Cass. civ. Sez. I, Sent., 05-07-2012, n. 11272 Prezzo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione del luglio 1999 l’Impresa C.G. – aggiudicataria di lavori di sistemazione dell’Acropoli di Civitavecchia e di creazione di una struttura museale e quindi stipulante l’appalto in data 10.8.1992 – convenne innanzi al Tribunale di Cassino l’appaltante Comune di Arpino ed il D.L. arch.

I.U. per ottenerne la condanna al pagamento de dovuto per lavori aggiuntivi iscritti in riserva, per spese addizionali per calcoli, per accessori, ed anche chiedendone la condanna ex art. 2041 c.c.. Si costituì il Comune eccependo la mancata riproposizione in sede di SAL delle riserve e comunque rilevando la rinunzia alle pretese contenuta nell’atto di sottomissione 28.2.1995. Si costituì lo I. eccependo il difetto di propria legittimazione passiva.

Il Tribunale con sentenza 7.2.2002 respinse tutte le domande, principale e subordinata, le prime per rinunzia alle pretese e quella avanzata nei riguardi del D.L. per difetto di legittimazione. Il C. ha quindi proposto appello e si sono costituiti il Comune e lo I. chiedendone la reiezione.

La Corte di Appello di Roma con sentenza 24.1.2005 ha rigettato l’appello affermando: che risolto l’appalto con delibera 31.5.1994 per mancata approvazione e sottomissione a variante, l’Impresa C. si indusse poi a sottoscrivere l’atto del 28.2.1995 con il quale accettava, in particolare all’art. 1, le opere come progettate a seguito della perizia di variante chiesta dalla Sopraintendenza e rinunziava a pretese per compensi correlati ai lavori relativi a quell’atto (che comportava un aumento di ammontare pari a lire 17.724.932 e per un totale di lire 319.109.712), che da tanto correttamente era desumibile una rinunzia ad ogni diverso compenso, che le riserve di cui ai SAL 2 e 3 del 1995 non potevano ritenersi afferire ad opere diverse da quelle previste nella variante non avendo l’Impresa indicato quali diversi lavori rispetto a quelli previsti in variante sarebbero stati eseguiti, che al proposito non era esperibile una CTU, che inoltre andava rilevato che le riserve in questione non erano state inserite nel 4 SAL nè in sede di collaudo finale, che conseguentemente restavano assorbite le altre domande.

Per la cassazione di tale sentenza C.G. quale rappresentante della omonima ditta ha proposto ricorso in data 8.2.2006 affidato ad otto motivi, ai quali si sono opposti lo I. ed il Comune di Arpino con controricorsi del 15 e 20.3.2006. I controricorrenti hanno depositato memorie finali.
Motivi della decisione

Ritiene il Collegio che, non essendo condivisibili le censure proposte, il ricorso del C. vada rigettato.

Primo motivo: esso censura per vizio di motivazione la interpretazione data all’atto di sottomissione 28.2.1995 che, ad avviso del C., non poteva che riguardare la rinunzia a riserva o richiesta per i lavori aggiuntivi – oggetto della variante approvata – che si andavano ad accettare e non certo per l’intero compendio dei lavori aggiudicati. Ad avviso del Collegio non è condivisibile i tentativo del ricorrente di contestare una valutazione fatta dal giudice del merito che si è basata sulla lettura complessiva dell’atto, sulla lettura del comportamento anteriore (la sospensione e la risoluzione "ante" variante"), sul necessario collegamento con l’intero complesso di lavori della sottomissione, sostituendola con la propria interpretazione. Nè sussistono contraddizioni – nella assai sintetica motivazione della impugnata sentenza – che inficino la logica del decisum finale, che è stato quello di condividere l’argomentazione complessiva del primo giudice ritenendo non accoglibile la proposta interpretativa del C. di limitare l’effetto abdicativo ai soli lavori oggetto della accettata perizia di variante.

Secondo motivo: a completamento del primo motivo esso denunzia la violazione del R.D. n. 350 del 1895, art. 20 e L. n. 2248 del 1865, artt. 343 e 344, all. F per avere la Corte di Roma dato alla sottoscrizione dell’atto di sottomissione – che per legge è atto diverso ed accessorio da, e rispetto a, quello principale – una lettura relativa anche all’intera opera che doveva invece rimanere disciplinata dal distinto ed autonomo contratto principale.

