Cass. pen. Sez. III, Ord., (ud. 09-10-2012) 06-12-2012, n. 47224

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Contro sentenza del Tribunale di Catania emessa in data 12 gennaio 2012 che nei confronti di L.C.A., imputato del reato di cui all’art. 81 cpv. c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (per avere con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, anche in tempi diversi, ceduto a D.F.S. stupefacente di tipo marijuana, poi sequestrata, di circa 10 grammi, con principio attivo di g.1 di THC, pari a circa 40 dosi medie singole, con recidiva specifica, in Catania il 31 agosto 2011),ha applicato ex artt. 444 ss. c.p.p. su richiesta delle parti la pena di anni due e mesi otto di reclusione ed Euro 12.000 di multa ha proposto ricorso il difensore dell’imputato adducendo un unico motivo: violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’art. 125, comma 3, e art. 554 c.p.p.. Sostiene il ricorrente che la pronuncia è assolutamente priva di motivazione aderente agli artt. 3 e 11 (sic) Cost. e art. 125 c.p.p., comma 3, non potendo la sentenza che applica la pena a seguito di patteggiamento limitare la motivazione a una presa d’atto dell’accordo tra le parti, poichè necessita comunque un’attività di deliberazione sorretta da una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto; nella fattispecie la sentenza sarebbe priva di qualsiasi motivazione sulla positiva delibazione della congruità della pena patteggiata o della rinunzia ai motivi d’appello, affermando il giudice la congruità in modo apodittico, senza alcuna specificazione sulle modalità del fatto e sulla personalità dell’imputato.
Motivi della decisione

2. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza, in quanto contrasta con la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte.

La fattispecie di applicazione della pena su richiesta ex artt. 444 ss. c.p.p., invero, si fonda su un negozio processuale stipulato dalle "parti che rende pattizia anche la statuizione della sentenza (cfr., p. es., Cass., Sez. 1^, 5.3.2008 n. 14653). Ne consegue che, come l’accordo intervenuto tra le parti esonera l’accusa dall’onere della prova, e implica da parte dell’imputato la rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa, comportando la rinunzia delle parti a far valere eccezioni e difese sostanziali e processuali nei limiti rispettivamente degli artt. 129 e 179 c.p.p. – salvo che si tratti di eccezioni afferenti all’approvazione dell’accordo -(Cass., Sez. 4^, 11 aprile 2008-26 novembre 2008 n. 44132), correlativamente la sentenza che recepisce tale accordo è da considerarsi sufficientemente motivata con una succinta descrizione del fatto (deducibile dalla imputazione), con l’affermazione della correttezza della qualificazione giuridica di esso, col richiamo all’art. 129 c.p.p. per escludere la ricorrenza di alcuna delle cause di non punibilità ivi previste e con la verifica della congruità della pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all’art. 27 Cost.

(Cass., Sez. 4^, 13 luglio 2006-17 ottobre 2006 n. 34494): si tratta dunque di una motivazione necessariamente sintetica ed essenziale, che l’imputato non può avere interesse a censurare come insufficiente chiedendone una maggiormente analitica, proprio perchè la statuizione del giudice coincide esattamente con la volontà pattizia delle parti e quindi anche del giudicabile (Cass., Sez. 2^, 19 febbraio 1993-26 aprile 1993 n. 3999), in rapporto ad un tipo di accordo che non prevede, a parte le ipotesi di illegalità, facoltà di recesso. Il che, in ultima analisi, significa che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti può essere oggetto di controllo di legittimità per vizio motivazionale limitatamente ai casi in cui dal suo testo emerga come evidente la sussistenza di cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p. (Cass., Sez. 4^, 17 giugno 2011-13 agosto 2011 n. 30867), fattispecie qui non ricorrente.

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.500 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1500 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2012

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