Cass. civ. Sez. I, Sent., 13-07-2012, n. 12002 Revocatoria fallimentare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza 16 gennaio 2003, il Tribunale di Milano respinse la domanda proposta dal Fallimento Forni ed impianti industriali Ingg.

De Bartolomeis s.p.a., dichiarato in data (OMISSIS), nei confronti della 2R System s.r.l., di revoca L. Fall., ex art. 67, comma 2 dei pagamenti di debiti per un totale di 139.061.986, pari a Euro 71.819,52, somma pagata a titolo di corrispettivo di fornitura merci dalla società in bonis a favore della creditrice convenuta nell’anno precedente alla sentenza dichiarativa di fallimento della società debitrice.

2. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 20 marzo 2006, accolse il gravame proposto dalla curatela fallimentare. La corte ritenne che con i motivi di appello la curatela avesse censurato specificamente le motivazioni con le quali il tribunale, per rigettare le domande dell’attore, aveva ritenuto insussistente la scientia decoctionis in capo alla società appellata, e avesse contrapposto alle argomentazioni svolte sul punto dal primo giudice quelle dell’appellante, poi esaminate nel merito, idonee ad incrinare il fondamento logico giuridico della decisione del tribunale. Non era invece richiesto che fossero evidenziati gli errori, attribuiti alla sentenza, con argomentazioni nuove rispetto a quelle svolte in primo grado a sostegno delle domande. La corte osservò inoltre che, essendo il giudizio iniziato prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 35 del 2005, convertito in legge con la L. n. 80 del 2005, non era applicabile la novella della L. Fall., art. 67, introdotta dalla suddetta legge, stante la norma transitoria per la quale essa è applicabile solo alle azioni revocatorie proposte nell’ambito di procedure iniziate dopo l’entrata in vigore del decreto.

3. Nel merito, la corte ritenne che lo stato d’insolvenza della società datasse già dagli anni 1993 e 1994, come era dimostrato dai numerosi decreti ingiuntivi emessi a suo carico per il pagamento di corrispettivi dovuti ai fornitori e dai numerosi procedimenti esecutivi iniziati a seguito di precetto. Ai primi del 1996 l’insolvenza era talmente grave da interessare gli organi di stampa, che riferivano del mancato pagamento degli stipendi ai lavoratori dipendenti già dal dicembre 1995. La scientia decoctionis era dimostrata dagli elementi indicati dalla curatela, e specificamente da una lettera della società appellante in data 13 luglio 1995, corrispondente ai primi pagamenti oggetto di revocazione, contenente la comunicazione della volontà di sospendere la fornitura dei prodotti ordinati dalla De Bartolomeis fino al ricevimento di garanzie reali, collegata alla richiesta della debitrice di differimento della già concessa rateizzazione del debito, e dal successivo comportamento delle parti.

4. Per la cassazione di questa sentenza, notificata il 10 aprile 2006, ricorre la società soccombente, con atto notificato in data 8 giugno 2006, per tre motivi.

Il fallimento resiste con controricorso notificato il 17 luglio 2006.

Il procuratore domiciliatario è comparso all’udienza quale difensore del fallimento, in sostituzione dell’avvocato Farinacci, deceduto.
Motivi della decisione

5. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 342 c.p.c.. Si censura il giudizio della corte di merito, che i motivi d’appello della curatela fossero specifici. Secondo la ricorrente, nell’atto d’appello la curatela aveva censurato solo genericamente la sentenza impugnata, senza specificare quali capi della stessa dovessero ritenersi erronei nè per quali motivi, e si sarebbe limitata ad affermare che il giudice di prime cure avrebbe sottoposto ad una lettura superficiale la lettera 13 luglio 1995. Il giudice d’appello avrebbe dovuto limitare la sua indagine alla valutazione ed interpretazione di quella lettera senza estendere la sua indagine ai capi non espressamente impugnati dal fallimento. Si formula il quesito di diritto se, in osservanza della formulazione dell’art. 342 c.p.c., e particolarmente anche in relazione all’espresso richiamo dell’art. 163 c.p.c., affinchè l’atto sia ammissibile l’appellante debba censurare specificamente i capi della sentenza impugnata motivando in fatto e in diritto le ragioni dell’impugnazione, individuandone l’oggetto e riproponendo altresì tutte le domande ed eccezioni già svolte nel giudizio di prime cure, non potendosi richiamare a quanto ivi già esposto negli atti e contrastando genericamente le statuizioni della cui pretesa erroneità si assume essere dipeso l’esito sfavorevole del precedente grado.

6. Il quesito prosegue con una generica interrogazione sul grado di specificità richiesto per i motivi, manifestamente inammissibile. Ma tale giudizio deve essere esteso a tutto il motivo che, pur essendo pletorico, è del tutto generico e non riesce a porre la questione che da sola dovrebbe decidere il punto in contestazione. E’ sufficiente al riguardo osservare che la curatela aveva impugnato la sentenza sull’unico capo in relazione al quale era stata decisa la sua soccombenza in primo grado, vale a dire la sussistenza della scientia decoctionis in capo alla società appellata al tempo dei pagamenti, e che aveva addotto a fondamento della sua critica gli stessi elementi già sottoposti all’esame del primo giudice e da questi valutati negativamente.

