratto e, soprattutto, sull’interpretazione de bando di vendita e sulla conoscenza da parte di Pafes della realtà effettiva dei beni compravenduti; che neppure l’eccepita difettosità di alcuni dei beni subastati o il loro mancato trasferimento a Pafes poteva intregrare un’ipotesi di vendita di aliud pro alio, in quanto i vizi dedotti non integravano difetti sulle qualità essenziali di un’azienda; che, non essendo stata posta in vendita l’azienda, l’appellante non poteva lamentare il mancato rilascio di documenti fiscali o di autorizzazioni necessarie per il suo esercizio; che neppure era rilevante la sussistenza di abusi edilizi, peraltro sanabili, posto che i beni erano stati offerti in vendita nello stato di fatto e di diritto in cui si trovavano; che era tardiva, e quindi inammissibile, la censura con la quale Pafes aveva dedotto i gravi difetti dell’impianto di depurazione.

Pafes s.r.l. (già Pafes s.n.c. di Comparini Ezio & C.) ha chiesto la cassazione della sentenza sulla base di due motivi di ricorso.

Il Fallimento ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato, cui Pafes ha a sua volta resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1) Con il primo motivo di ricorso, Pafes s.r.l. denuncia violazione degli artt. 183, 184, 187 (nel testo, anteriore alla riforma di cui alla L. n. 263 del 2006, applicabile ratione temporis al caso di specie). Osserva che nell’atto d’appello essa aveva lamentato il rigetto da parte del Tribunale della richiesta di fissazione di un’apposita udienza per la deduzione di nuovi mezzi di prova ed aveva domandato alla Corte territoriale di essere rimessa in termini a tal fine ed assume che il giudice del gravame ha ritenuto infondata la doglianza, negandole conseguentemente la possibilità di depositare una memoria istruttoria, sull’erroneo presupposto che l’avvenuta sua rinuncia ai termini che, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., le parti possono ottenere per precisare o modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni assunte, impedisse la concessione di quelli di cui all’art. 184 c.p.c..

Il motivo va dichiarato inammissibile.

La Corte territoriale ha respinto il motivo d’appello con il quale la ricorrente si doleva della mancata fissazione dell’udienza per la deduzione di nuovi mezzi di prova in base ad una pluralità di autonome ragioni, ciascuna giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata. Oltre ad affermare che, attesa la rinuncia delle parti ai termini di cui all’art. 183 c.p.c., era precluso alle stesse di sollecitare provvedimenti del G.I. ai sensi dell’art. 184 c.p.c., il giudice d’appello ha infatti affermato che la richiesta di concessione dei termini per deduzioni istruttorie era stata avanzata da Pafes, all’udienza di precisazione delle conclusioni, al solo fine di introdurre in giudizio una domanda risarcitoria (per danni da inquinamento ambientale) in precedenza non formulata ed implicante un nuovo tema di indagine, che, in quanto inammissibile, non avrebbe potuto formare oggetto di prova; ha inoltre osservato che, in ogni caso, la richiesta non avrebbe potuto essere accolta per il dirimente rilievo che la società non aveva articolato i nuovi mezzi istruttori neppure nell’atto di citazione in appello.

Non potendo tenersi conto delle doglianze tardivamente illustrate da Pafes nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c. (con le quali, peraltro, la ricorrente sembra dolersi, più che della mancata concessione dei termini, della mancata ammissione della ctu richiesta), deve concludersi che la censura investe solo la prima delle indicate rationes decidendi.

La ricorrente è pertanto priva di interesse a sollevarla, posto che la sua eventuale fondatezza non potrebbe di per sè condurre alla riforma del capo della decisione in esame, comunque sorretto dalle motivazioni non impugnate e divenute definitive (fra molte, Cass. nn. 3386/011, 24540/09, 2272/07).

2) Col secondo motivo Pafes denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2555, 2921, 2922 c.c., art. 1429 c.c., comma 1, n. 1, art. 1477 c.c., comma 1 e art. 1218 c.c. nonchè vizio di motivazione.

