Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 22-01-2013) 18-02-2013, n. 7909

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza 20/7/12, emessa ex art. 444 c.p.p., il Gup del Tribunale di Napoli applicava, nei confronti di I.D., su richiesta delle parti, la pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione per i reati di calunnia in danno del Ten. Col. dei CC C.E. ( (OMISSIS): capo a), di calunnia in concorso (con soggetto separatamente giudicato) in danno dell’app. dei CC A.E. S. ((OMISSIS): capo b), ancora di calunnia nei confronti del detto app. A. ( (OMISSIS): capo b.1), di calunnia in danno di S.C. e V.G. ((OMISSIS)), di calunnia in danno di P.A. e P.G. ( (OMISSIS): capo d), di falsa testimonianza continuata in ordine ai predetti S., V. e P.G. ( (OMISSIS): capo c), di porto illegale di pistola ( (OMISSIS): capo f), di calunnia in concorso (con soggetti separatamente giudicati) del mar. dei CC C.B. ((OMISSIS): capo g), di calunnia in concorso (con soggetti separatamente giudicati) nei confronti ancora del detto mar.

C. ((OMISSIS): capo g.l), di calunnia in concorso (con soggetti separatamente giudicati), infine, ancora nei confronti del detto mar. C. ( (OMISSIS): capo g.2). Oltre alla pena sopra detta l’imputato era condannato al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili A., P. ( A. e G.) e C. e al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare.

Come si evince dalle singole imputazioni, si tratta per lo più di una serie di accuse calunniose (talora seguite da false testimonianze) rivolte dall’ I., imprenditore sotto scorta perchè espostosi con denunce nei confronti di esponenti di clan malavitosi di (OMISSIS) dediti ad attività estorsive, in danno di alcuni degli stessi militari addetti alla sua tutela e di altri soggetti.

Impugnavano la difesa dell’imputato e il PG. Con atto datato 25/7/12, depositato il 30/7/12, la difesa ricorreva per cassazione, deducendo inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità e vizio di motivazione: il giudice non aveva correttamente applicato l’art. 129 c.p.p., non considerando che il Gip aveva respinto la richiesta cautelare in ordine ai capi di imputazione g, g.l e g.2, non ravvisando i gravi indizi di colpevolezza. Chiedeva l’accoglimento del ricorso (non meglio precisando il petitum).

Con atto datato 6/8/12 "appellava" il PG, chiedendo, con la conferma della pena principale, l’applicazione di quella accessoria (imposta dall’art. 29 c.p.) dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni 5.

Con note datate 9/1/13 altro difensore chiedeva il rigetto del ricorso del PG e, in subordine, l’applicazione (invece che dell’art. 29) dell’art. 37 c.p..

Alla pubblica udienza fissata per la discussione il PG chiedeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con l’applicazione dell’art. 29 c.p., nonchè la declaratoria di inammissibilità del ricorso dell’imputato; la difesa chiedeva il rigetto dell’impugnazione del PG e l’accoglimento di quella dell’imputato.
Motivi della decisione

Il ricorso dell’imputato, generico e manifestamente infondato, è inammissibile. La sentenza impugnata ha sufficientemente e correttamente adempiuto all’obbligo di motivazione (art. 546 c.p.p., comma 1., lett. c), giusta lo speciale schema argomentativo proprio della pronuncia ex art. 444 c.p.p. nei termini ormai definiti dalla costante giurisprudenza di questa Corte, che, tra l’altro, ritiene sufficiente l’enunciazione, eventualmente anche implicita (e nel caso è esplicita), della insussistenza dei presupposti per un proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p.. In particolare le valutazioni espresse in sede cautelare non condizionano in alcun modo la pronuncia in sede di definizione del giudizio, specie se ad essa il decidente pervenga su richiesta delle parti.

Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di un’adeguata sanzione pecuniaria (art. 616 c.p.p.).

L’impugnazione del PG (da qualificare ricorso per cassazione ex art. 568 c.p.p., comma 5) è invece fondata. La pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici è dovuta per legge: l’art. 29 c.p. prevede quando essa sia perpetua (condanna all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni) e quando temporanea, per la durata prefissa di anni cinque (condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni). Il caso in esame (con una pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione) è quest’ultimo. In quanto legalmente dovuta, detta pena accessoria potrebbe essere applicata anche in sede di esecuzione (Cass., 1, sent. n. 45381 del 10/11/04, rv 230129: "L’assoluto automatismo nell’applicazione delle pene accessorie, predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, comporta tra l’altro: ndr che, quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria così dalla legge stabilita, il pubblico ministero ne può chiedere l’applicazione al giudice dell’esecuzione qualora sì sia omesso di provvedere con la sentenza di condanna"). In egual senso, recente, Cass., 1, sent. n. 1800 del 30/11/12, dep. 15/1/13. A maggior ragione in questa sede di cognizione e di legittimità. Improponibile la subordinata richiesta contenuta nelle note difensive di applicazione dell’art. 37 c.p., dettato per il caso in cui la durata della pena accessoria temporanea non sia espressamente determinata (solo allora essa avrà durata uguale a quella della pena principale inflitta).
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla omessa applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, che dispone nella misura di anni cinque.

Dichiara inammissibile il ricorso dell’ I. e condanna lo stesso ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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