Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-07-2012, n. 11671 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 19 gennaio 2006 la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma dell’1 luglio 2003, ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra la Poste Italiane s.p.a. e V.R. dall’1 giugno 1999 al 30 ottobre 1999 e la conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 30 ottobre 1999, ed ha condannato le Poste Italiane al pagamento in favore del V. del risarcimento del danno liquidato in via equitativa in misura pari alle retribuzioni spettanti dalla data della messa in mora individuata nel 9 febbraio 2002 fino alla scadenza del terzo anno successivo alla scadenza dell’ultimo contratto. La Corte territoriale ha considerato che il contratto in questione è stato stipulato dopo lo spirare del termine massimo di vigenza della contrattazione collettiva che autorizzava le ipotesi ulteriori di apposizione del termine ai contratti con le Poste Italiane ai sensi della L. 56 del 1987, art. 23.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la soc. Poste Italiane articolandolo su tre motivi.

Resiste con controricorso il V. chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso per omessa formulazione dei quesiti di diritto, e comunque il suo rigetto in quanto infondato, e svolgendo ricorso incidentale chiedendo che il riconoscimento del risarcimento del danno venga esteso a tutte le retribuzioni maturate dall’epoca dell’illegittima conclusione del rapporto.
Motivi della decisione

I due ricorsi vanno riuniti essendo proposti avverso la medesima sentenza.

Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 cod. civ. e art. 100 cod. proc. civ., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, insistendo sulla eccezione di inammissibilità della domanda introduttiva della lavoratrice, essendosi il rapporto per mutuo consenso dovuto al disinteresse manifestato dalla stessa dopo la cessazione del rapporto.

Con secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 1362 e segg. cod. civ., e insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla efficacia dell’accordo del 25 settembre 1997 integrativo dell’art. 8 del CCNL del 1994. In particolare si assume che detto accordo non conterrebbe alcuna limitazione temporale; che gli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti successivamente al 25 settembre 1997 e sino al 18 gennaio 2001, non avevano natura negoziale ma meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e della necessità di stipulare ulteriori contratti a termine; che i termini individuati negli accordi successivi a quello del 25 settembre 1997 non si riferiscono alla scadenza dell’autorizzazione a stipulare contratti a termine ma alla durata delle assunzioni, una volta accertata la persistenza delle esigenze riorganizzative di cui all’accordo; che la posizione giuridica azionata nel giudizio potrebbe definirsi quale diritto quesito e quindi indisponibile da parte degli agenti contrattuali anche prima dell’accertamento giudiziale della sua esistenza.

Con il terzo motivo si lamenta che è stato disposto il pagamento delle retribuzioni a decorrere dalla data della messa in mora anzichè dell’effettiva ripresa della attività lavorativa, e non è stato svolto alcun accertamento riguardo all’aliunde perceptum.

Con il ricorso incidentale si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2227, 1218, 1223, 1226, 1227, 2094 e 2099 cod. civ. e artt. 112, 114 e 432 cod. proc. civ., e motivazione contraddittoria e insufficiente su un punto decisivo della controversia. In particolare si deduce che la liquidazione equitativa del danno sarebbe illegittima, in presenza di un dato oggettivo costituito dalla retribuzione globale di fatto.

Il primo ed il terzo motivo sono inammissibili per inidoneità del quesito di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ.. In particolare osserva il Collegio che i quesiti in questione risultano del tutto astratti e privi di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta, in quanto si risolve soltanto nella mera enunciazione astratta del principio invocato dalla ricorrente, senza enucleare il momento e le ragioni di conflitto rispetto ad esso del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. Cass. 4-1-2011 n. 80 e Cass. 29-4-2011 n. 9583, nonchè, in particolare sul medesimo quesito, Cass. 7-4-2011 n. 7955, Cass. 1-9-2011 n. 17975).

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. In particolare "deve comprendere l’indicazione sia della "regola iuris" adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo" e "la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile" (v. Cass. 30-9-2008 n. 24339, v. anche Cass. 20-6-2008 n. 16941).

Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v.

Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr.

Cass. 7-4-2009 n. 8463). Mancando tali elementi i quesiti in esame devono ritenersi inammissibili.

