Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-07-2012, n. 11794 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 2.2.07 la Corte d’appello di Firenze rigettava il gravame interposto da Poste Italiane S.p.A. contro la pronuncia con cui il Tribunale di Firenze, dichiarata la nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato il 1.3.2000 con C.A., aveva condannato la società a riammettere in servizio il lavoratore e a pagargli le retribuzioni maturate dalla data della costituzione in mora (23.1.03).

Per la cassazione di tale sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso il C..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, nella parte in cui l’impugnata sentenza non ha considerato che l’autonomia sindacale, investita da una "delega in bianco" (conferitale da tale norma) e da conseguenti "funzioni paralegistative", non incontra limiti od ostacoli di sorta nella tipologia di nuovi contratti a termine, per cui gli accordi successivi a quello del 25.9.97 non hanno natura negoziale, bensì meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto; pertanto – conclude la società ricorrente – le deroghe alla previgente normativa sul contratto a termine non potevano avere un’efficacia temporale limitata, nè poteva dirsi che avesse un’efficacia a tempo definito l’accordo aziendale 25.9.97.

Analoga censura viene in sostanza svolta nel secondo motivo, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., e segg., e di vizio di motivazione.

I due motivi – da esaminarsi congiuntamente perchè connessi – sono infondati.

L’impugnata sentenza ha attribuito rilievo autonomamente decisivo alla considerazione che il contratto in oggetto è stato stipulato – ai sensi dell’art. 8 CCNL del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25.9.97 – in data successiva al 30.4.98, allorquando era espressamente venuta meno la copertura autorizzatoria prevista dalle parti collettive.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte Suprema (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCNL del 2001 e al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’affermata nullità de termine apposto al contratto de quo.

A riguardo è stato precisato, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588, che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4.8,2008 n. 21063; cfr., altresì, Cass. 20.4.2006 n. 9245; Cass. 7.3.2005 n. 4862; Cass. 26.7.2004 n. 14011).

Ove però – come accaduto nel caso di specie – un limite temporale (30.4.98) sia stato in concreto previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v., ex aliis, Cass. n. 316/2011; Cass. 23.8.2006 n. 18383; Cass. 14.4.2005 n. 7745;

Cass. 14.2.2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte Suprema ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n, 230, art. 1" (cfr., ex aliis, Cass. n. 316/2011, cit.; Cass. 1.10.2007 n. 20608; Cass. 28.1.2008 n. 28450; Cass. 4.8.2008 n. 21062; Cass. 27.3.2008 n. 7979; Cass. n. 18376/2006).

Per quel che concerne la pretesa violazione dei criteri codicistici di interpretazione dei contratti, basti rammentare che questa S.C. ha sempre ritenuto corretta l’interpretazione fornita dai giudici di merito della valenza del termine del 30.4.98, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti, nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex aliis, Cass. 28.8.2003 n. 12245; Cass. 25.8.2003 n. 12453).

Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è comunque rispettosa anche del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; e infatti si attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25.9.97); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, siano privi di senso (così testualmente Cass. 14.2.2004 n. 2866).

Infine, questa Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà negoziale come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18.1.2001 in quanto stipulato oltre due anni dopo la scadenza dell’ultima proroga, vale a dire quando il diritto del lavoratore si era già perfezionato; invero, ove pure le parti avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25.9.1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la conclusione affermata dai giudici del merito sarebbe comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei già perfezionatisi diritti dei lavoratori, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto – in realtà – solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165), di autorizzare retroattivamente la stipula di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 11.2.2010 n. 3116; Cass. 12.3.2004 n. 5141).

In base a tale orientamento consolidato non merita, quindi, censura la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, il che assorbe ogni ulteriore argomentazione a riguardo svolta in ricorso.

2- E’. infine, inammissibile il terzo e ultimo motivo di ricorso, con cui la società deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto e vizio di motivazione in ordine all’aliunde perceptum, formulando il seguente quesito: "Dica la Corte se, nel caso di aggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande o eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il Giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto".

II vizio di motivazione viene in sostanza prospettato non in ordine alla motivazione in punto di fatto, ma in rapporto a quella in punto di diritto (sempre suscettibile di essere corretta ex art. 384 c.p.c., u.c.), il che colloca la doglianza al di fuori dell’area dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Per altro, come correttamente statuito dall’impugnata sentenza, la deduzione dall’aliunde perceptum quale fatto idoneo a limitare la responsabilità risarcitoria presuppone l’allegazione e la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, dello svolgimento da parte del dipendente di una diversa attività lavorativa e, quindi, dell’esistenza di ulteriori fonti di guadagno, allegazione e richiesta di prova che non possono essere avanzate in via meramente esplorativa.

Diversamente, si verificherebbe una surrettizia esenzione dall’onere probatorio gravante sul datore di lavoro (cfr., ex aliis, Cass. n. 17759/2010).

Quanto alla norma di diritto violata, cioè il combinato disposto degli artt. 210 e 421 c.p.c., in relazione ad una richiesta di ordine di esibizione documentale nei confronti del lavoratore per verificarne eventuali diversi redditi percepiti, basti osservare che, se in tal modo la ricorrente ha inteso lamentare il mancato esercizio di poteri istruttori, il ricorso si palesa non autosufficiente per mancata trascrizione della richiesta di prova e omessa precisazione della sede processuale in cui è stata avanzata.

Da ultimo, è appena il caso di aggiungere che nel rito del lavoro l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, involge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, da esercitarsi nel quadro di riferimento delineato da Cass. S.U. 20.4.05 n. 8202 (e da successiva conforme giurisprudenza di questa S.C.).

Invero, secondo l’insegnamento delle S.U., il rigoroso sistema di preclusioni del rito speciale trova un contemperamento – ispirato all’esigenza della ricerca della verità materiale, cui è doverosamente funzionaiizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, per altro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse.

L’inammissibilità del motivo assorbe la questione, ventilata da Poste Italiane S.p.A. in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., relativa all’eventuale incidenza, nella vicenda in esame, del sopravvenuto L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7: per altro, per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius supervemens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso è necessario non solo che quest’ultima sia pertinente alle questioni oggetto di censura (in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso: cfr. Cass. 8.5.2006 n. 10547; Cass. 27.2.2004 n. 4070), ma anche che il motivo investa il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta (il che non si verifica nel caso odierno poichè l’ultimo motivo di impugnazione riguarda le conseguenze patrimoniali derivanti dall’affermata nullità del termine del contratto di lavoro solo per quanto concerne l’aliunde perceptum).

3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 30,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2012

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