Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04-10-2012) 16-11-2012, n. 44972

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione D.N.G., avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo in data 27 settembre 2011 con la quale è stata confermata quella di primo grado, emessa all’esito di giudizio abbreviato, di condanna in ordine al reato di cui all’art. 483 c.p..

Il reato era stato contestato per avere, l’imputato, attestato falsamente, nella richiesta presentata alla Capitaneria di porto di Palermo nel 2007, di convalida della patente nautica conseguita nel 1996, di essere in possesso dei requisiti morali previsti dall’art. 6 del Regolamento delle patenti nautiche, mentre in realtà era stato condannato a 18 anni di reclusione, con sentenza fin dal 2000.

Deduce:

1) la violazione dell’art. 47 c.p., comma 3.

L’imputato doveva ritenersi caduto in un errore sul fatto, determinato a sua volta da errore su legge extra-penale ed in particolare sul regolamento delle patenti nautiche (D.P.R. n. 431 del 1997). In sostanza, non sarebbe stata giustamente valutata la tesi dell’imputato secondo cui egli si era rivolto ad un’agenzia per il rinnovo della patente nautica sottoscrivendo l’istanza senza leggere il modulo e le relative avvertenze: più nel dettaglio si era ritenuto in possesso dei requisiti morali per essere divenuto collaboratore di giustizia e quindi reputando di trovarsi in una situazione corrispondente a quella dell’avere scontato la pena.

Così facendo l’imputato non si sarebbe rappresentato in modo corretto il comportamento punito dal precetto di cui all’art. 483 c.p..

Inoltre la difesa segnala che la autocertificazione sottoscritta dall’imputato non riportava il contenuto dell’art. 6 del Regolamento sulle patenti nautiche, ossia della norma che pretende i requisiti morali e che il giudice del merito avrebbe ritenuto sicuramente – ma erroneamente – conosciuta dall’imputato. D’altra parte, la buona fede di costui poteva desumersi dal fatto che la patente nautica non gli era stata comunque revocata nonostante che la revoca, così come il rinnovo della patente di guida regolarmente avvenuto, sia fondata proprio sui detti requisiti morali.

La difesa chiede, dunque, l’applicazione della giurisprudenza di legittimità che attribuisce rilievo liberatorio al fatto dell’aver agito, l’agente, per mera leggerezza o per incompleta conoscenza delle disposizioni normative;

2) il vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche, tenuto conto dello status di collaboratore di giustizia dell’imputato, il quale avrebbe dovuto spiegare efficacia anche sulla determinazione della pena. Inoltre non era stata considerata la confessione da parte del ricorrente e la sua presenza ad ogni udienza.

La difesa lamenta infine che, se fosse stata individuata la pena finale entro sei mesi, il giudice avrebbe dovuto applicare la pena sostitutiva.

Il ricorso è inammissibile.

Ineccepibile è il rilievo della Corte d’appello la quale ha posto in evidenza come la responsabilità dell’imputato, sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo, risulti pacificamente provata alla luce del fatto che egli ha sottoscritto, sul modulo sottopostogli, la dichiarazione sul possesso dei requisiti morali previsti dall’art. 6 del regolamento in materia di patenti nautiche, articolo riportato sul retro del modulo stesso, mediante la riproduzione delle relativo testo, il quale fa chiaramente riferimento, per escludere il possesso dei diritti requisiti, a coloro, tra gli altri, che sono stati condannati ad una pena detentiva non inferiore a tre anni, salvo che siano intervenuti provvedimenti di riabilitazione.

In calce a questo testo dattiloscritto risulta – come accertato in sentenza – che l’imputato abbia apposto la propria sottoscrizione "per presa visione".

A fronte di una condotta attestata dai giudici del merito in tali termini è, in primo luogo, da ritenere inammissibile l’osservazione della difesa secondo cui il modulo sottoscritto dell’imputato non avrebbe riportato sul retro, il testo dell’art. 6 menzionato.

Si tratta, infatti, di un’affermazione difensiva che si sostanzia nella denuncia di un travisamento della prova e, in quanto tale, può essere ammissibilmente rappresentata al giudice della legittimità soltanto nel rispetto dei principi di specificità previsti dall’art. 581 c.p.p., comprensivi, secondo la accreditata giurisprudenza in tema di autosufficienza del ricorso, quantomeno della allegazione in copia del documento che si assume travisato e della indicazione della sua esatta collocazione nel fascicolo processuale: e fatto salvo, sempre, il superamento del principio di preclusione – nella specie non dimostrato – destinato altrimenti ad operare, nel caso in cui la specifica questione non fosse stata dedotta al giudice di secondo grado.

In assenza di tali requisiti la allegazione della difesa assume i connotati della mera contrapposizione, alla ricostruzione operata dal giudice del merito, di un’alternativa ricostruzione non apprezzabile, in quanto tale, dal giudice della legittimità, essendo riservata alla cognizione dei giudici di primo e secondo grado, i quali vi hanno provveduto con un ragionamento che si presenta come completo ed esaustivo.

E, considerato l’accertamento stesso, appare inattaccabile l’osservazione della Corte d’appello riguardo alla impossibilità di configurare l’errore di fatto denunciato dalla difesa, tenuto conto della dimostrata consapevolezza, da parte dell’imputato, di effettuare una attestazione falsa sulla presenza dei requisiti morali, intesi, tra l’altro, nel caso di specie, come assenza di condanne per delitti dolosi del genere di quelli sopra ricordati.

Infine appare infondata anche la allegazione della presunta buona fede dell’imputato derivante dallo status di collaboratore di giustizia.

E’ stato infatti rilevato dal giudice del merito che tale status non aveva comportato la non esecuzione della pena correlata alla condanna riportata, essendo in corso, alla data di presentazione della falsa dichiarazione, la espiazione della pena stessa, destinata a cessare l’anno successivo.

Si tratta, in altri termini, di un centrale passaggio argomentativo al quale la difesa oppone generiche considerazioni in punto di fatto, non rappresentabili nella presente sede data la loro natura estranea alle ragioni rassegnabili ex art. 606 c.p.p..

Anche il residuo motivo di ricorso appare manifestamente infondato.

La difesa trascura completamente di considerare che il giudice dell’appello ha motivatamente respinto le richieste in punto di attenuanti e di attenuazione della pena con la pregnante e razionale osservazione secondo cui, con la condotta in esame, sia pure successiva alla acquisizione dello status di collaboratore di giustizia, l’imputato ha dato prova, semmai, di un disinvolto atteggiamento di infrazione dei precetti penali che appare privo di qualsiasi giustificazione.

La Corte d’appello ha valutato la limitata incidenza del comportamento processuale ed ha conseguentemente assolto all’onere motivazionale che su di essa incombeva, essendo contestata – la motivazione esibita dal giudice a quo – su tale punto, con argomentazioni volte unicamente a criticare, sotto il profilo sostanziale della non condivisibilità, le conclusioni esclusivamente demandate al giudice del merito.

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 1000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 1000,00.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2012

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