Premette che la decisione impugnata si fonda sul duplice rilievo che il compendio subastato è un complesso di singoli beni mobili e immobili e non un’azienda di enopolio e che i vizi denunciati involgono aspetti marginali, anche se importanti, dello stato di tali beni ed osserva, in contrario, che la relazione di stima del ctu, costituente parte integrale dell’ordinanza di vendita, ha avuto ad oggetto il complesso aziendale della fallita, che l’agenzia delle entrate ha ritenuto che il trasferimento dovesse essere tassato come cessione d’azienda e che anche il giudice delegato ed il curatore, riferendosi ai beni posti all’incanto, hanno spesso utilizzato le espressioni "complesso industriale o "azienda". Deduce, in conseguenza, che oggetto della vendita è stata l’azienda della fallita e che le difformità e le mancanze riscontrate nei beni che la compongono costituiscono vizi tali da comprometterne la funzione socioeconomica, sì da integrare l’ipotesi di vendita di aliud pro alio, cui non si applica l’art. 2922 c.c.. Rileva, ancora, che la Corte ha omesso di illustrare le ragioni per le quali tali vizi sarebbero, invece, marginali ed è anzi incorsa in contraddizione laddove ha affermato che i difetti o le mancanze si riferiscono ad aspetti importanti dei beni aggiudicati in sede di vendita. Contesta, infine, che il parere dell’Agenzia delle Entrate sia irrilevante ai fini civilistici e ribadisce il proprio diritto ad ottenere la riduzione del prezzo versato ed il risarcimento quantomeno dei danni derivati dalla mancata, tempestiva risoluzione del contratto di locazione dell’immobile.

Anche questo motivo va dichiarato inammissibile.

Va ricordato che, ai sensi dell’art. 2922 c.c., comma 1, nella vendita forzata compiuta nell’ambito dei procedimenti esecutivi, ed applicabile anche alla vendita disposta in sede di liquidazione dell’attivo fallimentare, non operano le garanzie per i vizi o la mancanza di qualità della cosa di cui agli artt. 1490-1497 c.c..

La norma non riguarda, però, l’ipotesi di vendita di aliud pro alio, configurabile quando il bene aggiudicato appartenga ad un genere del tutto diverso da quello indicato nell’ordinanza di vendita, ovvero manchi delle qualità necessarie per assolvere la sua naturale funzione economico-sociale, oppure quando risulti compromessa la destinazione del bene stesso all’uso che, preso in considerazione dall’ordinanza, abbia costituito elemento determinante per l’offerta di acquisto (cfr., da ultimo, Cass. n. 21249/2010).

Non è in discussione nella presente sede se, in tale ultima ipotesi, l’acquirente sta legittimato unicamente a richiedere la risoluzione del contratto o possa domandare anche la riduzione del prezzo, non essendo stata impugnata la decisione con la quale la Corte territoriale – spingendosi all’esame del merito del gravame – ha implicitamente ritenuto ammissibile l’actio quanti minoris.

Ciò precisato, va in primo luogo rilevato che le doglianze della ricorrente sono volte non già a denunciare, secondo quanto richiesto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’erronea ricognizione, da parte del giudice del merito, delle astratte fattispecie disciplinate dalle norme codicistiche indicate in rubrica, bensì a contestare l’applicabilità di dette norme alla concreta fattispecie dedotta in giudizio, in ragione dell’errata valutazione delle risultanze di causa, e dunque ad impugnare la sentenza esclusivamente sotto il profilo del vizio di motivazione.

Il mezzo – esaminato sotto detto profilo – si rivela peraltro non rispondente al disposto dell’art. 366 c.p.c.. Infatti, a fronte dell’ampia ed esaustiva disamina dei documenti versati in atti, sulla quale si fonda l’accertamento del giudice d’appello secondo cui l’ordinanza di vendita non ha avuto ad oggetto l’azienda della fallita ma solo i singoli beni, mobili ed immobili, che ne facevano un tempo parte (di per sè sufficiente a giustificare il rigetto delle domande di Pafes, basate sul contrario assunto che il Fallimento avesse posto in vendita l’azienda appartenuta a Tres Tabernae), la ricorrente si è limitata a muovere genericissime censure, prive dell’indicazione degli elementi istruttori – decisivi per giungere all’accoglimento dell’appello – che la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare od avrebbe erroneamente valutato, e sostanzialmente volte a sollecitare una diversa interpretazione delle risultanze processuali; risulta, inoltre, omessa la produzione dei documenti sui quali le censure si fondano, nè è stato precisato se essi possano essere rintracciati all’interno dei fascicoli di parte o di quello d’ufficio.

All’inammissibilità del ricorso principale consegue, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., comma 2, l’inefficacia del ricorso incidentale condizionato del Fallimento.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale ed inefficace il ricorso incidentale condizionato; condanna Pafes s.r.l. al pagamento delle spese processuali, che liquida in favore del Fallimento della Casa Vinicola Tres Tabernae coop. a r.l. in complessivi Euro 11.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2012

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