Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-07-2012, n. 11785 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 16-1-2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di S. Angelo dei Lombardi rigettava la domanda proposta da R. A.G. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso tra le parti il 5-7-2002, "per esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17,18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, 13 febbraio e 17 aprile 2002", con le pronunce consequenziali.

Il R. proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

La società si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza depositata il 27-12-2005, in accoglimento dell’appello dichiarava la nullità del termine apposto al contratto in causa e la intercorrenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato dal 19-7-2002, e condannava la appellata a corrispondere le retribuzioni dalla data di notifica del ricorso di primo grado fino alla sentenza oltre rivalutazione e interessi.

Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso con quattro motivi, A.G.R. è rimasto intimato.
Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente denunciando violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11, artt. 1362 e ss. c.c. e della direttiva comunitaria 1999/70 nonchè vizio di motivazione, in sostanza deduce che "la sussistenza delle ragioni legittimanti l’assunzione per cui è causa si evince dall’esame degli accordi richiamati nella lettera di assunzione, i quali disciplinano compiutamente il processo di ricollocazione delle risorse", da valutarsi necessariamente nel quadro dell’intero procedimento di ricollocazione del personale dell’area operativa, e lamenta che la sentenza impugnata avrebbe "erroneamente ancorato la ripartizione dell’onere probatorio sull’impianto normativo preesistente, come se il contratto il esame fosse ancora soggetto alle previsioni della L. n. 230 del 1962 e, quindi della L. n. 56 del 1987, art. 23".

La società, in particolare, dopo aver evidenziato che, in base alla nuova disciplina, il contratto a termine "non deve essere più sorretto dai requisiti dell’imprevedibilità, dell’eccezionaiità e dell’intrinseca temporaneità", rileva che la valutazione dell’esigenza enunciata "non poteva che essere fatta ex ante, proprio con riferimento ai processi richiamati negli accordi aziendali di cui alla lettera di assunzione".

Il motivo risulta infondato.

Nella fattispecie la Corte territoriale ha in primo luogo ritenuto che il contratto per cui è causa, ratione temporis, risulta disciplinato unicamente dal D.Lgs. n. 368 del 2001, essendo rimasto efficace l’art. 25 del c.c.n.l. del 2001 soltanto fino al 31-12-2001, ex art. 11 del citato D.Lgs..

Tale premessa è conforme al principio affermato da questa Corte (v.

Cass. 13-7.2010 n. 16424 e successive) secondo cui "in materia di assunzioni a termine del personale postale, l’art. 74, comma 1, del c.c.n.l. 11 gennaio 2001 del personale non dirigente di Poste Italiane s.p.a. stabilisce il 31-12-2001 quale data di scadenza dell’accordo. Ne consegue che i contratti a termine stipulati successivamente a tale data non possono rientrare nella disciplina transitoria prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11 – che aveva previsto il mantenimento dell’efficacia della clausole contenute nell’art. 25 del suddetto c.c.n.l., stipulate ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 – e sono interamente soggetti al nuovo regime normativo, senza che possa invocarsi l’ultrattività delle pregresse disposizioni per il periodo di vacanza contrattuale collettiva, ponendosi tale soluzione in contrasto con il principio secondo il quale i contratti collettivi di diritto comune operano esclusivamente entro l’ambito temporale concordato dalle parti".

Ciò posto la Corte di merito ha affermato che la nuova normativa "da un lato svincola il datore di lavoro dall’osservanza di previsioni legali o contrattualcollettive tipiche, rimettendo in definitiva alla sua autonoma individuazione le esigenze (oggettive e quindi pur sempre sindacabili in sede giurisdizionale sotto il profilo dell’an) idonee a giustificare l’apposizione del termine finale; ma dall’altro gli impone di dimostrare che le "specifiche" esigenze, indicate nel contratto, siano effettivamente sussistenti e abbiano una effettiva efficacia causale rispetto a quella determinata assunzione a termine".

Orbene la Corte di merito ha affermato che tale onere nella specie non è stato adempiuto dalla società, la quale ha sostenuto che l’effettività delle ragioni addotte a giustificazione del termine sarebbe dimostrata dagli accordi sindacali richiamati, laddove, invece, gli stessi dimostrano soltanto che, sul piano nazionale, vi erano determinate esigenze corrispondenti a quelle enunciate, senza, però, nulla evidenziare circa il nesso causale tra tali esigenze e la specifica assunzione de qua. Parimenti del tutto generica e inidonea a tal fine risultava, del resto, la prova articolata dalla società.

