Cass. civ. Sez. II, Sent., 05-07-2012, n. 11309 Azioni a difesa della proprietà rivendicazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato in data 6.2.1985 C.V., L.P. G. e N.G.G., premesso di essere discendenti ed eredi legittimi di C.R., deceduta ab intestato nel 1918, lasciando tra l’altro un appezzamento di terreno di circa are 7,83 in (OMISSIS), citarono al giudizio del locale Pretore D.M.C., al fine di sentire dichiarare nullo, o loro non opponibile, l’atto pubblico per notar Albore dell’11.5.1977 con il quale il convenuto si era reso donatario, da parte di A.S. (vedovo ed erede testamentario di N.C., altra discendente ed erede legittima della suddetta de cuius) dell’intero fondo suddetto, benchè questo nell’anno 1935 fosse stato oggetto di una divisione bonaria tra i vari figli ed eredi di C.R. .. venendo assegnato a C.M. (coniugata N.) e C.A., dei quali gli istanti erano, tra gli altri, rispettivi eredi legittimi;

pertanto gli attori rivendicavano le quote loro spettanti, conseguentemente chiedendo il rilascio del bene ed il risarcimento dei danni.

Costituitosi il convenuto, eccepì l’incompetenza per valore del giudice adito e contestò nel merito la domanda, segnatamente opponendo il proprio possesso esclusivo ultraventennale sul fondo, per cui propose domanda riconvenzionale diretta alla dichiarazione del relativo acquisto di proprietà per usucapione.

A seguito della sentenza n. 244/86 del Pretore di Ischia, che aveva rimesso ex artt. 34 e 36 c.p.c. le parti per competenza al Tribunale di Napoli e della conseguente riassunzione da parte degli attori, la causa proseguiva tra le suddette costituite parti e, dopo istruttoria orale, tra numerose altre (non tutte però citate), nei confronti delle quali, quali eredi di C.R., il tribunale suddetto aveva ordinato l’integrazione del contraddittorio con ordinanza del 3/11.11.93.

Di tali nuove parti si costituivano soltanto, congiuntamente, A., M. e C.R., sorelle dell’attore Vincenzo, alla cui domanda aderivano.

Rinnovata, a garanzia dei ritenuti litisconsorti, l’istruttoria testimoniale, con sentenza del 25/10-3/12/01 il Tribunale di Napoli, ritenuto che l’ A., all’epoca della donazione a D.M. C., fosse proprietario dell’intero fondo in questione, per averlo precedentemente, come emerso dalle prove testimoniali, posseduto per oltre un trentennio, rigettava la domanda degli attori, condannando i medesimi e le intervenute al rimborso delle spese al convenuto.

Contro tale sentenza C.V. e L.P.G. proposero appello, cui resistette il D.M., mentre l’altro attore, N.G.G., e le intervenute A., M. e C.R., ai quali soltanto era stato notificato il gravame, non si costituivano.

Con sentenza in data 16/31.3.2005 la Corte di Napoli rigettò l’appello, compensando le spese, sulla base delle argomentazioni che, per quanto rileva nella presente sede, possono sintetizzarsi nei seguenti termini: 1) la domanda, anche in considerazione della contestazione opposta dal convenuto, non concernente la qualità di eredi degli attori, ma la sola proprietà del bene controverso, era da qualificarsi una rivendicazione e non una petizione ereditaria; 2) non era pertanto necessaria la partecipazione al giudizio di tutti gli eredi di C.R., nè comunque la, non del tutto ottemperata, ordinanza di integrazione del contraddittorio avrebbe potuto comportarne l’estinzione o improcedibilità (non eccepitale rilevata dal primo giudice), non configurandosi un litisconsorzio necessario, in relazione sia alla domandaci mero accertamento, non costitutiva, concernente la nullità o inefficacia della donazione, sia alla eccezione, non domanda, riconvenzionale di usucapione proposta dal convenuto al solo scopo di paralizzare la domanda attrice, che era stata in effetti ed in tali limiti accolta dal primo giudice, senza poter dunque incidere sui diritti di comproprietà eventualmente spettanti agli altri, non evocati, aventi causa dalla suddetta originaria proprietaria; 3) l’omessa precisazione nell’atto di donazione del 1977 che il donante avesse usucapito il fondo era irrilevante, essendo all’epoca già maturato il termine di cui all’art. 1158 c.c., senza che al riguardo fosse necessaria una previa verifica giudiziale del relativo acquisto; 4) peraltro la prova testimoniale offerta, ammissibile in quanto relativa a circostanze di fatto, aveva comprovato la sussistenza di un possesso continuo, iniziato dal donante, dopo il decesso della moglie N. C., che a sua volta aveva posseduto il bene fin dal 1950, possesso esclusivo poi protratto, da parte del donatario, anche dopo la donazione; 5) la mancata prova del pagamento dei tributi fondiari e della conoscenza da parte degli altri contitolari della situazione possessoria erano irrilevanti, nel particolare contesto costituito dalla coltivazione e percezione dei frutti, secondo la naturale destinazione del bene, di un piccolo fondo (un vigneto), in modo esclusivo, palese e pacifico, senza averlo occupato con violenza o clandestinità; 6) le modalità esclusive dell’esercizio di tale possessori mancato riparto degli utili, mai richiesto da alcuno dei coeredi, il sostanziale disinteresse di questi ultimi, rendevano non necessaria la prova dell’interversio possesionis.

