Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 21-10-2011) 14-12-2011, n. 46490

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il Tribunale di Trento ha respinto la richiesta di riesame proposta da R.M. avverso il provvedimento del Gip dello stesso Tribunale con cui è stata rigettata l’istanza di dissequestro di 5600 Euro.

2. Ricorre per cassazione l’interessata deducendo che il provvedimento impugnato si fonda sull’erroneo presupposto che il D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies si applichi non soltanto all’indagato ma anche a persone estranee al reato. Al contrario la normativa si riferisce esclusivamente all’autore di uno dei reati previsti. Nel caso di specie la pubblica accusa non è stata in grado di fornire tale preliminare prova giacchè i Carabinieri che eseguirono la perquisizione sequestrarono indistintamente sia beni dell’indagato che della convivente, senza curarsi di riportare nel verbale di perquisizione e sequestro gli specifici elementi necessari per comprendere a chi appartenessero le singole cose. Tale errato modo di procedere non può risolversi però negativamente nei confronti della ricorrente. La pubblica accusa neppure ha in alcun modo di dimostrato che la donna detenesse il danaro quale prestanome dell’indagato.

In ogni caso la ricorrente sarebbe ancora nella condizione di dimostrare la connessione tra il danaro e l’esercizio della prostituzione. Nè si comprende se l’ordinanza esiga un onere di allegazione ovvero la prova positiva dell’appartenenza del denaro.

Tale ultimo adempimento sarebbe materialmente impossibile trattandosi di bene fungibile privo di segni che ne identifichino il proprietario.

3. Il ricorso è manifestamente infondato. L’ordinanza impugnata espone che il procedimento riguarda il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, che esso è a carico del convivente della donna;

che il sequestro stesso opera in relazione al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies; che il rinvenimento ha avuto luogo nell’abitazione comune in un comodino della camera da letto; che la donna non ha nell’immediatezza rivendicato la proprietà del bene; che la rivendicazione della somma rinvenuta quale provento dell’attività di meretricio postuma è priva di qualsiasi supporto oggettivo; che la disciplina in questione opera anche con riferimento al coniuge convivente e non indagato ove non risulti la provenienza; che la somma di danaro è sproporzionata rispetto alla condizione degli interessati; che a nulla rileva la restituzione del cellulare alla donna, giacchè si tratta di bene caratterizzato, a differenza del danaro.

Si tratta, con tutta evidenza, di compiuta argomentazione in fatto, basata su plurime e significative acquisizioni probatorie, conforme ai principi, immune da vizi logico-giuridici e non sindacabile, quindi, nella presente sede. La ricorrente si limita a prospettare impropriamente e genericamente, nel giudizio di legittimità, argomenti fattuali peraltro sprovviste di oggettivo supporto probatorio.

Ne discende che il gravame è inammissibile per la sua manifesta infondatezza. Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma di Euro 1.000 a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 1.000.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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