Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 23-09-2011) 14-12-2011, n. 46533

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 5 giugno 2009, la Corte di appello di Perugia confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Orvieto, con la quale B.C. era stato dichiarato responsabile del reato di calunnia e condannato alla pena ritenuta di giustizia.

All’imputato era stato addebitato di aver falsamente incolpato S. C.M. di aver realizzato una piantagione di canapa indiana all’interno di una serra.

Esponevano in fatto i giudici del merito che l’imputato si era rivolto in due occasioni ai Carabinieri di Città della Pieve per informarli, con particolare allarmismo, di aver notato in una serra nella disponibilità della S. la presenza di numerose piante di canapa indiana, "alte oltre un metro-un metro e mezzo" (dallo stesso definite come "roba grossa, che sarebbe finita sul giornale").

Gli accertamenti effettuati nella notte dai militari avevano portato a rinvenire solo due piccolissime piantine di canapa, collocate in luogo frequentato e ben visibile.

Il B., invitato a recarsi con i Carabinieri presso la serra per indicare il luogo dove aveva notato le piante, si era subito portato verso le due piantine. La S. si era mostrata meravigliata del rinvenimento, dichiarandosi all’oscuro delle piantine ed ipotizzando che fossero state lì posizionate dallo stesso B., a causa dei rapporti conflittuali esistenti tra i due, dovuti alla presenza delle serre in un terreno che il B. intendeva invece adibire a pascolo.

La Corte di appello preliminarmente riteneva che il reato, commesso il 13 giugno 1998, non fosse estinto per intervenuta prescrizione, dovendosi applicare la previgente disciplina (la sentenza di primo grado era stata pronunciata il 23 gennaio 2001), che prevedeva il temine massimo prescrizionale di quindici anni.

Nel merito, la Corte di appello rigettava i motivi di appello dell’imputato, con i quali aveva contestato la configurabilità del reato di calunnia e dedotto la mancanza di prova in ordine all’elemento soggettivo e materiale del reato.

2. Avverso la suddetta sentenza, propone ricorso per cassazione l’imputato, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:

– la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per vizio della motivazione, in quanto la circostanza che effettivamente furono trovate presso la S. due piante di canapa indiana doveva far ritenere che la denuncia dello B. non era infondata, sol perchè si trattava di piante in numero e in altezza diverse da quelle indicate. Tali differenze potrebbero ragionevolmente giustificarsi con un’alterazione dei luoghi ad opera della S. che, insospettita, poteva aver occultato gran parte delle piante. Nè appare logico al ricorrente il ragionamento giustificativo, secondo cui la presenza di sole due piante non poteva indurre il B. ai rivolgersi ai Carabinieri con insistenza invitandoli ad agire celermente in quanto la S. si era insospettita e stava "portando via tutto". Anche tale comportamento risulterebbe verosimilmente giustificabile con i rapporti litigiosi esistenti tra i due e con il conseguente interesse dell’imputato a che la donna non restasse impunita per condotte penalmente rilevanti. Risulterebbe illogico altresì il passaggio motivazionale nel quale si sostiene la consapevolezza della falsità del suo racconto, desumendola dalla perfetta conoscenza da parte del B. delle caratteristiche e del numero delle piante e che la fonte di reddito della S. non fosse la coltivazione di piante di canapa. Secondo il ricorrente, risulterebbe plausibile che, dopo aver visto le piante, il B. ne avesse memorizzato il ricordo; mentre non sarebbe in contrasto con quanto dichiarato ai Carabinieri (aver capito come la S. facesse a "tirare avanti") la conoscenza che la donna avesse fonte di reddito diverse.

– la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per la erronea interpretazione della legge penale e conseguente vizio di motivazione, in relazione all’art. 368 cod. pen. e all’art. 192 cod. proc. pen.. Il ricorrente deduce la mancanza del presupposto soggettivo dell’intenzionalità dell’incolpazione, in difetto di un atto di denuncia scritto proveniente dall’imputato, avendo quest’ultimo comunicato solo oralmente i fatti, senza alcuna formalizzazione da parte dell’autorità ricevente. Risulterebbe assolutamente insufficiente la motivazione circa la conoscenza da parte dell’imputato dell’innocenza della S..
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

2. Preliminarmente, deve osservarsi che non può essere accolta la istanza difensiva volta a far valere la prescrizione del reato.

I termini di prescrizione più brevi, introdotti dalla L. n. 251 del 2005, non si applicano infatti ai processi già pendenti in grado di appello alla entrata in vigore della nuova normativa. Pendenza che, come chiarito dalle Sezioni unite di questa Corte, ha inizio dopo la pronunzia della sentenza di condanna di primo grado (Sez. U, n. 47008 del 29/10/2009, D’Amato, Rv. 244810). Va poi rammentato che la Corte costituzionale ha ritenuto che la disciplina transitoria della L. n. 251 cit., nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, nei processi pendenti in appello, non si pone in contrasto con l’art. 7 della C.e.d.u., come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e quindi non viola l’art. 117 Cost., comma 1, (sentenza n. 236 del 2011).

Nel caso in esame, viene quindi in applicazione il previgente regime prescrizionale, essendo intervenuta la sentenza di primo grado prima dell’entrata in vigore della citata legge, con la conseguenza che non è ancora maturato il termine massimo di prescrizione.

