Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-07-2012, n. 11252 Categoria, qualifica, mansioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Poste italiane s.p.a. chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello di Napoli, pubblicata il 18 maggio 2006, che ha rigettato il gravame svolto dalla predetta società avverso la decisione di primo grado di accoglimento della domanda proposta da P.V., dipendente postale per il riconoscimento del superiore inquadramento nell’area quadri di 1^ livello, rispetto alla qualifica di quadro di 2^ livello posseduta, con condanna generica della società al pagamento delle differenze retributive.

2. P.V., inquadrato nella qualifica di quadro di 2^ livello, esponeva di essere stato direttore dell’agenzia n. 51 di Napoli dal 12.2.1994 al 29.4.1998, data del suo pensionamento, e che tale agenzia dovesse ritenersi ufficio di rilevante entità, onde il suo diritto all’inquadramento preteso con decorrenza dal 1 aprile 1996.

3. La Corte d’appello, confermando la decisione del primo giudice, rilevava, a sostegno del decisum:

– il comportamento omissivo della società, il cui legale rappresentante non aveva reso il libero interrogatorio ritenuto necessitato dal giudice di prime cure per la determinazione delle classi di appartenenza delle singole agenzie, nè aveva ottemperato all’ordinanza di esibizione del provvedimento di riconoscimento della natura di rilevante entità all’agenzia diretta dal P. e la mancata contestazione dello svolgimento dell’attività svolta dal P. o l’allegazione e prova dello svolgimento delle mansioni da questi svolte in sostituzione di altro dipendente con diritto alla conservazione del posto;

– le risultanze testimoniali, nel senso che anche prima dell’accordo del 9.7.1998 i criteri per la determinazione della rilevanza dell’agenzia non erano affidati alla libera autorganizzazione della società, ma erano ancorati a dati predeterminati e certi (fissati dal regolamento interno del Ministero delle Poste e Telecomunicazioni), onde era risultato accertato, a fronte del comportamento omissivo della società, la natura di rilevante entità dell’agenzia dall’anno 1997;

– con l’accordo del 9.7. 1998 l’agenzia veniva ritenuta ancora una volta di rilevante entità sulla base del ripetersi nel tempo dei medesimi carichi di lavoro che già aveva nel 1997;

– in definitiva, partendo dalla classificazione fin dal gennaio 1997, era stato realizzato, dal P., il requisito dei sei mesi ininterrotti di attività, per aver diretto la predetta agenzia dal gennaio 1997 al 29 aprile 1998.

4. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, Poste italiane s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione fondato su un unico motivo, illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c.. L’intimato ha resistito con controricorso, eccependo rinammissibilità ed infondatezza del ricorso.
Motivi della decisione

5. La parte ricorrente, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, con particolare riferimento all’art. 1363 c.c., e segg. e art. 2103 c.c., si duole che il primo giudice non abbia preventivamente compiuto una ricognizione della contrattazione collettiva di riferimento e che il giudice di appello non abbia tenuto conto della discrezionalità dell’imprenditore nella determinazione dei criteri per la classificazione delle agenzie, formulando un quesito di diritto, a corredo del motivo, fondato sui canoni interpretativi della disciplina collettiva.

6. Il motivo, nel quale si illustrano una congerie di doglianze in parte, e inammissibilmente, avverso la decisione di prime cure e solo parzialmente avverso la decisione del gravame, è ad avviso del Collegio inammissibile per l’inidoneità del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis, trattandosi di impugnazione avverso una sentenza pubblicata dopo il 2 marzo 2006, data dalla quale si applicano le modifiche al processo di cassazione introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006 e in vigore fino al 4 luglio 2009 (L. n. 69 del 2009, art. 47, comma 1, lett. d e art. 58, comma 5; ex multis, Cass. 7119/2010; Cass. 20323/2010).

7. Con orientamento consolidato questa Corte di legittimità, anche per le censure previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ha affermato l’onere di indicare chiaramente il fatto controverso ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dal citato art. 366 bis c.p.c., onere da adempiere non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma formulando, al termine di esso, un’indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (in argomento, ex multis, Cass. 27680/2009, 11094/2009, 8897/2008; SU 20603/2007).

8. Il ricorso è, nella specie, totalmente privo di tale indicazione giacchè il quesito formulato a corredo del motivo, peraltro incentrato sulla violazione dei canoni interpretativi della volontà contrattuale collettiva e non sul fatto decisivo controverso in coerenza con il vizio di motivazione denunciato, non pone la Corte in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia il vizio logico della motivazione, nè tale carenza può essere integrata dal contenuto della doglianza.

9. Inoltre, contrariamente a quanto richiesto dall’intimato, non ricorrono le condizioni per l’irrogazione, a carico del soccombente, della pena pecuniaria per ricorso temerario, di cui all’art. 385 c.p.c., comma 4, introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 13, abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 20, ma applicabile alla specie, ratione temporis, ai sensi del comma 1, dell’art. 58 della stessa legge.

10. Come questa Corte ha già statuito ex multis, Cass., SU., 27217/2009 ed alter conformi), affinchè sussistano le condizioni per l’applicazione dell’art. 385 c.p.c., comma 4, occorre la dimostrazione, eventualmente anche in via indiziaria, che la parte soccombente abbia agito, se non con dolo, con colpa grave, con tale formula intendendosi la condotta consapevolmente contraria alle regole generali di correttezza e buona fede tale da risolversi in un uso strumentale ed illecito del processo, in violazione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate dalla parte soccombente, ma è necessaria la sussistenza – nel caso nè rilevata, nè evidenziata – se non del dolo, quantomeno della colpa grave che ha caratterizzato il ricorso alla tutela giurisdizionale, ovverosia che emergano (eventualmente in via indiziaria) elementi tali da far ritenere che la condotta della parte soccombente è stata, consapevolmente, contraria alle regole generali di correttezza e buona fede, in relazione al predetto dovere inderogabile di solidarietà e, quindi illecita, essendosi, tale attività risolta in un abuso del processo, al di fuori del suo schema tipico o al di là dei limiti determinati dalla sua funzione, con conseguente lesione dei diritti della parte risultata vincitrice.

11. Nella specie la condotta processuale della parte non integra gli estremi di un abuso del processo o di un esercizio del diritto in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, in violazione del principio di lealtà processuale previsto dall’art. 88 c.p.c., e del giusto e sollecito processo, stabilito dall’art. 111 Cost. e, dunque, non legittima, di per sè, l’applicazione della pena pecuniaria prevista per l’abuso del processo, perchè dal testo del ricorso non risultano elementi tali da evidenziare che quella negligenza sia accompagnata dalla piena cognizione della parte che ha proposto l’impugnazione circa la manifesta infondatezza o pretestuosità del motivo portato a sostegno di essa, ovvero da un grado di imprudenza, imperizia e negligenza palesemente fuori dai canoni normali.

12. In definitiva va dichiarata l’inammissibilità del ricorso; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquidate in Euro 40,00 (quaranta) per esborsi, Euro 3.000,00 (tremila) per onorari, spese generali I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2012
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