L’unica questione che potesse farsi, in ordine alla sussistenza del requisito della specificità dei motivi era, pertanto, quello concernente la riproposizione delle ragioni esposte in primo grado, quale motivo per giungere ad una soluzione opposta a quella impugnata; e, in definitiva, l’ammissibilità di una contrapposizione delle ragioni disattese dal giudice di primo grado e di quelle della sentenza gravata di appello. Su questo punto la soluzione della corte d’appello è stata conforme alla giurisprudenza di questa corte, che a sezioni unite ha affermato il principio di diritto – il solo pertinente alla fattispecie decisa – secondo il quale, ai fini della specificità dei motivi richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno dell’appello, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purchè ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta di percepire con certezza il contenuto delle censure, con riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice (Cass. Sez. un. 25 novembre 2008 n. 28057).

7. Con il secondo motivo si denuncia la violazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67, come novellato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35 convertito dalla L. 14 maggio 2005, n. 80 nonchè dell’art. 11 preleggi, comma 1. Si sostiene che la novella della L. Fall., art. 67, avrebbe natura d’interpretazione autentica, come dovrebbe desumersi dal suo contenuto. In caso contrario si porrebbe una questione di legittimità costituzionale per disparità di trattamento tra procedure cominciate primo o dopo l’entrata in vigore del Decreto n. 35 del 2005.

8. Il motivo è infondato. Il D.L. n. 35 del 2005, art. 2, comma 2 stabilisce che le disposizioni del comma 1, lettere a e b si applicano alle azioni revocatorie proposte nell’ambito delle procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore del decreto medesimo. La citata disposizione, che sancisce la chiara volontà del legislatore di riaffermare la regola contenuta nell’art. 11 c.c., comma 1, per il quale la legge non dispone che per l’avvenire, vanifica ogni tentativo di qualificare come "interpretativa" la novella della L. Fall., art. 67, (conformi Cass. 8 marzo 2007 n. 5346, 7 ottobre 2010 n. 20834).

Manifestamente infondata è poi la questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria, che non ha reso retroattiva la nuova disciplina delle azioni revocatorie. E’ principio consolidato che le modifiche della disciplina sostanziale nel corso del tempo non configurano alcuna ingiustificata disparità di trattamento di situazioni identiche, ma rispecchiano piuttosto la diversa qualificazione degli atti, nel tempo, da parte del legislatore, il quale, nel dettare una nuova regola, attinente agli effetti di un atto, non travolge quelli prodotti in base alla normativa precedente; e tanto vale ad escludere la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. (conf. Cass. 5 marzo 2008 n. 5962).

9. Con il terzo motivo si denunciano, cumulativamente, la violazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67 anche in relazione all’art. 5 dello stesso decreto con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e i vizi di motivazione su fatti controversi decisivi per il giudizio con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

10. L’inammissibilità che discende da un simile cumulo di mezzi eterogenei – giacchè il vizio di motivazione, mettendo in discussione la ricostruzione del fatto, non consente di delineare la violazione della norma di diritto, che è configurabile solo in relazione alla fattispecie come accertata dal giudice di merito nei suoi elementi di fatto (cfr., per l’inammissibilità del motivo in questi casi, Cass. 29 febbraio 2008 n. 5471, 11 aprile 2008 n. 9470, 23 settembre 2011 n. 19443), sarebbe nella fattispecie superabile con il rilievo che l’esposizione è divisa in due parti, la prima delle quali, sebbene si concluda con l’esposizione di un "quesito di diritto", si risolve in censure alle valutazioni che hanno indotto il giudice d’appello ad affermare la sussistenza dei presupposti per la richiesta revoca dei pagamenti, e mostra di collegarsi in tal modo ai vizi di motivazione enunciati in rubrica. Il cosiddetto quesito di diritto, infatti è costituito da un insieme di domande attinenti sostanzialmente agli accertamenti di merito della corte territoriale, e non propone alcuna questione di diritto. Lo stesso "quesito", peraltro, non assolve, nel suo contenuto, neppure alla funzione di quella sintesi, che circoscriva puntualmente i limiti del motivo, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità, che l’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella fattispecie ratione temporis, richiede a pena d’inammissibilità (Sez. un. 1 ottobre 2007 n. 20603). La censura di vizi di motivazione è pertanto inammissibile.

10.1. La seconda parte del motivo, che pare destinata ad ospitare l’esposizione della denunciata violazione di norme di diritto, si conclude con un quesito di diritto così formulato: se sia revocabile il pagamento effettuato dal terzo pignorato in osservanza del provvedimento giurisdizionale di assegnazione del giudice dell’esecuzione, tenuto conto che in tale fattispecie si realizza una cessione coattiva in base alla quale il credito è di proprietà del creditore procedente.

11. Il motivo si fonda sulla premessa di fatto, che l’ultimo – in ordine di tempo – dei pagamenti ricevuti dalla società ricorrente sarebbe stato costituito dall’assegnazione da parte del giudice dell’esecuzione di un credito pignorato dalla società medesima presso la debitrice della società successivamente fallita. Si tratta di un punto di fatto che non risulta dall’impugnata sentenza, nella quale, del resto, non v’è traccia della discussione sulla revocabilità di questo tipo di pagamenti. Il motivo è pertanto inammissibile, riferendosi ad una questione che non risulta essere stata discussa, nè nelle sue premesse di fatto nè nei suoi risvolti giuridici, davanti al giudice di merito.

12. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 16 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2012

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