Cassazione, sez. V, 18 aprile 2011, n. 15515 Falso nell’autenticazione delle liste elettorali, non è innocuo se l’autenticazione della firma viene fatta in un secondo momento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto e diritto

Propongono ricorso per cassazione P.P. e V.F. avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze in data 19 ottobre 2009 con la quale è stata confermata quella di primo grado (del 2007), affermativa della loro responsabilità in ordine al reato di falsità ideologica in atto pubblico. La condotta in contestazione era quella di avere concorso nella falsa attestazione-materialmente eseguita dal primo, quale consigliere comunale autorizzato alla autentica delle firme per la presentazione delle liste elettorali alle competizioni del 2001 – che le firme di sette elettori erano state apposte in presenza del P. stesso.

La Corte territoriale riteneva provato il falso essenzialmente sulla base delle dichiarazioni dei detti elettori i quali avevano affermato di avere apposto le proprie sottoscrizioni sull’elenco sottoposto loro dalla V., fornendo anche i rispettivi documenti di identità, ma senza che fosse presente il P..

Deducono:

1) il vizio di motivazione.

La Corte aveva dato atto che false non erano le firme ma solo la relativa modalità di autentica, peraltro invece risultata del tutto corretta con riferimento a tredici delle venti firme che formavano l’elenco sul quale erano state apposte anche quelle con la autentica in contestazione. Già una simile notazione dava la misura della illogicità della conclusione della Corte secondo cui la V. avrebbe, per le sole sette firme in discussione, proceduto in modo del tutto anomalo, raccogliendole in luogo diverso da quello ove poi, incontrandosi con P., queste erano state autenticate.

In base alla suddetta premessa, poi, non poteva non qualificarsi come "travisamento della prova" il fatto che la Corte avesse dato per probanti le dichiarazioni dei testi invece connotate da un tenore assolutamente dubbio. La difesa riporta i singolo brani delle dichiarazioni dei testi per evidenziare come questi abbiano espresso forti dubbi sulla esattezza dei propri ricordi. Le testimonianze cioè avevano fatto emergere che tutte le sottoscrizioni dell’elenco furono raccolte in un unico contesto spazio-temporale e che non vi era la prova che il P. non fosse presente.

2) la violazione di legge (art. 49 c.p., comma 2 e art. 479 c.p. nonché L. n. 61 del 2004, art. 1) Era stata trattata in maniera apparente e quindi inesistente la questione, sollevata nei motivi di appello, relativa alla c.d. innocuità del falso. La Corte territoriale, in particolare, aveva negato la configurazione di tale fattispecie rilevando che il danno concreto prodotto dalla condotta degli imputati era dato dalla alterazione di alcuni passaggi del procedimento elettorale. E che tale conclusione era doverosa alla luce della sentenza della Corte costituzionale che, adita proprio dal giudice del processo in esame, aveva, con sentenza n. 394 del 2006, affermato la illegittimità della norma che, in materia, aveva ritagliato un illecito meramente contravvenzionale. Ebbene, prosegue il difensore, tale sentenza non impedisce al giudice del caso singolo la valutazione sulla configurabilità in concreto della offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma in contestazione. La Corte, in altri termini, aveva abdicato al compito di valutare il superamento della soglia di non punibilità, compito al quale la obbligavano i principi elaborati in materia anche dalla giurisprudenza costituzionale (sent. n. 62 del 1986), oltre che fatti propri dal precedenti decisioni della stessa cassazione in materia anche di falso.

Nella specie tale soglia non poteva dirsi superata dal momento che false non erano le sottoscrizioni degli elettori ma solo la modalità di autentica delle firme ed il reato di falso sottintende la causazione di un danno pubblico o privato;

3) violazione di legge (art. 479 c.p. e L. n. 15 del 1968, art. 20, comma 2).

La falsità era stata contestata e ritenuta in relazione all’avere eseguito una autenticazione attestando, di essere stato presente alla apposizione delle firme.