Il motivo è da ritenersi infondato. In diritto è indiscutibile che l’accordo e l’atto di sottomissione abbiano la natura e la portata di autonomo contratto modificativo-sostitutivo del precedente (Cass. 8094 del 2000, 13068 del 2003, 12416 del 2004, 10663 del 2011). In fatto è stato accertato dalla Corte di merito che la variante venne prima disposta, non accettata e poi nuovamente accettata dopo che l’appaltante in data 31.5.1994 aveva dichiarato risolto il contratto.

L’atto successivo, pertanto, si sostituì necessariamente al precedente che richiamò e fece proprio per il suo contenuto negoziale ma non certo come fonte di obbligazioni, la richiamata risoluzione avendo infatti impedito ogni efficacia in tal senso. E pertanto tale atto certamente non può ritenersi mera autonoma "appendice" del primo, visto che il primo contratto era stato dichiarato risolto. Quindi la lettura della clausola abdicativa contenuta nell’atto 28.2.1995 in relazione alla sua estensione se, da un lato, è questione interpretativa correttamente risolta (vd. il primo motivo) dall’altro lato appare coerente con una valutazione della concreta dislocazione della vicenda contrattuale tra le parti.

Terzo motivo: esso contesta l’argomentazione ulteriore della sentenza (……nè può ritenersi) per la quale, se pur non rinunziate perchè afferenti fatti diversi da quelli connessi ai lavori di cui alla perizia di variante, le pretese di cui alle riserve del 2 e 3 S.A. sarebbero inaccoglibili per genericità; la Corte ha infatti ai proposito affermato che, non essendo precisato quali opere, diverse da quelle in perizia di variante, sarebbero oggetto delle riserve e non essendo tale genericità surrogabile con una CTU meramente esplorativa, la prospettazione sarebbe stata inaccoglibile. Ebbene, ad avviso del C., contrariamente alla opinione della Corte di Roma, le riserve vennero esplicitate in atto notificato al Comune e documentato nel fascicolo di primo grado. Inoltre la CTU lungi dal potersi ritenere esplorativa sarebbe stata invece affatto necessaria.

Il motivo è palesemente inammissibile: 1) quanto alle "documentate" riserve, per totale difetto di autosufficienza non potendo la Corte di legittimità, in sede di censura per omessa motivazione, farsi carico di individuare e consultare i documenti indicati con i numeri 5 e 6 posti nel fascicolo di primo grado e dei quali non si formula alcun adeguato, se pur sintetico, richiamo al fine di evidenziare la rilevanza della loro omessa considerazione; 2) quanto alla negata CTU, per la ribadita totale genericità del tema da accertare, limitandosi infatti il ricorrente ad affermare che la consulenza avrebbe illustrato lo stato dei luoghi in relazione alle riserve (il cui contenuto – si è appena detto – resta affidato a documenti neanche sintetizzati).

Quarto motivo: la censura contesta ancora l’argomentazione spesa dalla Corte di merito palesemente ab abundantiam, quella per la quale dalle riserve la Impresa sarebbe comunque decaduta perchè non iscritte nè nel quarto SAL nè in sede di collaudo: la pretesa duplicazione costituisce violazione del R.D. n. 350 del 1895, artt. 53, 54, 64 e 107.

Il motivo, da ritenersi certamente corretto in diritto, posto che le riserve apposte al 2 e 3 SAL non dovevano essere reiterate nel 4 SAL ma soltanto, come fatto, riproposte in conto finale (Cass. 11852 del 2007 e 19499 del 2010), resta però affatto assorbito nel rigetto della censura sulla genericità di allegazione dei contenuti delle riserve, sì che dette riserve, quand’anche tempestivamente proposte e conclusivamente richiamate, restano ut supra non esaminabili.

Quinto motivo: esso contesta che l’accordo del 28.2.1995 abbia avuto ad oggetto il "prezzo finale" nel mentre, ad avviso del ricorrente, l’atto di sottomissione ai sensi del R.D. n. 350 del 1895, art. 22 non poteva che riguardare i compensi per i lavori di cui alla variante. Il motivo è infondato esso traducendosi nella reiterazione di quanto illustrato nei motivi primo e secondo sopra esaminati. Va quindi ribadito che l’estensione dell’atto di sottomissione è stata considerata correttamente ed argomentata logicamente in conformità alla natura dell’atto ed alla vicenda di specie, che aveva visto prima la risoluzione del contratto e, all’esito del ripensamento dell’appaltatore, la stipula di una sottomissione al complesso di condizioni e previsioni.

