Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04-10-2012) 16-11-2012, n. 44988

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 17 febbraio 2012 il Tribunale di Milano rigettava l’appello cautelare presentato da R.S. – condannato in primo grado a seguito di giudizio abbreviato per il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso – avverso il provvedimento con cui il G.i.p. dello stesso Tribunale aveva a sua volta respinto l’istanza del medesimo di sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra meno afflittiva.

2. Avverso l’ordinanza ricorre l’imputato a mezzo del proprio difensore articolando tre motivi.

2.1 Con il primo motivo il ricorrente deduce vizi motivazionali del provvedimento impugnato in merito al lamentato difetto di motivazione dell’ordinanza del G.i.p. In proposito ricorda come per l’appunto i motivi d’appello avessero rilevato che il giudice di prime cure non aveva effettivamente motivato il rigetto dell’originaria istanza di sostituzione della misura cautelare, servendosi di un modulo prestampato integrato attraverso frasi generiche e del tutto inconferenti rispetto a quanto prospettato dall’istante, come tali inidonee a dare conto di una effettiva elaborazione della complessa vicenda processuale del R.. Non di meno il Tribunale, ignorando tale doglianza e provvedendo ad integrare tale motivazione, avrebbe sostanzialmente indebitamente creato in maniera autonoma le basi argomentative del rigetto dell’istanza, peraltro ricorrendo a sua volta ad affermazioni astratte e tautologiche.

2.2 Con il secondo motivo viene contestata la tenuta logica della motivazione resa dal Tribunale, che avrebbe ritenuto ancora attuale il pericolo di reiterazione del reato, nonostante plurime evidenze di segno contrario in grado di consentire il superamento della presunzione legale di adeguatezza del regime carcerario di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 e cioè nonostante che: l’imputato, il quale ha oramai raggiunto i 56 anni di età, sia incensurato, sia detenuto da oltre un anno e mezzo, non risulti coinvolto in alcuno dei reati fine del sodalizio mafioso di cui è accusato di essere membro, sia stato condannato in primo grado alla pena minima prevista per il reato ascrittogli. Sottolinea inoltre il ricorrente come il Tribunale abbia altresì ignorato che con la condanna di primo grado debba, per conforme interpretazione giurisprudenziale, ritenersi cessata la permanenza del reato di partecipazione all’associazione mafiosa, circostanza dalla quale avrebbe dovuto dedursi anche la cessazione dell’esigenza di cautela invece ritenuta ancora sussistente. Infine i giudici dell’appello, nel ritenere quest’ultima tuttora attuale, non avrebbero debitamente valutato l’evanescenza del quadro indiziario relativo alla posizione dell’imputato (che il ricorrente si è premurato di riassumere analiticamente e criticamente), comunque inidoneo ad attribuirgli quel ruolo di spicco in seno al sodalizio da cui il provvedimento sembra aver dedotto la permanenza della sua pericolosità sociale.

2.3 Con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente ripropone infine la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p., comma 3, per violazione degli artt. 3, 13 e 27 Cost. e nella parte in cui non consente al giudice di considerare per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. misure alternative alla custodia carceraria, già ritenuta dal Tribunale inammissibile perchè non rilevante.

3. All’udienza, ai sensi dell’art. 311 c.p.p., comma 5, il ricorrente ha proposto motivi nuovi, eccependo che successivamente all’adozione del provvedimento impugnato un coindagato del R. si è visto attenuare il regime cautelare per motivi "inerenti la sfera familiare". Circostanza che secondo il ricorrente costituisce nuovo elemento di necessaria valutazione atteso che il R. aveva a sua volta prospettato a sostegno del suo appello cautelare le compromesse condizioni di salute del coniuge, imputabili proprio allo stato detentivo dell’indagato.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato e per diversi aspetti anche inammissibile e deve pertanto essere rigettato.

1.1 Il primo motivo è manifestamente infondato, risultando altresì non poco generico in ragione della sua contraddittorietà. Il ricorrente sembra infatti voler denunciare vizi motivazionali del provvedimento impugnato – senza peraltro precisare quali – salvo poi apparentemente prospettare una presunta violazione della legge processuale in merito al lamentato intervento integrativo del Tribunale sull’asseritamente insufficiente o addirittura apparente motivazione resa dal giudice di prime cure.

