Cass. civ. Sez. II, Sent., 11-07-2012, n. 11744 Spese della comunione e del condominio di manutenzione e di riparazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.M. convenne dinanzi al Tribunale di Ferrara G.L. chiedendone la condanna al rimborso, proporzionalmente alla sua quota di proprietà, delle spese da lei affrontate per la riparazione del tetto dell’edificio del quale ella aveva acquistato dal convenuto una porzione, convenendo con lo stesso, al momento dell’acquisto, di procedere ai lavori di ripristino delle parti comuni e di dividerne il costo.

Il convenuto si oppose alla domanda, negando di avere mai prestato assenso all’esecuzione dei lavori.

Il giudice di primo grado accolse la domanda ma, interposto gravame, con sentenza n. 692 del 17 giugno 2005 la Corte di appello di Bologna la respinse, affermando che l’attrice non poteva vantare il diritto al rimborso non avendo dimostrato, ai sensi dell’art. 1134 cod. civ., l’urgenza dei lavori eseguiti, tenuto conto del tempo trascorso tra la stipulazione del contratto, la predisposizione del preventivo e l’inizio dei lavori e l’omessa allegazione circa le condizioni del fabbricato, nè la presenza di accordi delle parti sul punto, considerato che qualsiasi riferimento ad essi contenuto nel contratto preliminare di compravendita doveva ritenersi irrilevante per non essere stato poi riprodotto nell’atto definitivo di acquisto.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 19 maggio 2006, ricorre P.M., affidandosi a due motivi.

Resiste con controricorso e successiva memoria difensiva G. L..
Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1134 cod. civ., censurando la decisione impugnata per non avere riscontrato nel caso di specie la situazione dell’urgenza dei lavori, che invece risulta dimostrata da alcuni elementi di prova, quali l’istanza avanzata dalla controparte al Comune, in epoca precedente alla vendita, di autorizzazione al rifacimento del tetto perchè urgente, la circostanza che nessuna intervento di riparazione era intervenuto successivamente ed il fatto incontestato che la P. avesse a suo tempo informato il G. della necessità dei lavori, presentandogli un preventivo, senza ricevere alcuna risposta. Da tali elementi, ad avviso della ricorrente, emergeva chiaramente l’urgenza dei lavori intrapresi dalla attrice, la quale, per contro, non poteva essere negata, come ha fatto il giudice a quo, per il solo fatto che la conoscenza della situazione di pericolo fosse risalente nel tempo. La Corte inoltre ha errato laddove ha escluso, per difetto di prova, l’esistenza di un accordo bonario tra le parti per l’esecuzione dei lavori, la cui ricorrenza era invece desumibile dallo stesso fatto che essi erano stati intrapresi dall’attrice senza indugio.

Il mezzo è inammissibile.

Tale conclusione si impone considerando che, come dedotto dal controricorrente, il motivo, pur incentrato nella denunzia dell’art. 1134 cod. civ., non contesta in realtà nè l’interpretazione nè l’applicazione di questa disposizione fatte proprie dalla Corte di appello, bensì la mera valutazione delle prove dalla stessa effettuata ai fini della ricorrenza dei presupposti di fatto richiesti dalla predetta disciplina normativa. La valutazione delle prove costituisce tuttavia l’esito di un giudizio di fatto che la legge vuole rimesso al prudente apprezzamento del giudice, e che, per tale ragione, non è censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo della motivazione. Ora, nel caso in esame, in disparte il rilievo che la Corte di merito ha motivato il proprio convincimento sulla base degli elementi di prova offerti dalle parti, il vizio di motivazione non risulta nemmeno sollevato, sicchè anche sotto tale profilo le censure vanno considerate inammissibili.

Il secondo motivo di ricorso, che denunzia vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, critica la decisione impugnata per avere negato efficacia all’accordo inserito dalle parti nel contratto preliminare di vendita in ordine all’esecuzione di lavori sulle parti comuni dell’edificio, ritenendolo superato dal contratto definitivo, stante la mancanza in esso di qualsiasi riferimenti a tale pattuizione. Sostiene al riguardo il ricorso che la motivazione assunta dalla Corte di appello non è soddisfacente, in quanto, se è vero che il contratto definitivo assorbe e supera le diverse statuizioni delle parti presenti nel preliminare, tuttavia tale effetto si estende a quelle clausole il cui oggetto è sostituito dal nuovo atto negoziale o comunque incompatibile con la nuova regolamentazione convenzionale, mentre laddove quest’ultima non esaurisca gli tutti gli obblighi e le clausole inserite nel preliminare, l’interprete ha il compito di verificare in concreto se la volontà delle parti li ha intesi lasciare in vita ovvero caducarli.

Anche questo motivo va disatteso.

La premessa giuridica da cui muove la ricorrente è certamente condivisibile.

L’affermazione secondo cui il contratto definitivo assorbe integralmente quello preliminare in precedenza intervenuto tra le parti sul medesimo oggetto, in modo da costituire l’unica fonte dei loro diritti e delle loro obbligazioni, trova infatti applicazione senz’altro con riferimento al contenuto delle pattuizioni che risultano riprodotte nel contratto definitivo, ma non comporta, invero, l’automatico venir meno delle altre clausole del contratto preliminare che non si esauriscono in meri obblighi a contrarre, essendo in questo caso compito dell’interprete accertare se la volontà delle parti, come manifestatasi nel contratto successivo, fosse nel senso di mantenere la vincolatività di tali accordi ovvero di ritenerli superati, abbandonandoli (Cass. n. 5179 del 2001; Cass. n. 7206 del 1999). Il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte operato dalla Corte distrettuale non appare pertanto compiutamente formulato e, già in questo senso, la motivazione della sentenza impugnata merita correzione.

Tanto precisato, deve tuttavia rilevarsi che il mezzo, per come formulato, appare inammissibile.

La deduzione della ricorrente in ordine all’esistenza di un accordo delle parti circa la ripartizione delle spese di riparazione delle parti comuni appare, infatti, per un verso generica, per l’altro insufficiente. Generica perchè il ricorso non ne allega l’esatto contenuto, nè precisa la sua esatta collocazione in relazione agli atti contrattuali intervenuti tra i contraenti ed altresì di avere prodotto in giudizio il documento negoziale che la conteneva, limitandosi a sostenere che essa era stata prevista in sede di stipulazione della vendita (pag. 3 del ricorso). Insufficiente in quanto la suddetta clausola, in base alla prospettazione dei fatti della stessa ricorrente, racchiudeva un mero accordo delle parti di provvedere all’esecuzione dei lavori di riparazione sulle parti comuni dell’immobile con ripartizione della spesa in base alle rispettive quote di proprietà, ma non già autorizzava la attrice, a fronte del presunto inadempimento della controparte, a provvedere unilateralmente ai lavori, conferendole una sorta di potere di esecuzione in danno e di diritto a pretendere la parte del prezzo pagato che era a carico della controparte. A prescinderne dalla sua genericità, la pattuizione invocata dalla parte ricorrente appare pertanto di per sè, sulla base della sua mera allegazione, obiettivamente inidonea a fondare la pretesa azionata nel presente giudizio.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della ricorrente.
P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente elle spese di giudizio, che liquida in Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2012

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