Sesto motivo: esso denunzia la violazione degli artt. 2041 e 2042 c.c. commessa dal primo giudice, negando la domanda "per preclusione", e reiterata dal giudice dell’appello dichiarando assorbita la domanda, laddove nessun ostacolo, neanche quello di cui al D.L. n. 66 del 1989, art. 23, comma 4, si sarebbe dovuto frapporre alla sua cognizione. La censura è priva di alcun fondamento perchè la pronunzia di assorbimento devesi ritenere corretta. Con tale espressione sintetica il giudice di appello ha inteso in realtà affermare che, una volta esclusa la conoscibilità nel merito delle pretese ai maggiori ma indimostrati costi dei lavori e per le opere iscritte a riserva, e tale conoscibilità essendo esclusa sia per il valore "tombale" della rinunzia 28.2.1995 sia e comunque per la indimostratezza di opere e lavori, non vi era spazio alcuno per la disamina della residuale azione ex art. 2041 c.c. essa presupponendo comunque la prova della acquisizione del risultato "utile" da parte dell’appaltante. Ad integrazione di tal corretta motivazione in diritto va pervero aggiunto l’assorbente" rilievo per il quale nei confronti del Comune, per opere appaltate nel 1995, non sarebbe in ogni caso configurabile l’azione residuale de qua, posto che, o la spesa complessiva venne deliberata ed impegnata ed i lavori effettuati, ed allora solo l’azione contrattuale sarebbe stata proponibile (se correttamente proposta e se non preclusa ut supra), o detta spesa venne ad afferire a lavori nuovi (non deliberati nè pertanto muniti di copertura finanziaria), ed allora l’azione sarebbe stata esclusa stante la previsione ratione temporis applicabile (D.L. n. 66 del 1989, art. 23, comma 4 convertito in L. n. 144 del 1989) di diretta azionabilità del credito a carico dell’amministratore che tale spesa ebbe ad autorizzare (da ultimo Cass. 4216 del 2012).

Settimo motivo: esso denunzia per violazione del R.D. n. 350 del 1895, art. 6 la pronunzia di assorbimento anche delle domande proposte nei confronti del D.L. I.. Inconsistente deve ritenersi la censura anche se non di assorbimento si sarebbe dovuto parlare ma, come in questa sede il Collegio opera in sede di correzione della motivazione del giusto decisum, di rigetto per evidente infondatezza. Infatti, il Direttore dei Lavori esterno alla amministrazione appaltante è un professionista che, se svolge l’opus con la veste di pubblico ufficiale nell’espletamento dell’Ufficio che gli assegna la legge, sì da trovarsi temporaneamente inserito nell’apparato organizzativo della P.A., quale organo tecnico e straordinario della stessa (S.U. 7476 e 28537 del 2008), nel rapporto di servizio con l’ente appaltante rimane un professionista (S.U. 29097 del 2011) e nel rapporto "funzionale" con l’appaltatore non vede instaurato alcun rapporto obbligatorio con il medesimo. E proprio per tal ragione, non essendo il Direttore dei Lavori accostabile alla posizione di amministratore o funzionario del Comune, appare fuori di ogni plausibilità anche tentare di radicare il credito sulla previsione di cui al D.L. n. 66 del 1989, art. 23, comma 4 convertito in L. n. 144 del 1989 o sul D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191.

Ottavo motivo: esso contesta infine la esattezza del rigetto della domanda afferente il rimborso delle spese tecniche (calcoli in c.a.), rigetto motivato con il rilievo che dette spese, ricomprese nel prezzo di appalto, devono rimanere a carico dell’appaltatore: ad avviso del C. dette spese sarebbe state incombenti sul committente e la carenza di tal espletamento ne avrebbe riversato l’onere – ma non i costi – sulla appaltatrice. Il motivo è infondato. Se è un possibile obbligo dell’appaltatore quello di procedere ai calcoli dell’opera in c.a. (vd. Cass. 4433 del 2007) di tal costo deve rinvenirsi traccia nel prezzo di appalto, come ha genericamente affermato la Corte di merito. Se di contro una pretesa lacuna progettuale avesse imposto un supplemento di calcolo a carico dell’appaltatore, di tal spesa extra contratto sarebbe dovuta essere formulata precisa richiesta evidenziata da specifica riserva.

L’incertezza nella quale la censura in disamina lascia la prospettazione nulla dicendo o deducendo e sol richiamando generiche eventualità, rende la censura stessa affatto irricevibile.

Respinto il ricorso, sarà a carico del ricorrente la refusione delle spese di entrambi i controricorrenti.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a corrispondere a ciascuno dei controricorrenti per spese di giudizio la somma di Euro 5.200 (di cui Euro 200 per esborsi) oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2012

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