Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 16-11-2012) 29-01-2013, n. 4348

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Per quanto ancora rileva, con sentenza del 20/01/2011 la Corte d’appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza del 13/06/2008 del Tribunale di Bergamo, ha confermato l’affermazione di responsabilità di S.T. in relazione al reato di cui agli artt. 48, 110 e 479 cod. pen., e la pena irrogata, tuttavia, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna.

2. Nell’interesse del S. è stato proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

2.1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. b) che la Corte territoriale non abbia rispettato il principio di specialità, alla stregua del quale avrebbe dovuto applicarsi quanto previsto dal D.L. 9 settembre 2002, n. 195, art. 1 conv. con modificazione dalla L. 9 ottobre 2002, n. 222, ovvero la meno grave fattispecie di cui all’art. 480 cod. pen..

2.2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen.,, comma 1, lett. c) ed e) che la Corte, non esaminando specificamente la posizione del ricorrente, non aveva considerato l’assenza di prove in ordine alla natura fittizia del rapporto di lavoro del S., il quale non poteva essere chiamato a rispondere per i fatti commessi da altro soggetto.
Motivi della decisione

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.

1.1. La tesi del ricorrente, il quale ha invocato l’applicazione del D.L. n. 195 del 2002, art. 1, conv. dalla L. n. 222 del 2002, come rilevato dalla Corte territoriale, non può essere accolta, giacchè la fattispecie incriminatrice delineata da quest’ultima disposizione ha carattere sussidiario. Il D.L. n. 195 del 2002 cit., art. 1, comma 9, fa espressamente salvo il caso, ricorrente nella specie, che il fatto costituisca più grave reato.

1.2. Anche l’art. 480 cod. pen. è inapplicabile. La norma sanziona la condotta del pubblico ufficiale, che, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente in certificati o autorizzazioni amministrative, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.

Sono atti pubblici i documenti costitutivi di diritti ed obblighi, ovvero destinati ad avere funzione probatoria, aventi una propria individualità ed autonomia, in quanto, se pure contengono dati risultanti da altri documenti e a questi si riferiscono, comprovano e rappresentano una nuova situazione giuridica, laddove i certificati sono quei documenti derivati aventi efficacia meramente dichiarativa, essendo limitati alla mera documentazione di fatti dei quali, di regola, già esiste traccia in atti ufficiali (Sez. 6, n. 473 del 14/04/1971, Festuccia, Rv. 118007; nonchè, a riprova della continuità dell’orientamento, Sez. 2, n. 46273 del 15/11/2011, Battaglia, Rv. 251550, in motivazione), mentre le autorizzazioni sono atti unilaterali della pubblica amministrazione, che rimuovono, nei confronti di singoli soggetti, permanentemente o temporaneamente, i limiti posti dalla legge a determinate attività (Sez. 1, n. 1270 del 14/10/1969, Bisogno, Rv. 113962; in generale, v. Sez. U, n. 673 del 20/11/1996, Botta, Rv. 206661). Coerentemente con tali premesse, questa Corte ha ritenuto che il permesso di soggiorno rilasciato a cittadini extracomunitari è un atto deliberativo del pubblico ufficiale e non un atto meramente narrativo o derivato, con la conseguenza che è configurabile il reato di falso ideologico in atto pubblico per induzione nel caso in cui taluno ottenga la concessione del permesso, come nella specie, mediante false dichiarazioni o attestazioni, le quali integrano il presupposto di fatto dell’atto pubblico (Sez. 5, n. 29860 del 16/06/2006, Chen, Rv. 235148).

2. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato, in quanto la Corte, con argomentazioni adeguate e coerenti, ha sottolineato che nessuno degli imputati e, quindi anche l’odierno ricorrente, svolgeva per l’apparente datore di lavoro l’attività indicata nella domanda prodotta all’ufficio pubblico, ma al più sporadici e occasionali interventi. Le generiche censure prospettate, prive di specifici riferimenti agli atti del processo, non scalfiscono la logicità di tale accertamento.

3. Il presente ricorso, in conclusione, va dichiarato inammissibile e tale situazione, implicando il mancato perfezionamento del rapporto processuale, cristallizza in via definitiva la sentenza impugnata, precludendo in radice la possibilità di rilevare di ufficio l’estinzione del reato per prescrizione intervenuta successivamente alla pronuncia in grado di appello (cfr., tra le altre, Sez. U, n. 21 dell’11/11/1994, Cresci, Rv. 199903; Sez. 3, n. 18046 del 09/02/2011, Morra, Rv. 250328, in motivazione).

4. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex art. 616 cod. proc. pen, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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