Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 12-10-2011) 14-12-2011, n. 46320 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

In parziale riforma della decisione del primo Giudice, la Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza 22 novembre 2010, ha ritenuto M.M. responsabile dei reati previsti dagli art. 81 cpv, artt. 582-585, 609 bis u.c., artt. 610, 612, 612 bis cod. pen. e lo ha condannato alla pena di giustizia.

Per giungere a tale conclusione, la Corte ha ribadito il globale giudizio di attendibilità del racconto accusatorio della parte lesa N.F. per la sua spontaneità, coerenza ed assenza di qualsivoglia contraddizione o intendo calunniatorio.

Ciò posto, i Giudici hanno concluso che il disagio causatole dalla tormentata relazione sentimentale con l’imputato per le plurime vessazioni subite (confermate dalla di lei madre e dai certificati medici) avevano provocato nella parte lesa un ponderato timore per la sua incolumità sì da costringerla a cambiare le abitudini di vita;

pertanto, era configurabile la fattispecie di reato prevista dall’art. 612 bis cod. pen..

Relativamente all’episodio di violenza sessuale, i Giudici hanno ripercorso i fatti riferiti dalla parte lesa rilevando che si presentavano logici e coerenti e non in contraddizione con le asserzioni dei testi; hanno ritenuto accertato che l’imputato avesse costretto la N. a seguirlo sull’autovettura con l’aiuto di amici (che hanno negato la circostanza e sono stati reputati inattendibili). A corroborare le dichiarazioni della donna, si poneva un certificato medico attestanti lesioni che comprovavano quanto da lei riferito;

irrilevante è stata considerata la circostanza che la ragazza non si fosse sottoposta a visita ginecologica.

Il comportamento della N. che, dopo l’abuso sessuale aveva continuato a frequentare l’appellante ed ha rimesso la querela, è stato spiegato dai Giudici come conseguenza delle minacce subite dal M..

Per l’annullamento della sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo difetto di motivazione.

In sunto, lamenta che la Corte di Appello si sia limitata a riproporre la motivazione della sentenza di primo grado, ritenendola corretta e condivisibile, senza rispondere alle articolate censure della impugnazione in punto di fatto e di diritto. Rileva che i Giudici hanno emanato una decisione che è meramente assertiva delle premesse e conclusioni formulate dal Tribunale, in tale modo, eludendo la funzione del doppio grado di giurisdizione.

Osserva che immotivatamente la Corte ha ritenuto irrilevanti le osservazioni dell’appellante circa la inverosimiglianza del racconto della donna, in relazione alla violenza sessuale, e le discresie e contraddizioni tra le varie testimonianze. Conclude evidenziando la violazione dei criteri per la valutazione della attendibilità della parte lesa, portatrice di un interesse opposto a quello dell’imputato, il cui racconto non è stato lineare logico e privo di intenti calunniatori.

La difesa dell’imputato, nei motivi di ricorso, menziona – e puntualmente – la giurisprudenza di legittimità in tema di valutazione delle dichiarazioni della persona offesa in materia di reati sessuali, che devono essere sottoposte ad un esame critico rigoroso, e sottolinea la necessità che i motivi di impugnazione debbano essere tenuti presenti dai Giudici dello appello per rendere effettivo il sindacato in esito al doppio grado di giurisdizione nel merito.

Ciò che, a parere della Corte, non è condivisibile sono le conclusioni che il ricorrente trae da menzionati principi in relazione ad un deficit argomentativo della sentenza in esame.

Tutti i motivi di impugnazione sono stati presi nella dovuta considerazione dalla Corte territoriale e disattesi con itinerario argomentativo congnio , completo, immune da vizi logici che non può essere messo in discussione in questa sede.

I Giudici si sono dati carico di valutare lo snodarsi del racconto accusatorio della parte lesa (in particolare per quanto concerne il reato sessuale sul quale si incentravano le più aspre critiche dell’imputato) e di evidenziare le ragioni per le quali era affidabile ed attendibile e per le quali le censure difensive non minavano la globale attendibilità della dichiarante. La Corte ha messo a fuoco come non sussistessero solo le voci discordi dei protagonisti della vicenda, ma riscontri oggettivi costituiti dai certificati medici, che confermano le accuse della donna e ne siglavano la credibilità.

In tale contesto, il ricorrente sottopone al vaglio di legittimità le critiche già esaminate dalla Corte territoriale e che hanno trovato nella impugnata sentenza esaustiva confutazione; di questo apparato motivazionale, l’imputato non tiene conto nella redazione delle sue censure che, sotto tale profilo, sono prive della necessaria concretezza perchè non in sintonia con le ragioni argomentative della impugnata sentenza.

Inoltre, il ricorrente chiede sostanzialmente a questa Corte una rinnovata ponderazione del coacervo probatorio- alternativa a quella correttamente operata dalla Corte di Appello- ed introduce problematiche che esulano dai limiti cognitivi del giudizio di legittimità anche dopo la novazione legislativa dell’art. 606 cod. pen., comma 1, lett. e), avvenuta con la L. n. 46 del 2006, art. 8.

La norma permette una indagine extratestuale oltre il limite del provvedimento impugnato, ma non ha alterato la funzione tipica della Cassazione per la quale rimane fermo – in presenza di una motivazione non carente o manifestamente illogica – di una diversa valutazione delle emergenze processuali.

Per invocare il nuovo vizio motivazionale occorre che le prove, che il ricorrente reputa trascurate o male interpretate, abbiano una pregnanza tale da disarticolare l’intero ragionamento dei Giudici sì da renderne illogica o contraddittoria le conclusione.

A tale risultato non conducono le censure dell’imputato.

Per le esposte considerazioni, la Corte dichiara inammissibile il ricorso con condanna del proponente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma – che reputa congruo fissare in Euro mille- alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro mille alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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