Tale decisione risulta conforme ai principi più volte affermati in materia da questa Corte.

La nuova disciplina, infatti – v. Cass. 21-5-2008 n. 12985 -, "anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo".

In particolare come affermato da Cass. 1-2-2010 n. 2279, "in tema di apposizione del termine al contratto di lavoro, il legislatore, richiedendo l’indicazione da parte del datore di lavoro delle "specificate ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo", ha inteso stabilire, in consonanza con la direttiva 1999/70/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia (….), un onere di specificazione delle ragioni oggettive del termine finale, vale a dire di indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificati ve essenziali, sia quanto al contenuto, che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale, perseguendo in tal modo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto; tale specificazione può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso "per relationem" ad altri testi scritti accessibili alle parti" (come accordi collettivi richiamati nello stesso contratto individuale).

In specie, poi, come è stato precisato da Cass. 27-4-2010 n. 10033, l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 "a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, si da rendere evidente la specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare, con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità, la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificatamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto".

Orbene la sentenza impugnata, dopo aver esaminato e valutato il contenuto degli accordi richiamati in contratto ha rilevato che gli stessi dimostrano soltanto la sussistenza sul piano nazionale delle esigenze connesse al processo di riorganizzazione e riposizionamento delle risorse sul territorio, ma nulla specificano in ordine al nesso causale tra tali esigenze e la assunzione a termine in oggetto.

Tale accertamento, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.

Con il secondo motivo la società lamenta che la sentenza impugnata "ha omesso ogni valutazione in ordine ad una parte della causale apposta al contratto impugnato" e precisamente al richiamo della "necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenza per ferie nel periodo giugno settembre".

Il motivo è inammissibile, in quanto trattasi di questione nuova, che involge temi di indagine nuovi, richiedenti nuovi accertamenti di fatto, i quali non sono stati oggetto del giudizio di merito.

Al riguardo questa Corte ha ripetutamente affermato che "nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello" (v. Cass. 16-8-2004 n. 15950, Cass. 27-8-2003 n. 12571, Cass. 5-7-2002 n. 9812, Cass. 9-12-1999 n. 13819). Nel contempo è stato anche precisato che "nel caso in cui una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, indicando altresì in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, così da permettere alla Corte di Cassazione di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa" (v.

Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 12-7-2005 n. 14590, 12-7-2005 n. 14599, Cass. 28-7-2008 n. 20518).

Nella fattispecie la sentenza impugnata non contiene alcun riferimento alla causale della "concomitanza di assenza per ferie" e la stessa ricorrente, che (significativamente) nella premessa in fatto a pag. 2 del ricorso non riporta affatto tale causale, neppure indica quando, con quale atto ed in quali termini la abbia invocata dinanzi ai giudici di merito.

Con il terzo motivo, denunciando violazione dell’art. 12 preleggi, art. 1419 c.c., D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e art. 115 c.p.c., la ricorrente in sostanza sostiene che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato permarrebbe, in generale, anche nella vigenza del D.Lgs. n. 368 del 2001.

Il motivo è infondato.

Come è stato affermato da questa Corte (v. Cass. 21-5-2008 n. 12985 e successive), "il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo". Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (principio applicato in fattispecie di primo ed unico contratto a termine)".

Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c., lamenta che la Corte d’appello "non ha svolto alcun tipo di verifica" in ordine alla messa in mora del datore di lavoro da parte del lavoratore e non ha tenuto "conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente", disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

Il motivo è inammissibile.

La prima censura risulta del tutto generica e priva di autosufficienza e non coglie nel segno, in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza considerare che la sentenza impugnata ha ravvisato la messa in mora nella notifica del ricorso introduttivo, esaminando espressamente il contenuto dello stesso.

Tale contenuto, quindi, la ricorrente avrebbe dovuto riportare, almeno nella parte relativa, che, secondo il suo assunto, non avrebbe integrato un atto di messa in mora.

Parimenti, poi, del tutto generica e priva di autosufficienza è la censura relativa all’aliunde perceptum.

Anche al riguardo, ignorando del tutto la decisione impugnata (che, sul punto, ha affermato che la società "non ha dedotto o provato alcuna specifica circostanza idonea a consentire una diversa e minore quantificazione del danno") la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099 -).

Così risultato inammissibile tale ultimo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (cfr. Cass. 4-1-2011 n. 80).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto.

Infine non deve provvedersi sulle spese non avendo l’intimato svolto alcuna attività difensiva.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2012

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