Ma una simile modalità non ha alcuna copertura legislativa posto che la L. n. 15 del 1968, art. 20, comma 2 che la prevedeva è stata abrogata dalla L. n. 445 del 2000.

I ricorsi sono infondati e devono essere rigettati.

Il primo motivo è inammissibile in quanto con esso vengono dedotte ragioni diverse da quelle che possono essere sottoposte al giudice della legittimità.

Le parti ricorrenti si appellano al vizio del travisamento della prova senza però tenere conto che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la possibilità di dedurre il vizio di motivazione per travisamento della prova è limitata all’ipotesi in cui il giudice del merito abbia fondato il suo convincimento su di una prova inesistente ovvero su di un risultato probatorio incontestabilmente diverso da quello reale, con la conseguenza che, qualora la prova che si assume travisata provenga dall’escussione di una fonte dichiarativa, l’oggetto della stessa deve essere del tutto definito o attenere alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile (Rv. 239533).

Si è anche osservato che la nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del "testo del provvedimento impugnato" anche di "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all’intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Rv. 233775; conf. Rv. 237652).

Tutto quanto premesso rende evidente che, nel caso di specie, si usa la formula del vizio per travisamento della prova ma, nella sostanza, si sollecita – inammissibilmente – la cassazione a compiere una propria ricostruzione dei risultati di prova, autonoma rispetto a quella effettuata dal giudice del merito con motivazione del tutto congrua ed esaustiva.

Invero le argomentazioni offerte dalla Corte di Firenze non sono né frutto di un travisamento nei sensi sopra specificati né espressione di manifesta illogicità.

La Corte ha infatti dato atto che l’accertamento della falsità delle autentiche ha riguardato un numero limitato delle sottoscrizioni contenute in un più ampio elenco e l’affermazione non reca in sè alcun dato di illogicità, ben potendosi essere realizzate diverse modalità di autentica in relazione alle diverse modalità di acquisizione delle singole firme.

Le affermazioni dei testi, d’altra parte, sono state riportate con la evidenziazione delle locuzioni che, secondo la valutazione operata dal giudice del merito, hanno formato la prova della commissione del reato in contestazione.

Il fatto che la parte riporti diversi passaggi delle stesse dichiarazioni contenenti espressioni più sfumate o dubitative non vale, di per sé a costituire dimostrazione della valutazione errata o il logica posto che, come sopra affermato, la prova dichiarativa ben può constare di passaggi diversi ed anche talvolta, contraddittori, essendo compito esclusivo della sede del merito, quello di valutare le dette eventuali oscillazioni e giungere motivatamente ad una selezione utile della parte ritenuta probante.

In ordine a tale compito – e salva la denuncia di falsa interpretazione che, però, nella specie non è stata effettuata- la Cassazione ha un sindacato limitato, che non si esercita valutando nuovamente la dichiarazione testimoniale: il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve infatti stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (rv 215745).

Nella specie il giudice del merito ha sottolineato i passaggi reputati salienti delle dichiarazioni dei testi i quali hanno affermato di avere apposto le proprie sottoscrizioni in assenza del P. o comunque in situazioni nelle quali, per ragioni logicamente espresse dalla Corte di merito, il P. doveva ritenersi non presente.

Il secondo motivo è infondato.

Costituisce falso innocuo per la giurisprudenza di questa Corte quello che determina un alterazione irrilevante ai fini dell’interpretazione dell’atto, non modificandone il senso (Rv. 241936).

Si è anche affermato che la falsità non è punibile solo quando si riveli in concreto inidonea a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità del documento, vale a dire quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico ed appaia del tutto irrilevante ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio (Rv 195778).

Nella specifica materia che ci occupa è stata la stessa Corte costituzionale, nella sentenza sopra citata, ad affermare – come giustamente sottolineato anche nella sentenza impugnata – la particolare rilevanza del bene giuridico tutelato dalla fattispecie astratta: "sotto il profilo della lesività del bene "strumentale- intermedio" della fede pubblica, viene in considerazione la valenza probatoria – o, per guardare il fenomeno da altra angolazione, il livello di affidamento – che l’ordinamento ripone nell’autenticazione delle sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati, e che non differisce, sotto alcun profilo, da quello proprio di qualsiasi altra autenticazione di firme".

Prosegue la stessa Corte costituzionale rilevando che il bene finale tutelato dal reato de quo è di rango particolarmente elevato, anche sul piano della rilevanza costituzionale, in quanto intimamente connesso al principio democratico della rappresentatività popolare:

trattandosi di assicurare il regolare svolgimento delle operazioni elettorali ed il libero ed efficace esercizio del diritto di voto.

In effetti, proprio la considerazione della particolare pregnanza di tale bene giustifica l’emersione dei reati elettorali come segmento autonomo dell’ordinamento penale. Si tratta di una argomentazione che rende assolutamente evidente come la integrazione della condotta di rilevanza penale in esame rechi un vulnus all’affidamento che deriva per la pubblica fede, dalla speciale procedura di autenticazione ad opera del pubblico ufficiale sicché resta quantomeno inespresso da parte della difesa ricorrente, sotto quale profilo la effettiva riconducibilità della firma all’apparente sottoscrittore possa valere a escludere la offensività della condotta del pubblico ufficiale in violazione della procedura di formale autenticazione che gli compete.

Infine infondato è l’ultimo motivo di ricorso.

E’ appena il caso di ricordare che la norma in contestazione e cioè l’art. 479 c.p. punisce il pubblico ufficiale che formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesti falsamente che un fatto è stato compiuto o è avvenuto in sua presenza.

Non si tratta quindi, nella specie, di stabilire quale sia la incidenza, nella fattispecie in esame, della abrogazione della L. n. 15 del 1968, art. 20 che regolava la modalità di autenticazione delle sottoscrizioni ad opera del pubblico ufficiale, non senza peraltro notare che comunque la doverosa presenza del pubblico ufficiale al momento della sottoscrizione da parte del dichiarante è rifluita nel D.P.R. n. 445 del 2000, art. 21, comma 2, legge che ha provveduto all’abrogazione di quella del 1968 nell’ottica di disporre il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa.

Ciò che rileva è che la condotta accertata in capo al pubblico ufficiale e , in concorso con esso, in capo anche alla coimputata, è consistita nella falsa attestazione, da parte del primo, nell’esercizio delle proprie funzioni, di una attività da esso compiuta, attività che, come detto, il materiale probatorio ha dimostrato non essere stata posta in esecuzione.

La copertura legislativa alla condotta in discussione non può essere ricercata se non nell’art. 479 c.p..

E’ utile in materia ricordare come la giurisprudenza di questa Corte abbia anche sottolineato – sul diverso tema della sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio che non deve più essere autenticata dal pubblico ufficiale a seguito della abrogazione delle disposizioni contenute nella L. 4 gennaio 1968, n. 15 (attuata in via generale, da ultimo, dal D.Lgs. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 77) – come tale abrogazione non comporti neppure nel caso appena indicato (in cui essa opera specificamente ed a maggior ragione quindi nel caso qui in esame, in cui l’abrogazione opera solo formalmente) l’irrilevanza penale del falso eventualmente compiuto mediante l’autenticazione, che non può definirsi "inutile o "innocuo" attesa la peculiare valenza probatoria dell’atto così formato, anche ed eventualmente a fini diversi da quello per il quale il documento è stato predisposto. In motivazione la Corte ha anche chiarito come il falso sia irrilevante solo quando non accresce in alcun modo la valenza probatoria dell’atto (Sez. 6, Sentenza n. 6885 del 10/01/2002 Ud. (dep. 20/02/2002) Rv. 222246; conforme Sez. 5, Sentenza n. 24872 del 31/01/2005 Ud. (dep. 06/07/2005) Rv. 231852).

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, ciascuno, al pagamento delle spese del procedimento.

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