Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 23-11-2011) 14-12-2011, n. 46283

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 9/12/2010, la Corte di appello di Catanzaro, confermava la sentenza del Gip presso il Tribunale di Cosenza, in data 20/10/2009, che aveva dichiarato C.F. e F. F. colpevoli di alcuni reati di estorsione e tentata estorsione provvedendo a mitigare la pena che rideterminava in anni sette e mesi quattro di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa ciascuno.
La Corte territoriale respingeva tutte le censure mosse con gli atti d’appello, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità di ciascun imputato in ordine ai reati rispettivamente ascritti, provvedendo soltanto a rideterminare la pena inflitta.
Avverso tale sentenza propongono ricorso entrambi gli imputati per mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.
C.F. solleva due motivi di gravame.
Con il primo motivo deduce vizio della motivazione, violazione di legge e di norme processuali stabilite a pena di nullità. In particolare eccepisce la violazione dei criteri che governano la valutazione della prova, di cui all’art. 192 cod. proc. pen., comma 1, e si duole che i giudici abbiano formato il proprio convincimento sulla base di una pregiudiziale fiducia nella credibilità del narrato delle persone offese. In tal modo i giudici di merito sarebbero venuti meno al dovere di effettuare un attento controllo della credibilità delle persone offese, scartando ingiustificatamente le dichiarazioni del C. e del coimputato F. e non prendendo in considerazione circostanze significative come il mancato sequestro delle banconote da parte dei Carabinieri impegnati nel servizio di OCP. Con il secondo motivo deduce vizio della motivazione e violazione di legge in relazione al diniego della concessione delle attenuanti generiche ed alla dosimetria della pena, giudicata eccessiva.
F.F. solleva due motivi di gravame.
Con il primo motivo deduce il vizio della motivazione, dolendosi di motivazione apparente, essendosi i giudici dell’appello limitati a ripercorrere la motivazione del giudice di prime cure senza effettuare il doveroso vaglio critico delle argomentazioni sollevate dalla difesa con l’appello, tanto in punto di responsabilità, quanto in punto di diniego di concessione delle attenuanti genetiche.
Con il secondo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 629, all’ art. 56 cod. pen., comma 3 all’art. 194 cod. proc. pen., comma 2 ed agli artt. 62 bis e 133 cod. pen..
In particolare eccepisce l’insussistenza del reato di cui all’art. 629 cod. pen., per il difetto del requisito della violenza o della minaccia nel comportamento del F., con riferimento al reato di cui al capo F). Quanto ai reati di cui ai capi D) ed M), si duole che la Corte non abbia riconosciuto al prevenuto l’esimente della desistenza volontaria, di cui all’art. 56 cod. pen., comma 3. Si duole, inoltre che la Corte d’appello abbia basato il proprio convincimento basandosi esclusivamente sulla credibilità del narrato delle persone offese dal reato, senza effettuare il doveroso controllo di attendibilità. Quanto alla pena, si duole della violazione dei criteri di cui agli artt. 62 bis e 133 c.p., deducendo che la Corte non avrebbe tenuto nel debito conto il comportamento processuale dell’imputato il quale aveva collaborato nella fase delle indagini.