Avverso tale sentenza C.V. e L.P.G. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

Ha resistito D.M.C. con controricorso.

N.G.G., C.A., M. e R., nei cui confronti è stata disposta, con ottemperata ordinanza interlocutoria, l’integrazione del contraddittorio, non hanno svolto attività difensiva.

All’esito della pubblica udienza, il collegio, disattesa in limine una richiesta di rinvio del difensore dei ricorrenti (in considerazione dell’irrilevanza, in sede di legittimità, del dichiarato decesso del C. e della risalenza del processo), ha deciso come di seguito.
Motivi della decisione

Va preliminarmente disattesa l’eccezione, sollevata dal controricorrente, deducente l’inammissibilità del ricorso, per mancanza di data ed assunta genericità del mandato difensivo, considerato che l’apposizione dello stesso a margine della prima pagina dell’atto d’impugnazione, nella cui epigrafe è indicata, in tutti i suoi estremi identificativi, la sentenza che si intende impugnare, ed il conferimento espresso dell’incarico riferito "al presente atto", non consentono di poter dubitare, a prescindere dall’improprietà formulare del timbro al riguardo utilizzato, della posteriorità cronologica di tale mandato rispetto alla sentenza gravata e della specialità ex art. 369 c.p.c. dello stesso (in tal senso e per casi analoghi di contestualità v., tra le tante, Cass. nn. 2211/04, 26048/05, 26233/05, 1954/09).

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 102, 132, 270, 272 e 167 c.p.c., artt. 769, 771, 1159 e 1158 c.p.c., con connessa insufficiente contraddittoria motivazione su punti decisivi, essenzialmente censurandosi la mancata dichiarazione di estinzione o improcedibilità del giudizio, pur avendo la corte medesima premesso che tale pronunzia avrebbe dovuto adottarsi anche di ufficio, senza tener conto dell’inosservanza dell’ordinanza di integrazione del contraddittorio e che la domanda riconvenzionale del convenuto, qualificata tale da parte del medesimo, del Pretore, del Tribunale e della stessa Corte, non avrebbe potuto trovare accoglimento se non nei confronti di tutti i contitolari del bene, vale a dire di tutti gli eredi di C.R..

Il motivo non merita accoglimento.

Premesso che la qualificazione della domanda principale quale azione di rivendicazione, con la conseguente esclusione del litisconsorzio necessario nei confronti di tutti gli eredi di C.R. non ha formato oggetto di motivi di censura, e che del pari incensurata è rimasta l’analoga esclusione relativamente alla richiesta di declaratoria di nullità o di inefficacia dell’atto di donazione del 1977, la surriferita doglianza dei ricorrenti, limitata a tale questione con riferimento alla domanda riconvenzionale di usucapione, non coglie nel segno, non avendo considerato che il giudice di appello ha escluso detta necessità con riferimento alla sola eccezione e non alla domanda riconvenzionale, evidenziando come soltanto sulla prima quello di primo grado si fosse pronunziato, "senza statuire in alcun modo" sulla seconda (v. pag. 18 della sentenza impugnata).