1.2 In proposito deve ricordarsi innanzi tutto che, in tema di impugnazioni cautelari, la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel ritenere che il giudice di appello, quale giudice del merito, può (ed anzi deve), nell’ambito del devolutum, integrare la motivazione carente del provvedimento impugnato, senza annullare il provvedimento stesso per tale vizio (ex multis e da ultima Sez. 1 n. 27677 del 10 giugno 2009, Genchi, rv 244718). E tale regola deve ritenersi valida anche all’ipotesi di mancanza assoluta della motivazione del provvedimento appellato, sia nel caso di assenza grafica della medesima come in quello di motivazione meramente apparente, atteso che lo stesso si fonda sul principio della piena cognitio del giudice dell’appello, sebbene, ovviamente, nei limiti dei motivi proposti e delle eventuali eccezioni previste dalla legge processuale (ma come chiarito sempre da questa Corte, tra tali eccezioni non è annoverabile – nemmeno nel giudizio di cognizione, nulla prevedendo in proposito l’art. 604 c.p.p. – la fattispecie della motivazione mancante: in tal senso tra le altre Sez. 6 n. 26075 dell’8 giugno 2011, B., rv 250513).

1.3 Nel caso di specie il Tribunale milanese si è rigorosamente attenuto agli illustrati principi e con un apparato argomentativo esauriente ha giustificato le ragioni che impongono il mantenimento della misura cautelare, senza che alcun rilievo possa essere avanzato in ordine alla mancata analisi critica della motivazione del provvedimento appellato, giacchè proprio lo sforzo motivazionale compiuto per colmarne le eventuali lacune corrisponde al relativo motivo di appello.

2. Il secondo motivo di ricorso è in parte infondato ed in parte inammissibile.

2.1 Certamente inammissibile è la richiesta di sostanziale rivalutazione dell’effettivo peso indiziario delle evidenze utilizzate per l’adozione della misura cautelare e per la condanna dell’imputato, seppure avanzata nei limiti in cui le stesse sono state considerate ai fini dell’affermazione di attualità della prognosi di pericolosità sociale.

In proposito deve innanzi tutto rammentarsi come per costante insegnamento di questa Corte la sopravvenienza di una sentenza di condanna per gli stessi fatti per i quali è stata applicata una misura cautelare personale preclude al giudice dell’appello incidentale de libertate la rivalutazione della gravità indiziaria, in assenza di una diversa contestazione del fatto addebitato e di nuovi elementi di fatto (Sez. 1 n. 2350/10 del 22 dicembre 2009, Siclari, rv 246037).

Il ruolo rivestito dal R. nell’ambito del sodalizio mafioso – assunto dal Tribunale a presupposto della sua valutazione – deve ritenersi dunque quello accertato in sede di cognizione, senza che sia possibile nell’incidente cautelare una rivisitazione critica degli elementi di prova sui quali tale accertamento si fonda, salvo che non vengano prospettati fatti inediti non considerati nel procedimento principale, il che nel caso di specie non è avvenuto.

Ma anche a prescindere da questo profilo, in ogni caso il motivo sotto questo profilo si esaurisce sostanzialmente nell’inammissibile richiesta di promuovere una lettura alternativa del merito delle risultanze processuali rispetto a quella effettuata dal Tribunale, il quale invece ha fornito una interpretazione non manifesta illogica delle stesse e coerente con il loro contenuto.

2.2 Quanto all’omessa valutazione delle circostanze asseritamente sintomatiche dell’assenza di un pericolo di reiterazione elencate dal ricorrente, deve osservarsi che la doglianza è infondata, atteso che il Tribunale ha invece puntualmente risposto a tutte le sollecitazioni contenute nei motivi d’appello sul punto, supportando ancora una volta le sue valutazioni con motivazione esauriente e priva di vizi logici apprezzabili in questa sede.

Non meno infondato, al limite dell’inammissibilità, è l’ulteriore profilo prospettato dal ricorrente e cioè quello relativo alla sopravvenuta estraneità del R. all’ambiente associativo in conseguenza della cessazione della permanenza del reato di partecipazione al sodalizio quale conseguenza dell’intervento della condanna di primo grado.

