Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-01-2013) 01-02-2013, n. 5208

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 18.1.2012 il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, decidendo sull’istanza avanzata da L.S. volta alla revoca, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., delle sentenze di condanna specificamente indicate, accoglieva la richiesta con riferimento alle sentenze relative al reato di cui al R.D. n. 1736 del 1993, art. 116, n. 2, depenalizzato, e rigettava la richiesta avuto riguardo al decreto penale di condanna emesso dal Gip del Tribunale di Palermo, in data 18.2.2008 (irrev. il 10.12.2010), per il reato di cui all’art. 483 c.p. in relazione al D.P.R. n. 445 del 2000, artt. 46 e 76.

A ragione riteneva irrilevante, ai fini della valutazione in oggetto, la sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 2008 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del R.D. n. 267 del 1942, artt. 50 e 142 nella parte in cui stabiliscono che le incapacità processuali personali derivanti dal fallimento al fallito perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale. Tale pronuncia, infatti, non elimina il disvalore penale dell’accertata falsità, atteso che la declaratoria richiamata non investe il titolo del reato, bensì la rilevanza della condizione di fatto che non è sufficiente per ritenere revocabile la condanna definitiva, ai sensi dell’art. 673 c.p.p..

2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il condannato, personalmente, denunciando la violazione di legge ed il vizio della motivazione dell’ordinanza impugnata.

Premesso che con il decreto penale di condanna di cui si chiedeva la revoca, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., il L. è stato condannato per avere falsamente dichiarato al pubblico ufficiale, in atti destinati a provare la verità dei fatti ivi attestati ed indirizzati al Comune di Palermo in sede di richiesta di autorizzazione allo svolgimento di attività commerciali su aree pubbliche, di essere in possesso dei requisiti previsti dal D.Lgs. n. 114 del 1998, art. 5, commi 2 e 4, si ribadisce che, a seguito della decisione della Corte costituzionale n. 39 del 2008 – che aveva dichiarato la illegittimità costituzionale del R.D. n. 267 del 1942, artt. 50 e 142 nella parte in cui stabiliscono che le incapacità processuali personali derivanti dal fallimento al fallito perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale – le incapacità personali derivanti dalla dichiarazione di fallimento vengono meno automaticamente al momento della chiusura del fallimento e, nel caso di specie, erano cessate il 14.2.1992. Pertanto, deve ritenersi venuta meno la rilevanza penale dei fatti contestati cui si riferisce il decreto penale di condanna, atteso che, in sostanza, il L. al momento in cui ha effettuato le dichiarazioni contestategli era in possesso dei requisiti di legge.

Conseguentemente, in applicazione dell’art. 2 c.p., comma 2 e della L. n. 87 del 1953, art. 30, u.c., la condanna deve essere revocata.

Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato e, pertanto, deve essere rigettato.

L’art. 673 c.p.p., comma 1, nel prevedere la revoca della sentenza di condanna, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato, fa espresso riferimento al caso di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. In tale indicazione deve, all’evidenza, farsi rientrare anche la norma extrapenale che integra il precetto penale.

Tuttavia, nella fattispecie in esame le norme extrapenali richiamate dal ricorrente sulle quali è intervenuta la dichiarazione di illegittimità costituzionale non integrano il precetto penale, pertanto, alla loro caducazione non consegue una modifica della disposizione sanzionatoria. Non è, quindi, intervenuto alcun mutamento del quadro normativo che comporti abolitio criminis.

La intervenuta declaratoria di incostituzionalità delle norme citate, al più, potrà determinare per il futuro una diversa valutazione della condotta da parte del giudice della cognizione, ma non può avere alcuna ricaduta sulla rilevanza penale del fatto giudicato con decisione irrevocabile.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento della spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2013

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