2. Infondato è il primo motivo di ricorso.

Priva di pregio è infatti la censura con cui si vuoi escludere la falsità della denuncia, sol perchè era stato accertato un fatto penalmente rilevante di minore gravità.

Va ribadito che il reato di calunnia sussiste anche quando il fatto, oggetto della falsa incolpazione, sia diverso e più grave di quello effettivamente commesso dalla persona incolpata (Sez. 6, n. 35339 del 10/04/2008, Aloisi, Rv. 241398).

Nel caso in esame, il fatto denunciato dal B. ai Carabinieri – l’esistenza di una piantagione di canapa indiana – era all’evidenza diverso e più grave di quello effettivamente accertato dai Carabinieri – la coltivazione di due piantine non ancora giunte a maturazione. La condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è invero "inoffensiva" quando il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo e quindi, quando, come nel caso in esame, la sostanza ricavabile dalla coltivazione non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239921).

Le ulteriori doglianze del ricorrente quanto alla logicità della motivazione tendono in realtà a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto ed all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito e adeguatamente valutati, sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello, le cui decisioni si integrano fra di loro a formare un complesso sistema motivazionale, connotato da completezza di esposizione del risultato probatorio e di complessiva coerenza, che la Corte di cassazione non deve condividere o sindacare, potendo solo verificare se sia, come nel caso in esame, sorretto da validi elementi dimostrativi e non abbia trascurato elementi in astratto decisivi, sia compatibile con il senso comune e, data come valida la premessa in fatto, sia logico: insomma, se sia esauriente e plausibile.

Nel caso in esame, i Giudici di merito hanno tratto la prova della falsità della denuncia del B. dal mancato rinvenimento delle piante descritte da costui ai Carabinieri – e comunque di tracce di una pregressa coltivazione – e dal comportamento dell’imputato, che, dopo aver dichiarato di aver notato la piantagione mentre passeggiava a cavallo, una volta chiamato sul luogo dei fatti, non aveva esitato a dirigersi sulle due piccolissime piantine, dimostrando così di ben conoscere la diversa consistenza della "piantagione" addebitata alla S.. A tutto ciò doveva aggiungersi, secondo la Corte di appello, l’accertato rancore esistente tra l’imputato e la donna, in relazione alle pretese avanzate dal primo per l’utilizzo del terreno.

A questa ricostruzione il ricorrente nella sostanza prospetta una ricostruzione dei fatti diversa da quella accolta nella sentenza impugnata o, quanto meno, un’interpretazione alternativa dei medesimi, indugiando in una serie di considerazioni intrise di merito assolutamente incompatibili con il giudizio di legittimità. 3. Priva di pregio è la doglianza versata nel secondo motivo di ricorso.

Nel delitto di calunnia sono irrilevanti le modalità con cui l’autore del reato si rivolga all’autorità giudiziaria ovvero ad altra autorità avente l’obbligo di riferire alla prima. E’ principio già affermato da questa Corte che ai fini della configurabilità della calunnia non occorre una denuncia in senso formale, essendo sufficiente che taluno, rivolgendosi in qualsiasi forma – anche oralmente – alle suddette autorità, esponga fatti concretanti gli estremi di un reato, addebitandoli a carico di persona di cui conosce l’innocenza (Sez. 6, n. 44594 del 08/10/2008, De Barbieri, Rv.

241654).

La tesi del ricorrente, secondo cui la denuncia presentata dal B. era da ritenersi irrituale, da paragonarsi ad una denuncia anonima, non escludeva comunque la sua idoneità a stimolare l’attività del P.M. o della polizia giudiziaria al fine dell’assunzione di dati conoscitivi atti a verificare se da essa potessero ricavarsi indicazioni utili per l’enucleazione di una "notitia criminis" suscettibile di essere approfondita con gli strumenti legali (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv.

239695).

Quanto alla dedotta rilevanza della modalità di comunicazione sull’elemento soggettivo, basti qui osservare che il B. non solo si era recato presso la Caserma dei Carabinieri, per fare le dichiarazioni a carico della S., ma aveva subito dopo espressamente richiesto l’immediato intervento della forza pubblica.

In ordine alle restanti censure relative all’elemento soggettivo del reato, se ne deve dichiarare l’infondatezza. La Corte territoriale ha infatti motivato l’integrazione del dolo, con un corretto procedimento argomentativo, mai lambente il vizio di motivazione e al di fuori, altresì, di ogni addebito che possa interfere nell’assetto ricostruttivo del dolo del reato di cui all’art. 368 cod. pen.. La Corte, muovendo dalla premessa, ancorata ad univoci diretti elementi dimostrativi, della certezza dell’innocenza dell’incolpata, ha motivato la piena consapevolezza da parte dell’imputato di quanto denunciato, desumendola dalla cosciente falsità delle circostanze oggetto della denuncia.

Va qui ribadito che la consapevolezza dell’innocenza dell’accusato da parte del denunciante è evidenziata dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che connotano la condotta tenuta, dalle quali è possibile, con processo logico-induttivo, risalire alla sfera intellettiva e volitiva dell’agente: la sussistenza del dolo, in sintesi, si immedesima con l’accertamento della cosciente falsità delle circostanze oggetto della denuncia (Sez. 6, n. 31446 del 24/05/2004, Prandelli, Rv. 229271).

4. In conclusione l’impugnata sentenza resiste alle critiche che gli vengono mosse per cui il ricorso deve essere rigettato. Segue a norma di legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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