Motivi della decisione

Entrambi i ricorsi sono inammissibili in quanto basati su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati.
C.F..
Quanto al primo motivo, occorre rilevare che, secondo l’insegnamento di questa Corte:
"In tema di valutazione della prova testimoniale, a base del libero convincimento del giudice possono essere poste sia le dichiarazioni della parte offesa sia quelle di un testimone legato da stretti vincoli di parentela con la medesima. Ne consegue che la deposizione della persona offesa dal reato, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6910 del 27/04/1999 Ud. (dep. 01/06/1999) Rv.
213613; Sez. 5, Sentenza n. 8934 del 09/06/2000 Ud. (dep. 08/08/2000) RV. 217355; Sez. 2, Sentenza n. 4281 del 17/08L.0O0 Cc. (dep. 24/08/2000) Rv. 217419).
Tanto premesso, occorre precisare che: "in tema di prove, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e che non può essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni" (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8382 del 22/03/2008 ud. (dep. 25/02/2008) Rv. 239342).
Nel caso di specie il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale non presenta contraddizioni manifeste, al contrario il controllo dell’attendibilità delle dichiarazioni delle persone offesa è stato effettuato dalla Corte con argomentazioni in fatto coerenti e prive di vizi logico-giuridici. Tale attendibilità trova un inoppugnabile elemento di conferma nei riscontri esterni valutati dalla Corte, quali l’intercettazione ambientale del 14/12/2007 e gli esiti del servizio di OCP condotto dai Carabinieri di Rende.
Parimenti inammissibile è il motivo concernente le non concesse attenuanti generiche e la misura della pena giacchè la motivazione della impugnata sentenza, pure su tali punti conforme a quella del primo giudice, si sottrae ad ogni sindacato per avere adeguatamente richiamato la biografia penale e il comportamento dell’imputato – elementi sicuramente rilevanti ex artt. 133 e 62 bis c.p.p. – nonchè per le connotazioni di complessiva coerenza dei suoi contenuti nell’apprezzamento della gravità dei fatti. Nè il ricorrente indica elementi non considerati in positivo decisivi ai fini di una diversa valutazione.
F.F..
Per quanto riguarda il primo motivo con il quale il ricorrente si duole di motivazione apparente per avere il giudice d’appello ripercorso la sentenza di primo grado, occorre rilevare, in punto di diritto, che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sulle conclusioni raggiunte, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione. Pertanto, il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4827 del 28/4/1994 (ud. 18/2/1994) Rv. 198613, Lo Parco; Sez. 6, Sentenza n. 11421 del 25/11/1995 (ud.
29/9/1995), Rv. 203073, Baldini). Inoltre, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ritiene che non possano giustificare l’annullamento minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa decisione, semprechè tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile carattere di decisività e non risultino, di per sè, obiettivamente e intrinsecamente idonei a determinare una diversa decisione. In argomento, si è spiegato che non costituisce vizio della motivazione qualsiasi omissione concernente l’analisi di determinati elementi probatori, in quanto la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso probatorio, dal momento che soltanto una valutazione globale e una visione di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso, implicitamente confutati. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3751 del 23/03/2000 (ud. 15/02/2000), Rv. 215722, Re Carlo; Sez. 5, Sentenza n. 3980 del 15/10/2003 (Ud. 23/9/2003) Rv.226230, Fabrizi; Sez. 5, Sentenza n. 7572 del 11/06/1999 (ud. 22/4/1999) Rv.
213643, Maffeis). Le posizioni della giurisprudenza di legittimità rivelano, dunque, che non è considerata automatica causa di annullamento la motivazione incompleta nè quella implicita quando l’apparato logico relativo agli elementi probatori ritenuti rilevanti costituisca diretta ed inequivoca confutazione degli elementi non menzionati, a meno che questi presentino determinante efficienza e concludenza probatoria, tanto da giustificare, di per sè, una differente ricostruzione del fatto e da ribaltare gli esiti della valutazione delle prove.
In applicazione di tali principi, può osservarsi che la sentenza di secondo grado recepisce in modo critico e valutativo la sentenza di primo grado, correttamente limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di valutazione critica da parte della difesa, omettendo, in modo del tutto legittimo in applicazione dei principi sopra enunciati, di esaminare quelle doglianze degli atti di appello che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice.
Per quanto riguarda il secondo motivo, le censure di violazione di legge sono destituite di fondamento. Secondo l’insegnamento di questa Corte: "La minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre ad essere palese ed esplicita, può essere manifestata anche in maniera implicita ed indiretta, essendo solo necessario che sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni ambientali in cui questa opera" (vedi, da ultimo, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19724 del 20/35/2010 Cc. (dep. 25/05/2010) Rv. 247117). Nel caso di specie la Corte territoriale ha dato atto nella sua motivazione dei comportamenti concretamente (e non solo implicitamente) minacciosi da parte del F., attraverso un esame dei fatti, che non è suscettibile di rivalutazione in questa sede. Ugualmente destituita di fondamento è la tesi della desistenza volontaria con riferimento ai delitti tentati.
Per costante giurisprudenza di questa S.C. – per configurare l’ipotesi della desistenza volontaria è necessario che la determinazione del soggetto agente di non proseguire nell’azione criminosa si sia verificata al di fuori di cause che ne abbiano impedito la prosecuzione o l’abbiano resa vana (cfr. ad es. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 41484 del 29/09/2009 Cc. (dep. 28/10/009) Rv.
245233; Sez. 1^ n. 46179 del 2.12.2005, dep. 19.12.2005; conf. Cass. n. 17688/2004; Cass. n. 35764/2003; Cass. n. 5560/86); fra tali cause va annoverata – sempre in virtù di insegnamento (antico e costante) di questa Corte Suprema – non solo l’intervento di qualsiasi fattore esterno tale da impedire il prosieguo dell’azione o da renderlo vano ma anche la resistenza opposta dalla parte offesa, (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2610 del 17/03/1983 Ud. (dep. 24/03/1983) Rv. 158056;
Sez. 2, Sentenza n. 1193 del 15/13/1985 Ud. (dep. 31/01/1986) Rv.
171752).
Pertanto legittimamente la Corte territoriale ha respinto l’eccezione difensiva di desistenza volontaria, osservando che il reato non si era consumato per la resistenza opposta dal C. alle richieste estorsive del F. (fol. 24).
Infine, per quanto riguarda le censure in punto di diniego delle attenuanti generiche e di dosimetria della pena, valgono le stesse osservazioni già formulate con riferimento al coimputato C..
Quanto al comportamento processuale del F., i giudici del merito, hanno ragionevolmente escluso che potesse essere valutato positivamente, in quanto, dopo una iniziale collaborazione, con dichiarazioni ammissive rese ai Carabinieri di Bisignano, costui aveva optato per una diversa scelta processuale, rimanendo in silenzio per tutta la durata del processo, senza fornire una Plausibile spiegazione in ordine alle accuse mosse nei suoi confronti da C.A. e S.P..
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibili i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00) ciascuno.
P.Q.M.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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