Anche su questo punto il Tribunale ha fornito adeguata motivazione, facendo buon governo dei principi che regolano la materia.

Effettivamente – come ricordato dal ricorrente – si è ritenuto che il delitto di associazione di tipo mafioso possa continuare a consumarsi anche successivamente all’emissione di una misura cautelare – essendo legato non solo a condotte tipiche ma anche soltanto alla mancata cessazione dell’affectio societatis scelerum – fino ad un atto di desistenza che può essere volontaria oppure legale, rappresentato in tal caso dalla sentenza di condanna anche non definitiva e che, pertanto, nel caso di contestazione senza l’indicazione della data di cessazione della condotta, la permanenza debba ritenersi sussistente fino alla data della pronunzia di primo grado (Sez. 5 n. 31111 del 19 marzo 2009, Marazia, rv 244479). Non di meno la portata del principio in oggetto deve essere correttamente colta. Ciò che con esso si vuole significare è infatti che l’accertamento giudiziale della partecipazione al sodalizio non può che riguardare il fatto per cui viene celebrato il processo e cioè quello al più tardi consumatosi al momento della condanna dell’imputato. In tal senso la relativa pronunzia segna per l’appunto la cessazione della permanenza del reato, proprio perchè la stessa non potrebbe spingere l’accertamento che ne costituisce l’oggetto oltre il momento della sua adozione, nè potrebbe, nei successivi gradi di giudizio, procedersi ad espandere l’imputazione per registrare la permanente adesione dell’imputato all’associazione.

Ciò non significa però che la sentenza di condanna pronunziata in primo grado in qualche modo certifichi l’effettiva cessazione della sua appartenenza al sodalizio, tant’è vero che per consolidata giurisprudenza l’imputato potrà essere poi nuovamente processato in riferimento alla sua partecipazione allo stesso protrattasi nei periodi successivi senza incorrere nel divieto di cui all’art. 649 c.p.p. E dal costante inserimento dell’imputato nel sodalizio ben può essere tratto valido argomento per supportare la valutazione positiva sulla permanenza delle esigenze cautelari, come avvenuto nel caso di specie.

3. Inammissibile in quanto priva di rilevanza nel presente contesto è infine l’eccezione di legittimità costituzionale del terzo comma dell’art. 275 c.p.p. sollevata con il terzo motivo del ricorso.

In proposito deve infatti evidenziarsi come il Tribunale, nel rigettare l’appello del R., si sia fondato non già sull’accertamento negativo di elementi idonei ad escludere la sussistenza delle esigenze cautelari, quanto piuttosto sulla ricognizione di elementi di segno contrario idonei a consentire la positiva affermazione dell’adeguatezza della misura carceraria anche a prescindere dalla presunzione contemplata dalla disposizione impugnata. In tal senso dunque, come correttamente rilevato dal giudice del merito, l’eventuale cancellazione di quest’ultima da parte del giudice delle leggi non gioverebbe al R., non influendo in alcun modo sulla valutazione della sua posizione.

Per completezza va comunque rilevato che la questione è anche manifestamente infondata, come ripetutamente affermato proprio dalle sentenze della Corte Costituzionale citate dal ricorrente, con le quali il giudice delle leggi, nel ridimensionare l’ambito di applicazione della norma in questione impropriamente esteso dal legislatore negli ultimi anni, ha avuto modo di ribadire quanto già affermato dalla Consulta con Cord. n. 450/1995 in merito alla compatibilità della menzionata presunzione con i principi della carta fondamentale qualora riferita al reato di cui all’art. 416-bis c.p.. Nè cose diverse sono state affermate dalle Sezioni Unite di questa Corte in occasione della recente impugnazione dell’art. 275, comma 3 in relazione ai reati aggravati ex art. 7 d.l. n. 152/1991 (Sez. Un. n. 34473 del 19 luglio 2012, Lipari e Sez. Un. n. 34474 del 19 luglio 2012, Ucciero) ovvero, con riguardo alla compatibilità della norma con la CEDU, dalla Corte EDU 6 novembre 2003, Pantano e, Italia.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *