Cass. civ. Sez. I, Sent., 06-07-2012, n. 11407

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Svolgimento del processo

1. – Ca.Gi. convenne in giudizio il Comune di Savona, chiedendo l’accertamento dell’avvenuto acquisto per usucapione di un fondo sito in Savona, alla località (OMISSIS), e riportato in Catasto al foglio 67/a, particelle 708 e 216, da lui posseduto a far data dal 1942 e comunque per oltre venti anni.

Si costituì il Comune, ed eccepì che il fondo, incluso nel piano per l’edilizia economica e popolare approvato con Delib. 19 dicembre 1966 e Delib. 22 gennaio 1969, gli era stato ceduto dai proprietari con atti del 27 marzo 1974 e del 6 settembre 1975, ed era pertanto entrato a far parte del suo patrimonio indisponibile, con la conseguente esclusione della configurabilità dell’acquisto per usucapione.

1.1. – Con sentenza del 21 gennaio 2004, il Tribunale di Savona accolse la domanda, rilevando che il termine per l’usucapione era maturato in epoca anteriore all’acquisto dell’immobile da parte del Comune.

2. – L’impugnazione da quest’ultimo proposta nei confronti di C.G., in qualità di erede di Ca.Gi., nel frattempo deceduto, è stata accolta dalla Corte d’Appello di Genova, che con sentenza del 24 ottobre 2009 ha rigettato la domanda.

Premesso che la cessione volontaria si configura come negozio di diritto pubblico dotato della funzione, propria del decreto di espropriazione, di segnare l’acquisto a titolo originario in favore della Pubblica Amministrazione della proprietà del bene compreso nel piano di esecuzione dell’opera pubblica, la Corte ha ritenuto applicabile la L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 14, secondo cui, una volta pronunciata l’espropriazione, i diritti dei terzi possono essere fatti valere esclusivamente sull’indennità, ed ha pertanto concluso per l’irrilevanza dell’allegazione da parte dell’attore del possesso ultraventennale anteriore all’espropriazione, in quanto, anche a voler ammetterne l’opponibilità all’espropriante, il diritto vantato avrebbe dovuto essere accertato e trascritto anteriormente all’espropriazione.

3. – Avverso la predetta sentenza ricorrono per cassazione sia il Comune che il C., il primo per un solo motivo ed il secondo per due motivi, ai quali ciascuna delle parti resiste con controricorso, il C. proponendo ricorso incidentale, nel quale ribadisce i motivi del ricorso principale, ed il Comune proponendo ricorso incidentale condizionato, affidato ad un solo motivo, al quale il C. resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione

1. – Preliminarmente, va disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., trattandosi di impugnazioni proposte separatamente, ma aventi ad oggetto la medesima sentenza.

2. – E’ poi infondata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso principale e del ricorso incidentale proposti dal C., sollevata dalla difesa del Comune in riferimento all’art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, per difetto di autosufficienza dell’impugnazione, in quanto non accompagnata dalla trascrizione dell’atto di citazione: la narrazione dello svolgimento del giudizio di primo grado, contenuta nella premessa del ricorso e del controricorso, appare infatti sufficiente, pur nella sua stringatezza, a consentire l’individuazione della domanda proposta dal ricorrente, il cui oggetto ed il cui titolo risultano ulteriormente chiariti dalla trascrizione integrale dell’atto di appello.

Ai fini dell’esposizione sommaria degli atti di causa, prescritta a pena d’inammissibilità del ricorso per cassazione, non si richiede d’altronde che la parte riporti più o meno pedissequamente il contenuto di tutti gli atti processuali, essendo sufficiente che dal contesto dell’impugnazione si evincano gli elementi indispensabili ai fini di una chiara e completa percezione dell’oggetto del ricorso, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, in modo da consentire la comprensione delle censure sollevate in sede di legittimità senza necessità di fare ricorso ad altre fonti o atti del processo (cfh Cass., Sez. Un., 18 maggio 2006, n. 11653;

Cass., Sez. 3^, 24 luglio 2007, n. 16315; Cass., Sez. 2^, 4 aprile 2006, n. 7825).

3. – Con il primo motivo di entrambi i ricorsi, il C. deduce la violazione della L. n. 865 del 1971, art. 14, della L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 13 e dell’art. 1158 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ricollegato alla cessione volontaria gli effetti previsti dall’art. 14 cit., senza considerare che nel trasferimento in questione il Comune aveva assunto la medesima veste di un privato, in quanto l’avvenuta cessazione del piano per l’edilizia economica e popolare fin dal 1986 aveva fatto venir meno l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, con la conseguente opponibilità dell’acquisto per usucapione, perfezionatosi anteriormente alla cessione volontaria. Aggiunge che l’intervenuta espropriazione non ha fatto venir meno il possesso utile all’usucapione, avendo l’espropriante acquistato soltanto lo jus possidenti, e non anche lo us possessionis, il quale è rimasto in capo all’effettivo possessore, che ha continuato ad esercitare le facoltà del proprietario.

3.1. – Il motivo è infondato.

E’ infatti pacifico che il fondo che costituisce oggetto della domanda proposta dal dante causa del ricorrente, inserito nel piano per l’edilizia economica e popolare approvato con delibere del 19 dicembre 1966 e del 22 gennaio 1969, rii oggetto di cessione da parte dei proprietari in favore del Comune con atti del 27 marzo 1974 e del 6 settembre 1975.

Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha richiamato il principio enunciato da questa Corte in riferimento a fattispecie analoghe, secondo cui, nell’ipotesi di cessione volontaria del bene assoggettato alla procedura espropriativa, trova applicazione la L. n. 865 del 1971, art. 14, in virtù del quale, pronunciata l’espropriazione e trascritto il relativo provvedimento, tutti i diritti relativi agli immobili espropriati possono essere fatti valere esclusivamente sull’indennità, con la conseguenza che il terzo che affermi di essere proprietario di tutto o parte del bene già trasferito all’espropriante non può proporre azione di rivendicazione nei confronti di quest’ultimo, ma deve far valere il proprio diritto nei confronti dell’espropriato, sull’indennità di espropriazione. L’applicabilità della predetta disposizione trova giustificazione nella natura della cessione volontaria, che, in quanto disciplinata da disposizioni di carattere inderogabile e tassativo, si configura come negozio di diritto pubblico, dotato della funzione, comune al decreto di espropriazione, di segnare l’acquisto a titolo originario in favore della Pubblica Amministrazione del bene compreso nel piano d’esecuzione dell’opera pubblica. Irrilevante, a tal fine, è la circostanza che, successivamente all’acquisto del bene da parte dell’espropriante, sia divenuta inefficace la dichiarazione di pubblica utilità, in quanto a tale sopravvenuta inefficacia non consegue l’automatica espansione del diritto di proprietà compresso in ragione della procedura espropriativa, ma solo l’insorgenza, in capo all’espropriato, del diritto soggettivo alla retrocessione, regolato dalla L. n. 2359 del 1865, artt. 13 e 63 (cfr. Cass., Sez. 2^, 24 giugno 2008, n. 17172;

Cass., Sez. 1^, 2 marzo 1999, n. 1730).

L’applicabilità di tale principio non è esclusa, nella specie, dalla circostanza che la domanda proposta dall’attore non abbia ad oggetto la rivendicazione del fondo espropriato, ma la declaratoria dell’avvenuto acquisto per usucapione, presupponendo entrambe le domande l’accertamento della proprietà, in ordine al quale occorre tener conto della peculiare efficacia della cessione volontaria, che, al pari del decreto di espropriazione, comporta l’estinzione di tutti i diritti reali e personali incidenti sull’immobile espropriato, consentendo di farli valere esclusivamente sull’indennità di espropriazione. Significativa, in proposito, appare la formulazione della L. n. 2359 del 1865, art. 52, il quale, con maggior chiarezza della L. n. 865 del 1971, art. 14, dispone che le azioni di rivendicazione, di usufrutto, di ipoteca, di diritto dominio, e tutte le altre azioni esperibili sui fondi soggetti ad espropriazione, non possono interrompere il corso di essa, nè impedirne gli effetti, aggiungendo che, una volta pronunciata l’espropriazione, tutti i diritti anzidetti si possono far valere non più sul fondo espropriato, ma sull’indennità che lo rappresenta. La ratio di tali disposizioni consiste nel contemperare l’interesse della Pubblica Amministrazione a conseguire la proprietà del bene libera da pesi e da vincoli, che possano impedirne o ritardarne la destinazione alle finalità pubbliche cui è preordinata l’espropriazione, con quello dei soggetti che risultino o si affermino titolari di diritti reali o personali sul bene, evitando che le controversie promosse da questi ultimi possano ostacolare lo svolgimento della procedura ablatoria o avere come conseguenza la successiva rimozione dei suoi effetti.