Di tale mancata pronunzia l’unica parte che avrebbe potuto dolersi, e non lo ha fatto (evidentemente pago dell’accoglimento della propria tesi, sia pur in termini di eccezione, e consapevole che l’omessa integrazione de qua, su di essa gravante, aveva comportato la perenzione di tale domanda), era il convenuto, attore in riconvenzionale ed appellato, D.M.. Da quanto precede consegue che correttamente il giudice di appello ha limitato il proprio esame, sull’integrità o meno del contraddittorio, con riferimento alla sola eccezione e non anche alla domanda riconvenzionale, che ormai non apparteneva più al processo, pervenendo ad una conclusione altrettanto corretta, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità (v. Cass, nn. 26422/08, 5353/04, 2327/90 relativa quest’ultima ad un precedente in termini), sulla base di argomentazioni del tutto condivisibili, che peraltro, in quanto basate sulla distinzione tra gli effetti di una domanda riconvenzionale, diretta ad incidere sui diritti di tutti i contitolari del bene, e quelli di una semplice eccezione, assolvente al più limitato fine di paralizzare l’avversa pretesa rivendicativa, con efficacia soltanto inter partes (v. Cass. nn. 10441/02, 3618/99, citate nella sentenza impugnata), non hanno formato oggetto di pertinenti critiche da parte dei ricorrenti.

Il mezzo d’impugnazione, invero, non cogliendo tale distinzione ed invocando principi riferibili alle sole ipotesi di domande riconvenzionali, presupponendo l’avvenuto accoglimento di una domanda di tal genere, si risolve nella formulazione di censure palesemente inammissibili, per difetto di specificità.

Con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1158 e segg. c.c., artt. 113 e 116 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, poichè la corte di merito, senza tener conto della documentazione prodotta dagli attori, avrebbe ritenuto sussistente il possesso continuo ed esclusivo addotto dalla controparte, in particolare quello del donante A. asseritamente esercitato prima della donazione, non considerando che la moglie, di cui egli era erede testamentario, fosse titolare solo di una piccola quota del fondo, nè che nell’atto di donazione, di gran lunga eccedente quanto era nella disponibilità del donante, questi si fosse riservato l’usufrutto, così interrompendo il possesso ad usucapionem. Si soggiunge che, peraltro, il medesimo, con le manifestazioni di volontà consacrate nell’atto pubblico, non solo escludeva un suo eventuale possesso esercitato "anteriormente alla morte della moglie, ma metteva in essere un fatto incompatibile con la immaginaria volontà di avvalersi di una usucapione".

Anche tale motivo deve essere respinto, risolvendosi, al di là del richiamo alle norme di diritto che si assumono violate, nella riproposizione di censure in fatto corrispondenti a quelle analoghe già rivolte verso la sentenza di primo grado, che la corte territoriale ha correttamente disatteso, fornendo una ricostruzione delle vicende possessorie ad oggetto del fondo, conducenti all’accertamento dell’usucapione eccepito dal D.M., esaustiva e convincente, basata sulla valutazione delle risultanze istruttorie, segnatamente testimoniali, esente da vizi logici e, pertanto, incensurabile nella presente sede, nella quale non ne è ammessa la rivisitazione.

Per quanto attiene, in particolare, alla circostanza che N. C., moglie del donante A., di cui quest’ultimo era unico erede testamentario, fosse titolare soltanto di una piccola quota del fondo, è agevole osservare che la limitata estensione dello ius possidendi da parte della stessa poco o punto poteva rilevare ai fini dell’accertamento della effettiva ed esclusiva signoria di fatto sul bene, integrante possessio ad usucapionem, che attraverso la prova testimoniale era risultata totalitaria e risalente ad almeno il 1950, vale a dire ad un tempo più che sufficiente, all’epoca del suo decesso (avvenuto nel 1976), al conseguimento ex art. 1158 c.c. della relativa proprietà e, dunque, a trasmetterla al coniuge erede, che a sua volta ben avrebbe potuto, anche in assenza di una sentenza dichiarativa di tale acquisto, disporre del fondo, con il successivo atto di donazione del 1977.

