Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-11-2012) 07-12-2012, n. 47646

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 03/10/2011 la Corte d’Appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Bergamo del 12/11/2010 di condanna di B.E. per i reati di cui all’art. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 131, in relazione alla avvenuta realizzazione in area boscosa di pertinenza dell’abitazione di un ricovero per attrezzi formato da un basamento in calcestruzzo, pareti in legno e copertura in coppi.

2. Hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’imputato lamentando, con un primo motivo, la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 3, 44 e 45, del D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 149 e 181 e della L.R. Lombardia n. 12 del 2005, art. 27, nonchè la contraddittorietà della motivazione: censurano il fatto che i giudici di appello abbiano erroneamente disatteso la questione inerente la rilevanza ai fini decisori del giudizio avanti al Consiglio di Stato avente ad oggetto proprio i provvedimenti comunali attestanti la rilevanza urbanistica e paesaggistica del manufatto nonchè il diniego di sanatoria edilizia e di compatibilità paesaggistica. Aggiungono che il manufatto in oggetto, avente natura pertinenziale rispetto al fabbricato principale, sarebbe come tale assoggettabile non già a permesso di costruire bensì a Dia, essendo funzionale alla cura del bosco e del giardino; inoltre censurano la sentenza laddove la stessa ha considerato penalmente illecito il fatto per il solo superamento del limite di 10 mq. (essendo il manufatto di 16 mq.) di cui al piano regolatore Comunale di Brembilla, peraltro successivamente innalzato a 35 mq., senza valutare il contenimento del manufatto, alla luce della legge statale, entro il limite legale del 20% della volumetria dell’edificio principale. La natura pertinenziale nonchè la forma, la foggia ed i materiali usati renderebbero inoltre il fatto non idoneo, con riferimento al reato paesaggistico, a ledere il bene protetto mentre in ogni caso andrebbe fatta applicazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 149, versandosi in punto di esercizio dell’attività agro – silvo-pastorale che non comporta alterazione permanente dello stato dei luoghi.

3. Con un secondo motivo si dolgono della non considerata sanatoria paesaggistica e "giurisprudenziale" per violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 e D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 146 e 147, non essendosi tenuto conto della successiva più favorevole normativa comunale (ampliativa del limite di superficie sino a 35 mq.) che consentirebbe comunque il manufatto che invece in virtù della pregressa disciplina si dovrebbe demolire; di qui, peraltro, deriverebbe l’irrazionalità della decisione di diniego della sanatoria che si basi sul giudizio di doppia conformità.

4. Con un terzo motivo lamentano violazione dell’art. 5 c.p. avendo il B. ritenuto in buona fede che il modesto capanno non necessitasse di permesso a costruire e di autorizzazione paesistica.

5. In data 03/10/2012 gli stessi difensori hanno presentato memoria illustrativa con cui ribadiscono il contenuto dei motivi di ricorso e invocano, in aggiunta, ad essi, l’intervenuta prescrizione dei reati.
Motivi della decisione

6. Il primo profilo di doglianza contenuto nel primo motivo di ricorso, peraltro ripropositivo delle censure già puntualmente disattese dal giudice di appello e volto a sindacare la "mancata attesa" della decisione del Consiglio di Stato in ordine all’appello instaurato attraverso l’ordinanza del Tar di rigetto di impugnazione del diniego di sanatoria, è manifestamente infondato: va ricordato che il ricorso al giudice amministrativo avverso il diniego di sanatoria per abuso edilizio non comporta la sospensione dell’azione penale promossa per la relativa violazione, essendo detta sospensione limitata temporalmente sino alla decisione degli organi comunali sulla relativa domanda di sanatoria, manifestata anche nella forma del silenzio-rifiuto (Sez. 3, n. 24245 del 24/03/2010, Chiarello, Rv.

247692); si è aggiunto, sempre con riferimento a fattispecie di ricorso al giudice amministrativo avverso diniego di concessione in sanatoria, che la legge non stabilisce, in materia, una pregiudiziale amministrativa ed attribuisce anzi al giudice penale il potere-dovere di espletare ogni accertamento per stabilire l’applicabilità della causa di estinzione del reato, nè il giudice penale è vincolato all’esito del procedimento instaurato davanti al giudice amministrativo, da cui l’inutilità di ogni sospensione del giudizio penale (Sez. 3, n. 1188 del 05/11/1999, Fornaca, Rv. 215603).

6.1. Quanto alla dedotta natura pertinenziale dell’Intervento, premesso che gli stessi ricorrenti hanno inteso richiedere per l’opera in oggetto il permesso di costruire in sanatoria, sul presupposto, evidentemente, della qualifica di nuova costruzione del manufatto, occorre rammentare che le caratteristiche peculiari della pertinenza urbanistica sono state più volte indicate, in vario modo, dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e altro, Rv. 253064) e possono essere così sintetizzate:

– deve trattarsi di un’opera che abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato;

– deve essere preordinata ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso onde renderne più agevole e funzionale l’uso;

– deve essere sfornita di un autonomo valore di mercato e non deve essere valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo (non superiore, in ogni caso, al 20% di quello dell’edificio principale) tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede;

– la relazione con la costruzione preesistente deve essere, in ogni caso, non di integrazione ma "di servizio", allo scopo di renderne più agevole e funzionale l’uso. Si è ulteriormente chiarito, che il manufatto pertinenziale, oltre a dover accedere ad un edificio preesistente edificato legittimamente, deve necessariamente presentare la caratteristica della ridotta dimensione anche in assoluto, a prescindere dal rapporto con l’edificio principale e non deve essere in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti e con quelli eventualmente soltanto adottati.