Il secondo motivo è infondato. Osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali ai sensi dell’art. 8 del CCNL del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997, in data successiva al 30 aprile 1998 (e anteriormente alla operatività del CCNL del 2001), in epoca cioè in cui "era venuta meno la contrattazione autorizzatoria". Tale considerazione, in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCNL del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001), è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo. Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063, Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378). In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866). In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998. Ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 gennaio 2008 n. 28450; Cass. 4 agosto 2008 n. 21062; Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit). Tanto basta per respingere i motivi di ricorso in esame relativi tutti al limite temporale a cui sono subordinate le assunzioni a termini delle Poste Italiane, così confermandosi la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo.

Infondato è pure il ricorso incidentale. Osserva il Collegio che sul risarcimento del danno in questione è intervenuto, lo ius supervemens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, i quali dispongono che: "Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra uni minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.".

Tale disciplina, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (sul punto v. già Cass. Ord. 28 gennaio 2011 n. 2112), come è stato affermato da questa Corte (v. Cass. 31 gennaio 2012 n. 1409, Cass. 31 gennaio 2012 n. 1411), alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è fondata sulla ratto legis diretta ad "introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione", rispetto alle "obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente". La norma, che "non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato", in base ad una "interpretazione costituzionalmente orientata" va intesa nel senso che "il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto", con la conseguenza che a partire da tale sentenza "è da ritenere che – il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva" (altrimenti risultando "completamente svuotata" la "tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato"). Nel contempo, sempre alla luce della citata pronuncia della Corte Costituzionale, "il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum. Sicchè l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per il avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione".

In definitiva la norma in oggetto, come affermato dal Giudice delle leggi.

Risulta "adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi". Infatti "al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità nè dell’offerta della prestazione, nè di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso.

Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die".

Peraltro la Corte Costituzionale (richiamando le proprie pronunce – sent. n. 298/2009, 86/2008, 282/2007, 354/2006, ord. n. 102/2011, 109/2010, e 125/208) ha escluso "che inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche (come l’eccessiva durata dei processi in alcuni uffici giudiziali)" possano rilevare ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. Del resto circa le "presunte disparità di trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio del diritto del lavoratore illegittimamente assunto a termine" la Corte Costituzionale ha rilevato non solo che "il processo è neutro rispetto alla tutela offerta", ma anche che "l’ordinamento predispone particolari rimedi, come quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonchè gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle controversie di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89". Inoltre, la stessa Corte ha evidenziato che "la garanzia economica in questione non è ne rigida, ne uniforme" e, "anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonchè le stesse dimensioni dell’impresa immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti". A tale interpretazione adeguatrice, indicata (con sentenza interpretativa di rigetto) dal Giudice delle leggi come conforme a Costituzione, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, il Collegio, condividendo le argomentazioni sulla ratio della norma e sullo sviluppo dell’operazione ermeneutica, intende aderire, non ravvisando nel contempo una diversa interpretazione che sia parimenti non solo rispettosa della Costituzione ma anche del tutto conforme alla lettera e alla ratio della norma stessa (cfr. Cass. 9 gennaio 2004 n. 166, Cass. 26 gennaio 2010 n. 1581). Così intesa, infatti, in sostanza, come una sorta di penale stabilita dalla legge, in stretta connessione funzionale con la declaratoria di conversione del rapporto di lavoro a carico del datore di lavoro per la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e determinata dal giudice nei limiti e con i criteri dettati dalla legge, a prescindere sia dall’esistenza del danno effettivamente subito dal lavoratore (e da ogni onere probatorio al riguardo) sia dalla messa in mora del datore di lavoro, con carattere "forfetizzato", "onnicomprensivo" di ogni danno subito per effetto della nullità del termine, nel periodo che va dalla scadenza dello stesso fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto, la indennità in esame appare non solo conforme alla Costituzione (ai sensi di C. Cost. 303/2011), bensì anche pienamente rispondente alla lettera e allo spirito della legge.

Orbene tale normativa sopravvenuta va applicata nel caso in esame. In via di principio, infatti, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius supervemens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura de controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070). Evidentemente avendo il contro ricorrente percepito un risarcimento maggiore rispetto a quello previsto dalla normativa intervenuta, la sua domanda è infondata. Stante la reciproca soccombenza le spese di giudizio vanno compensate fra le parti.
P.Q.M.

La Corte di Cassazione riunisce i ricorsi e li rigetta; Compensa fra le parti le spese di giudizio.

Così deciso in Roma, il 26 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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