Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 17-01-2013) 20-02-2013, n. 8362 Poteri della Cassazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 7 aprile 2011 la Corte d’appello di Genova confermava la condanna di M.G. alla pena di giustizia interamente condonata per il reato di cui all’art. 483 c.p., commesso nell’autocertificare un reddito del proprio nucleo familiare inferiore a quello reale al fine di ottenere l’esenzione dal pagamento del ticket sanitario per una visita specialistica.

2. Avverso la sentenza ricorre l’imputata a mezzo del difensore di fiducia articolando tre motivi.

2.1 Con il primo motivo deduce violazione della legge penale sostanziale lamentando che la M. avrebbe agito esclusivamente con colpa dovuta a negligenza e che dunque il fatto sarebbe stato commesso in assenza del dolo necessario per la configurabilità del reato contestato.

2.2 Con il secondo motivo si denunciano vizi motivazionali della sentenza impugnata in relazione alla ritenuta volontarietà della condotta, avendo i giudici dell’appello immotivatamente respinto le giustificazioni offerte dall’imputata in merito alla mera erroneità del’autocertificazione oggetto di contestazione.

2.3 Con il terzo motivo il ricorrente lamenta infine il vizio del travisamento della prova sotto il profilo dell’utilizzazione di una prova inesistente; in proposito si evidenzia come la sentenza impugnata faccia infatti riferimento ad un reddito non denunciato dall’imputata nell’autocertificazione asseritamente prodotto dal figlio della medesima, sebbene alcun atto processuale attesti tale circostanza, peraltro inverosimile atteso che i due figli della M. avevano all’epoca dei fatti, rispettivamente, quattro e otto anni.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato ed in parte inammissibile e deve dunque essere rigettato. In particolare inammissibili sono i due primi motivi che possono essere trattati congiuntamente. Infatti la Corte territoriale non ha minimamente messo in dubbio che il delitto previsto dall’art. 483 c.p. possa essere commesso esclusivamente con dolo, mentre ha reso adeguata e non illogica motivazione in merito alla ritenuta volontarietà della condotta contestata all’imputata, argomentando altresì sulle ragioni per cui le giustificazioni di segno contrario fornite dalla medesima non sono state ritenute credibili. In proposito la ricorrente si è invece limitata a ribadire in maniera del tutto generica la presunta natura colposa della sua condotta, senza confrontarsi con le argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, dovendosi dunque ribadire come sia inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 199S1 del 15 maggio 2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 1 n. 39598 del 30 settembre 2004, Burzotta, Rv. 230634).

2. Insussistente è invece il denunciato travisamento della prova.

In proposito va Innanzi tutto ricordato che, ai sensi delle modifiche apportate all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il vizio di motivazione rilevante può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche "da altri atti del processo", purchè siano "specificamente indicati nei motivi di gravame". Ciò comporta, in altre parole, che all’illogicità intrinseca della motivazione (cui è equiparabile la contraddittorietà logica tra argomenti della motivazione), caratterizzata dal limite della rilevabilità testuale, si è affiancata la contraddittorietà tra la motivazione e l’atto a contenuto probatorio.

L’informazione "travisata" (la sua esistenza – inesistenza) o non considerata deve, peraltro, essere tale da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso. Inoltre, la nuova disposizione impone, ai fini della deduzione del vizio di motivazione, che l’"atto del processo" sia, come già ricordato, "specificamente indicato nei motivi di gravame".

Sui ricorrente, dunque, grava, oltre all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici, anche quello di individuare ed indicare gli atti processuali che intende far valere (e di specificare le ragioni per le quali tali atti, se correttamente valutati, avrebbero dato luogo ad una diversa pronuncia decisoria), onere da assolvere nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione. L’odierna ricorrente non si è attenuto a questi oramai consolidati principi, non avendo provveduto ad indicare quale sarebbe l’atto probatorio travisato, nè la decisività dell’errore valutativo eventualmente compiuto dalla Corte territoriale, posto che l’indicazione del reddito familiare in misura inferiore a quella reale è circostanza pacificamente ammessa nel ricorso e dunque non è chiaro che effetto discriminante assumerebbe la corretta identificazione del soggetto che ha prodotto il maggior reddito non dichiarato (la cui imputazione al figlio dell’imputata sembrerebbe all’evidenza frutto di un mero lapsus calami).
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2013

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