Nella medesima ottica, d’altronde, la L. n. 865, art. 10, e segg., prevedono che la procedura ablatoria si svolga nei confronti degli intestatari catastali, in tal modo dispensando l’Amministrazione da specifiche indagini in ordine alla titolarità dei diritti sui beni espropriati (cfr. Cass., Sez. 1^, 24 febbraio 2011, n. 4580; 15 novembre 2004, n. 21622), i cui proprietari, ai sensi dell’art. 13, u.c., possono ottenere la sospensione del procedimento soltanto nell’ipotesi in cui l’individuazione dell’intestatario sia frutto di errore grave ed evidente, dovendo in ogni altro caso far valere i loro diritti sull’indennità. Non è pertanto sufficiente ad inficiare le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata la precisazione del ricorrente, secondo cui l’usucapione sarebbe maturata in epoca anteriore alla stipulazione degli atti di cessione volontaria, trattandosi di una circostanza di per sè inidonea ad escludere gl’indicati effetti della cessione.

La produzione di tali effetti non può essere esclusa neppure alla luce dell’affermato venir meno della dichiarazione di pubblica utilità, conseguente alla scadenza del termine di efficacia del piano per l’edilizia economica e popolare, essendo pacifico che tale scadenza si è verificata in data successiva alla stipulazione degli atti di cessione, posti dunque in essere in un’epoca in cui l’azione amministrativa era ancora riconducibile al legittimo esercizio di una potestà pubblica. Quanto poi all’eventualità che nel predetto termine non si sia provveduto all’esecuzione delle opere comprese nel piano, essa non comporterebbe, come si è detto, la rimozione degli effetti della cessione, ma potrebbe soltanto legittimare, ai sensi della L. n. 2359 del 1865, art. 63, una domanda di retrocessione del fondo ceduto, che nella specie non risulta sia stata preposta.

4. – La mancata proposizione di tale domanda, escludendo nella specie l’operatività dell’effetto preclusivo derivante dall’impossibilità di ottenere l’accertamento della proprietà del fondo espropriato, ai fini della pronuncia di retrocessione, fa apparire irrilevante la questione di legittimità costituzionale della L. n. 865 del 1971, art. 14, sollevata dal C. in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 Cost., comportando pertanto l’infondatezza anche del secondo motivo di entrambi i ricorsi, con cui il ricorrente lamenta la disparità di trattamento che la predetta disposizione determina nei confronti dei proprietari degli altri fondi inclusi nel piano per l’edilizia economica e popolare, i quali, a seguito della cessazione dell’efficacia del piano, hanno ottenuto la retrocessione dei loro immobili.

5. – Il rigetto del ricorso principale determina l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato del Comune, con cui quest’ultimo ha riproposto il secondo ed il terzo motivo di appello, non esaminati dalla Corte territoriale in quanto ritenuti assorbiti dall’accoglimento del primo motivo d’impugnazione.

6. – E’ invece fondato l’unico motivo del ricorso principale proposto dal Comune, con cui lo stesso denuncia la nullità della sentenza impugnata e del procedimento, per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., osservando che la Corte d’Appello, pur avendo rigettato la domanda proposta dall’attore, non ha adottato alcuna pronuncia in ordine alla domanda, proposta da esso ricorrente, di condanna del C. alla liberazione degl’immobili ed alla restituzione degli stessi in favore dell’Amministrazione.

6.1. – La difesa di quest’ultima ha infatti provveduto a trascrivere nel ricorso le conclusioni della comparsa di costituzione depositata in primo grado, specificamente ribadite all’udienza di precisazione delle conclusioni e nell’atto di appello, nonchè riportate nella premessa della sentenza impugnata, dalle quali si evince l’espressa proposizione della predetta domanda, mai abbandonata nel corso del giudizio, in ordine alla quale la Corte d’Appello ha omesso qualsiasi pronuncia.

7. – La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti del motivo accolto, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2, con la conseguente condanna del C. al rilascio in favore del Comune del fondo da lui illegittimamente occupato.

8. – Le spese dei tre gradi di giudizio seguono la soccombenza, e si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e quello incidentale di C.G., accoglie il ricorso principale del Comune di Savona, cassa la sentenza impugnata, in relazione al ricorso accolto, e, decidendo nel merito, condanna C. G. al rilascio in favore del Comune di Savona del fondo sito in Savona, alla località (OMISSIS), e riportato in Catasto al foglio 67/a, particelle 708 e 216; condanna C.G. al pagamento delle spese processuali, che si liquidano per il giudizio di primo grado in complessivi Euro 4.329,25, ivi compresi Euro 3.000,00 per onorario, Euro 1.200,00 per diritti ed Euro 129,25 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, per il giudizio di appello in complessivi Euro 9.499,00, ivi compresi Euro 8.000,00 per onorario, Euro 1.370,00 per diritti ed Euro 129,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, per il giudizio di appello, e per il giudizio di legittimità in complessivi Euro 4.200,00, ivi compresi Euro 4.000.00 per onorario ed Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 28 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2012

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