Cassazione, sez. II, 23 marzo 2011, n. 11542 Mutamento del giudice, a chi l’onere di citare i testimoni?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto

p.1. Con sentenza del 1/06/2010, la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza pronunciata in data 22/6/2009 con la quale il Tribunale di Sciacca, aveva ritenuto D.A. responsabile del reato di danneggiamento aggravato.

p.2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

1. VIOLAZIONE DELL’ART. 511 C.P.P. per avere la Corte territoriale ritenuto legittima la lettura delle dichiarazioni rese dai testi escussi, nonostante esso ricorrente si fosse a ciò opposto, essendo il giudice mutato e, quindi, dovendosi nuovamente sentire i suddetti testi indotti dall’accusa. Il nuovo giudice, infatti, aveva disposto che fosse esso ricorrente a dover citare i testi; tuttavia, siccome il suddetto onere doveva ritenersi illegittimo, il giudice non avrebbe potuto utilizzare quelle testimonianze dandone lettura ex art. 511 c.p.p..

2. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE per non avere la Corte sufficientemente motivato in ordine alle ragioni che l’avevano indotta a ritenere convincenti le dichiarazioni dei suddetti testi e, al contrario, inattendibili quelle dei testi della difesa.

Diritto

p.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 511 C.P.P.: la vicenda processuale alla base della censura in esame è la seguente:

– il giudice di primo grado escuteva i testi A. e S. indotti dal P.m. e da questi regolarmente citati;

– successivamente, però, il giudice mutava di persona sicché si rendeva necessario provvedere alla rinnovazione di quegli atti rispetto ai quali le parti non avevano dato il consenso alla lettura, ossia, nella specie, la testimonianza dei suddetti testi;

– il nuovo giudice ne disponeva la citazione onerando dell’incombente la difesa dell’imputato che si era opposta alla lettura;

– sennonché, all’udienza fissata per l’escussione, la difesa rappresentava che non aveva provveduto alla citazione dei testi, perché, essendo costoro stati indotti dal P.m., spettava a costui citarli;

– il giudice, quindi, rilevando l’inattività della parte, provvedeva alla lettura delle precedenti dichiarazioni rese dai testi.

p.3.1. La Corte territoriale, davanti alla quale la questione dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali era stata sollevata, l’ha disattesa rilevando che “posto che gli atti compiuti continuano legittimamente a fare parte del fascicolo dibattimentale e che è previsto un particolare regime per il loro recupero e conseguente utilizzazione dinanzi al nuovo giudice, la parte che abbia interesse alla loro riaudizione può essere onerata dell’obbligo di citarli essendo appunto essa stessa che avanza detta richiesta di nuova escussione testimoniale su tutti od anche su solo alcune delle circostanze precedente riferite”.

p.3.2. La difesa del ricorrente obietta che tale decisione sarebbe illegittima perché, una volta che vi sia opposizione alla lettura degli atti, nella specie per essere mutato il giudice, i medesimi devono essere nuovamente assunti secondo le regole precedenti; di conseguenza, avrebbe dovuto essere il P.m. a citare i testi da esso indotti. D’altra parte, l’omessa citazione non comportava la decadenza della prova, atteso che il giudice può revocare la prova solo quando risulti superflua ex art. 495/4 c.p.p., tanto più che l’inattività dell’imputato non poteva essere interpretata come una tacita manifestazione di volontà di recedere dalla richiesta di riaudizione dei testi.

p.3.3. La doglianza è fondata per le ragioni di seguito indicate. Va premesso che, essendo mutato il giudice, non era in discussione il diritto dell’imputato di opporsi alla lettura delle dichiarazioni testimoniali assunte dal precedente giudice: sul punto è sufficiente rammentare quanto statuito dalle SSU che, con la sentenza n. 2/1999, Iannasso, Rv. 212395 (alla quale si è poi uniformata la giurisprudenza di questa Corte: ex plurimis Cass. N. 3613/2006 Rv. 236044), nell’enunciare il principio di diritto secondo il quale “nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti”, affermarono anche che allorquando, nel corso del dibattimento rinnovato a causa del mutamento del giudice, nessuna delle parti riproponga la richiesta di ammissione della prova assunta in precedenza, il giudice può di ufficio disporre la lettura delle dichiarazioni precedentemente raccolte nel contraddittorio delle parti e inserite legittimamente negli atti dibattimentali. La questione, quindi, non è se, a seguito dell’opposizione della difesa, i testi dovessero essere o meno nuovamente escussi (sul punto, pertanto, tutta la lunga disquisizione del ricorrente sul diritto alla difesa, sui principi del contraddittorio e dell’oralità del dibattimento, sul mutamento del giudice, appaiono del tutto ultronei rispetto al thema decidendum) ma, molto più semplicemente, su quale parte incombeva l’onere di citarli o, più esattamente, se la decisione del giudice di onerare dell’incombente la difesa, sia o meno corretta. La soluzione della questione non può che partire dalla descrizione del meccanismo processuale contemplato negli artt. 511 – 514 c.p.p. che, dopo la sentenza delle SSUU cit., ha la seguente cadenza procedurale:

– il giudice, ex 511/1 c.p.p., anche d’ufficio, deve dar lettura (o in alternativa indicare: art. 511/5 c.p.p.) degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento;

– dal combinato disposto dei commi primo e quinto dell’art. 511 cit., si evince che l’atto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, può assumere, anche da solo, rilevanza di prova a condizione che esso sia reso a tal fine utilizzabile e cioè sia sottoposto al vaglio delle parti mediante la lettura;

– nell’ipotesi di testimonianze assunte da un giudice poi mutato, il principio di immutabilità del giudice di cui all’art. 525/2 c.p.p., impone, a pena di nullità assoluta, la rinnovazione integrale del dibattimento con la ripetizione di tutta la sequenza procedimentale prevista dal codice di rito;

– i verbali delle dichiarazioni dei testi assunti dal precedente giudice, fanno legittimamente parte del fascicolo processuale (Corte Cost. 17/1994 – SSUU cit. – Corte Cost. 399/2001);

– il nuovo giudice può dare lettura delle suddette dichiarazioni solo ove vi sia il consenso di tutte le parti, sicché è sufficiente il dissenso anche di una sola parte per impedirne la lettura e, quindi, l’utilizzabilità.