Altrettanto irrilevante era la circostanza che il donante si fosse, in tale ultimo atto, riservato l’usufrutto sul bene, nel contesto di una vicenda nella quale l’usucapione si era già in precedenza maturata, sicchè priva di alcuna valenza giuridica risulta l’affermazione che tale riserva avrebbe "interrotto" la continuità di quel possesso, posto che il donatario, nudo proprietario, non aveva più alcuna necessità di cumulare il proprio con quello dei danti causa, ai fini del raggiungimento del ventennio utile ex art. 1158 c.c. pestando soltanto in attesa del consolidamento del proprio diritto dominicale, poi verificatosi con l’estinzione ex art. 979 c.c. dell’usufrutto alla morte del donante; sicchè la prova della protrazione del possesso, da parte prima dell’ A., poi dello stesso D.M., che quest’ultimo "prudenzialmente" (v. pag. 20 della sentenza impugnata) aveva anche fornito, non sarebbe stata comunque necessaria, avendo il convenuto validamente acquisito, fin dal 1977, la proprietà del bene a titolo particolare, in virtù di un trasferimento posto in essere da parte di un soggetto che ne poteva già disporre.

Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1140, 1141, 1144, 1146, 1147, 1158, 1164 e 1167 c.c., falsa applicazione dell’art. 1158 c.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, per avere la corte territoriale omesso di esaminare il "profilo di inammissibilità della prova testimoniale" e motivato genericamente sulle relative risultanze, tenendo conto nella relativa valutazione soltanto degli aspetti "esterni" della gestione del piccolo fondo, e non anche di quelli "interni", relativamente ai rapporti trai i coeredi, sui quali nulla avevano potuto riferire i testasi soggiunge che la gestione di un piccolo fondo comune tra coeredi di per sè non avrebbe comportato il "mutamento del titolo in opposizione ai comproprietari, con i quali esisteva uno stretto vincolo familiare"; sicchè, ove si volesse ritenere "il caso del possesso esclusivo, la consapevolezza ab origine di una lesione dell’altrui diritto all’amministrazione e godimento del bene comune" avrebbe qualificato di mala fede il possesso, che come tale avrebbe escluso l’usucapione.

Il motivo non merita sorte migliore dei precedenti, risolvendosi anch’esso nella prospettazione di sostanziali censure in fatto, avverso l’apprezzamento delle risultanze istruttorie di cui la corte di merito ha dato ampiamente conto, senza incorrere in alcuna illogicità o errore di diritto.

Per quanto attiene, in particolare, all’assunta inammissibilità della prova testimoniale, doglianza che difetta anche di autosufficienza non riportando le articolazioni del censurato mezzo istruttorio, l’argomentazione esposta dalla corte, secondo cui i testi si sarebbero limitati a riferire di situazioni di fatto (riferendo, evidentemente, di quanto constatato o appreso circa il godimento del piccolo fondo) resiste alla generica censura, non precisandosi in qual modo i deponenti siano stati, eventualmente, chiamati ad esprimere valutazioni o personali giudizi. Quanto ai rapporti "interni" tra i coeredi, sui quali i testi avrebbero omesso di riferire, altrettanto generica è la censura, non indicando quali fossero gli eventuali concreti accordi tra tali soggetti, comportanti l’attribuzione a N.C. e, successivamente, all’ A., del godimento, a titolo di detenzione fiduciaria del bene, per conto anche degli altri assunti compossessori.

Sulla non necessità di una formale "interversione" nei confronti degli altri compossessori, ove il soggetto dimostri l’inequivoca intenzione di possedere il bene in modo esclusivo ed incompatibile con l’altrui compossesso il bene – come nella specie avvenuto, coltivando e facendo propri i frutti del piccolo vigneto, nel totale e protratto disinteresse degli altri contitolari, senza renderne conto ad alcuno di essi – corretto e pertinente risulta il richiamo da parte del giudice di merito al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Cass. nn. 1783/93, 8383/88, 5079/86, 319/85, 2622/84, 816/81, cui vanno aggiunte le più recenti nn. 7221/09, 16841/05, 13921/02).

Quanto, infine, all’assunta consapevolezza di ledere i diritti degli altri eredi aventi titolo, è agevole osservare che, per altrettanto costante giurisprudenza di questa Corte, la mala fede del possesso, ove lo stesso non sia anche connotato da violenza o clandestinità (il che non risulta, nè viene dedotto), non è ostativa all’acquisto della proprietà in virtù di usucapione ordinaria ventennale (v tra le altre, Cass. nn. 2857/06, 10230/02, S.U. 2088/90).

Il ricorso va, conclusivamente respinto. Le spese, infine, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso delle spese processuali in favore dei resistenti, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui 200 per esborsi, altre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2012

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