E’ dunque evidente che la natura pertinenziale di un manufatto non può essere astrattamente desunta, esclusivamente dalla destinazione (peraltro soltanto dichiarata e pure incerta: "lavanderia o legnala") o dalle caratteristiche costruttive, ma deve risultare dalla oggettiva compresenza dei requisiti menzionati (Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e altro, Rv. 253064). Ciò posto, appare, nella specie, difettare anzitutto, nel manufatto in oggetto, la caratteristica della funzionalità all’uso dell’abitazione principale, posto che lo stesso sarebbe invece funzionale, come nello stesso ricorso si afferma, alla cura e al taglio del prato e alla periodica manutenzione del bosco. Nè, anche a volersi ritenere diversamente, il fatto che il manufatto avesse un volume non superiore al 20% del volume dell’edificio principale, potrebbe superare la circostanza, puntualmente richiamata dalle sentenze di merito, del superamento del limite di 10 mq. di cui al piano regolatore vigente all’epoca anche in relazione all’area soggetta a vincolo, limite comunque implicitamente richiamato anche dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. e 6).

6.2. Quanto alla dedotta mancanza di lesione arrecata al bene ambientale dal manufatto, va premesso, in conformità a quanto ripetutamente statuito da questa Corte, che il delitto paesaggistico di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, comma 1, ha natura di reato di pericolo e non richiede, per la sua configurabilità, un effettivo pregiudizio per l’ambiente, potendo escludersi dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettino inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l’aspetto esteriore degli edifici (tra le tante, Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009, Soverini, Rv. 245908); nella specie la sentenza impugnata ha sottolineato che l’opera, seppure realizzata in legno, poggiava su un solido basamento in calcestruzzo e presentava copertura in coppi, sì che deve senz’altro escludersi la mancanza di lesione del bene protetto. Nè è individuabile una violazione di legge nella mancata applicazione della previsione del D.Lgs. cit., art. 149, lett. b) atteso che la mancanza di autorizzazione paesaggistica è da tale norma espressamente limitata agli interventi che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie.

7. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato; con riguardo al reato edilizio, come già puntualizzato dalla sentenza impugnata, va anzitutto osservato che la richiesta di concessione in sanatoria è stata comunque rigettata e che nessun provvedimento in tal senso è stato mai adottato (tanto che penderebbe il relativo giudizio di impugnazione sul diniego); in ogni caso non è sanabile se non l’opera che sia "conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda" D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 36 (Sez. 3, n. 111149 del 15/02/2002, Rossi, Rv. 221269).

Nè appare invocabile la cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale", secondo cui sarebbe ammissibile la sanatoria di opere che, benchè non conformi alle norme urbanistico – edilizie ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in cui siano state eseguite, lo siano diventate successivamente. L’orientamento che riconosce tale possibilità di sanatoria (cd. "giurisprudenziale" o "impropria") si basa essenzialmente sull’argomento secondo cui non avrebbe senso dare corso alla demolizione di un’opera che subito dopo potrebbe essere assentita. In nessun caso, tuttavia, tale tipo di sanatoria può comportare l’estinzione del reato urbanistico, non essendo applicabile il disposto di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45 (Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, P.G. in proc. Micolucci, Rv. 236912).

Con riguardo poi al reato paesaggistico, va ribadito che la concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l’assetto del territorio sotto il profilo edilizio, (v. anche Corte Cost., ord. 21 luglio 2000, n. 327) (tra le altre, Sez. 3, n. 37318 del 03/07/2007, Carusotto e altro, Rv. 237561).

8. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato. Quanto alla coscienza dell’antigiuridicità dell’azione, va rilevato che presupposto della responsabilità penale è la conoscibilità, da parte del soggetto agente, dell’effettivo contenuto precettivo della norma dovendo considerarsi, secondo la sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale (in relazione alla previsione dell’art. 5 c.p.),quale limite alla responsabilità personale soltanto l’oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto (cd. ignoranza inevitabile,e quindi scusabile, della legge penale); la stessa pronuncia ha aggiunto che l’inevitabilità dell’errore sul divieto (e, conseguentemente, l’esclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di criteri cd. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell’agente) bensì secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in base a criteri (cd. oggettivi puri) secondo i quali l’errore sul precetto è inevitabile nei casi d’impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d’ogni consociato. Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari ecc..

Nella specie, invece, già con l’atto di appello, l’imputato aveva unicamente invocato, da un lato, la circostanza che analoghi capanni in legno asseritamente privi di titolo all’edificazione fossero presenti in zona nonchè, dall’altro, la propria condizione di persona non esperta in materia, elementi questi, tuttavia, per quanto appena ricordato, visibilmente insufficienti a fondare una pretesa ignoranza inevitabile.

9. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

L’inammissibilità originaria del ricorso, non consentendo il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, preclude la possibilità di rilevare e dichiarare, a norma dell’art. 129 c.p.p., la prescrizione maturata successivamente alla sentenza di merito, per quanto detto non validamente impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, De Luca).

10. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del grado, e della somma indicata in dispositivo, ritenuta equa, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 c.p.p.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2012
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