Ora, è del tutto evidente che, se è vero che i verbali precedentemente assunti fanno legittimamente parte del fascicolo processuale è anche vero che i medesimi divengono utilizzabili ad una sola condizione, ossia che tutte le parti prestino il loro consenso alla lettura. Di conseguenza, è sufficiente il dissenso di una sola parte perché si riapra tutta la sequenza processuale che aveva originariamente portato all’assunzione dei suddetti testi: il che è come dire che torna ad applicarsi l’art. 468/2 c.p.p..

La suddetta norma, infatti, ha posto l’onere della citazione a carico della parte richiedente perché, intuitivamente, è questa che ha interesse a che i propri testi siano sentiti e, quindi, è questa che deve citarli o portarli direttamente al dibattimento, non essendo compatibile con una corretta dialettica processuale (rectius: con il diritto a perseguire la strategia processuale più confacente ai suoi interessi) che vi provveda la parte che non vi abbia alcun interesse o addirittura abbia un interesse contrario.

È chiaro, quindi, che, una volta che una parte non presti il proprio consenso alla lettura delle dichiarazioni rese dai testi davanti al giudice poi mutato, poiché si riapre la sequenza procedimentale di cui agli artt. 468 – 495 c.p.p., ogni parte, ritrovandosi all’inizio del procedimento, dovrà nuovamente valutare se e quali testi citare: il che è come dire che, nella concreta fattispecie, non avendo la difesa prestato il proprio consenso alla lettura delle dichiarazioni rese dai testi indotti dal P.M., spettava a costui citarli, ove avesse avuto ancora interesse ad esaminarli.

Il suddetto interesse, invero, non potrebbe riconoscersi in capo alla difesa non solo perché i testi erano stati indotti dal P.m. ma anche perché il dissenso alla lettura non può essere interpretato come interesse a sentire nuovamente quei testi, e, viceversa, il consenso (prestato dal P.m.) come carenza di interesse. Infatti, una volta che una delle parti non esprima il proprio consenso, quelle dichiarazioni testimoniali divengono tamquam non esset sicché l’interesse processuale non va valutato alla stregua dei verbali che fanno parte del fascicolo processuale, ma considerando che quei verbali non sono più utilizzabili. Di conseguenza, ciascuna parte, essendo stata rimessa nello status quo ante, dovrà valutare, nella sua autonomia, se chiedere o meno nuovamente l’ammissione dei propri testi e, quindi, nuovamente citarli.

Ugualmente errato sarebbe far discendere dalla mancata citazione dei testi, una pretesa implicita e/o esplicita rinuncia a farli assumere, con conseguente lettura delle precedenti dichiarazioni. In proposito è sufficiente ribadire che, una volta che una parte non presta il suo consenso alla lettura, quelle dichiarazioni diventano inutilizzabili, sicché è del lutto improprio richiamare la peraltro controversa problematica di quali siano le conseguenze nel caso in cui la parte ometta di citare i testi dei quali aveva chiesto l’ammissione (Cass. 9335/1999 riv. 214255 – Cass. 32343/2007 Rv. 237074; contro: Cass. 41340/2006 Rv. 235772 – Cass. 13507/2010 Rv. 246604). Il problema, infatti, nel caso di specie, è diverso e consiste nello stabilire se l’ordine con il quale il giudice aveva disposto che a citare i testi fosse la parte opponente (rectius: la difesa), sia o no legittimo e se, a fronte, del conclamato rifiuto della parte onerata di provvedere alla citazione, sia stata o no legittima la lettura delle suddette testimonianze, previa revoca, quantomeno implicita, dell’ordinanza ammissiva della prova.

La risposta al suddetto quesito, alla stregua di quanto detto, non può che essere negativa e, pertanto, la sentenza impugnata va annullata dovendosi la Corte territoriale uniformare al seguente principio di diritto: “in caso di mutamento del giudice, le dichiarazioni dei testi assunti dal precedente giudice, non sono utilizzabili ove una delle parti si opponga alla lettura. In tal caso, l’onere della citazione dei suddetti testi, nonostante il consenso alla lettura prestato dalle restanti parti, spetta alla parte che aveva originariamente chiesto l’ammissione dei suddetti testi. Di conseguenza, ove la parte che non ha prestato il proprio consenso alla lettura venga onerata della citazione dei suddetti testi, legittimamente può rifiutarsi di citarli ed il giudice non può dare lettura delle dichiarazioni rese davanti al precedente giudice, dovendo porre l’onere della citazione a carico della parte che originariamente aveva richiesto l’ammissione dei testi”.

Gli atti vanno trasmessi alla stessa Corte di Appello in quanto la violazione dell’art. 511 c.p.p. non è compresa nell’elencazione tassativa di cui all’art. 604 cod. proc. pen. sicché spetta allo stesso giudice di appello provvederà all’escussione dei testi ai sensi dell’art. 495 c.p.p. (Cass. 3613/2006 riv 236044).

P.Q.M.

ANNULLA la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo per nuovo giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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