Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con sentenza pronunciata il 5 febbraio 2009 il g.i.p. presso il tribunale di Milano condannava G.C., in sede di giudizio abbreviato, alla pena di anni quattro di reclusione, per i reati di cui agli artt. 81 cpv. e 314 c.p., art. 61 c.p., n. 7, commesso in (OMISSIS) (capo A); art. 81 cpv. c.p., art. 476 c.p., comma 2, accertato in (OMISSIS) (capo B), ritenuti i reati in questione unificati sotto il vincolo della continuazione, con condanna generica al risarcimento del danno nei confronti della costituita parte civile Presidenza del Consiglio dei Ministri. Alla G. si contestava originariamente di essersi impadronita, in tempi diversi, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in concorso con N.P., pubblico ufficiale nella sua qualità di curatore fallimentare, di ingenti somme di denaro, prelevandole dal conto corrente della procedura relativa al fallimento "Arcado" di cui il N. aveva la disponibilità in ragione del suo ufficio, nonchè di avere falsificato, sempre in concorso con il N., in qualità di curatore del suddetto fallimento, sia le comunicazioni che il cancelliere, su autorizzazione del giudice delegato, inoltrava all’istituto di credito per comunicare gli importi ed i beneficiari dei prelievi, già autorizzati dal giudice delegato con distinto ed autonomo provvedimento, con la modifica dell’ammontare dell’importo in cifra e/o in lettere e con l’aggiunta dei nominativi di beneficiari in relazione ai quali nessun pagamento nè prelievo era dovuto nell’ambito della procedura fallimentare, sia le relative richieste di emissione di assegni circolari, da intendersi atti pubblici ai sensi di legge, inserendovi beneficiari ed importi non autorizzati dal giudice delegato.
Con sentenza del 3 maggio 2011, la corte di appello di Milano riformava parzialmente la sentenza del g.i.p., dichiarando non doversi procedere nei confronti dell’imputata per tutti i fatti commessi anteriormente al 3.11.1998, perchè estinti per prescrizione e, ritenuta la continuazione tra i fatti successivi a tale data e quelli, analoghi, decisi dalla stessa corte di appello nei confronti sempre della G. con sentenza del 3.11.2005, passata in giudicato il 18.12.2007, rideterminava la pena complessiva aumentando la pena inflitta all’imputata di dieci mesi di reclusione, mentre il N. era stato già assolto dal g.i.p. per tutti i reati in contestazione.
La corte territoriale confermava nel resto l’impugnata sentenza, ritenendo che l’imputata, in qualità di curatore di fatto del fallimento "Arcado", sia entrata in possesso di ingenti somme di denaro depositate presso il conto corrente del suddetto fallimento, in virtù di mandati di pagamento autorizzati dal giudice delegato, che, poi, dalla stessa G. venivano falsificati negli importi e nella indicazione dei destinatari, ai quali, in tal modo, venivano illecitamente dirottate le somme sottratte al conto corrente del fallimento. Nei confronti dell’imputata e del N., peraltro, si è proceduto per fatti analoghi nell’ambito di altri due distinti procedimenti, che si concludevano sempre con la condanna della G. (una delle quali, come si è accennato, passata in giudicato) e l’assoluzione del N., in cui, tuttavia, ed è questa la principale differenza con il caso di specie, l’imputata rivestiva il ruolo formale di curatore fallimentare e non di collaboratrice del N..
Ha proposto ricorso l’imputata a mezzo del suo difensore articolando un unico, sia pure composito, motivo di ricorso, lamentando l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 314, c.p, nel caso in esame a suo avviso non configurabile, dovendosi ricondurre la condotta dell’imputata al paradigma normativo di cui all’art. 640, c.p., nonchè la contraddittorietà della motivazione sempre in ordine allo status del soggetto agente. Ad avviso della ricorrente, in particolare, la G. prima della falsificazione dei mandati di pagamento, realizzata aumentandone gli importi ed indicando destinatari estranei alla procedura fallimentare successivamente alla presentazione, al curatore prima ed al giudice delegato poi, della richiesta di emissione dei mandati di pagamento, non era entrata nell’effettivo e giuridico possesso delle somme distratte e, quindi, non aveva potuto realizzare l’interversione del possesso richiesta quale elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 314, c.p., non potendosi condividere la tesi sostenuta dalla corte territoriale secondo cui il curatore avrebbe la disponibilità comunque delle somme depositate sul conto corrente intestato alla procedura fallimentare, pur essendo il materiale prelievo delle stesse subordinato al provvedimento autorizzativo del giudice delegato.
Errata, inoltre, sarebbe l’attribuzione alla G. della qualifica di curatore di fatto, essendo la stessa semplice coadiutore del curatore formalmente nominato, N.P., che, peraltro, risulta essere il formale richiedente della autorizzazione alla emissione dei mandati di pagamento successivamente falsificati dall’imputata e, quindi, seguendo l’impostazione della corte territoriale, l’effettivo titolare del potere di signoria mediata sulle somme depositate sul conto corrente il cui prelievo è stato autorizzato dal giudice delegato, indotto in errore, unitamente al N. ed al funzionario di banca preposto al pagamento, proprio dalle falsificazioni imputabili alla G.. Rileva, inoltre, la ricorrente che, anche a volere ritenere la G. curatore di fatto, e, quindi, titolare di un potere di disponibilità sul denaro come bene fungibile, indistinto e genericamente inteso nella sua entità complessiva all’atto del deposito sul conto corrente del fallimento, la stessa non può ritenersi avere mai avuto la disponibilità delle somme sottratte prima della falsificazione, in quanto i mandati di pagamento originariamente erano stati autorizzati per importi e destinatari legittimi, diversi da quelli frutto della falsificazione, in relazione ai quali l’autorizzazione non è mai stata concessa, nè richiesta dal curatore o dal coadiutore.
Nè, infine, poteva condividersi l’ulteriore assunto della corte di appello, secondo cui in ultima analisi la responsabilità dell’imputata può trovare fondamento anche nel paradigma normativo di cui agli artt. 48 e 314 c.p., per induzione in errore dei N., in quanto il curatore ha formulato richieste originariamente legittime in relazione alle somme per cui è stato emesso il mandato di pagamento e nessun potere di sostituirsi al curatore stesso deve ritenersi conferito al coadiutore con la delega concessagli ad operare.
Motivi della decisione
Il ricorso proposto nell’interesse della G.C. deve essere dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3, in quanto, da un lato manifestamente infondato, dall’altro sostenuto da motivi che si limitano a proporre una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, non consentita in sede di giudizio di legittimità.
La posizione della G. ha già formato oggetto di precedenti valutazioni da parte della Corte di Cassazione. Come ricorda, infatti, il difensore nei confronti della G. sono nati ben tre procedimenti penali sempre in relazione alle stesse fattispecie criminose di cui all’art. 314 c.p. e art. 476 c.p., comma 2, maturate nello stesso contesto, pur essendo state poste in essere in relazione a diverse procedure fallimentari: nel primo l’imputata veniva condannata alla pena di anni otto di reclusione dal g.i.p. presso il tribunale di Milano in sede di giudizio abbreviato, con sentenza confermata dalla corte di appello di Milano, che superava indenne, passando in giudicato, il giudizio del Supremo Collegio, innanzi al quale veniva sollevata dal difensore e risolta negativamente dai giudici di legittimità la questione di diritto sulla qualificazione giuridica della condotta della G. ai sensi dell’art. 640, c.p., piuttosto che dell’art. 314; nel secondo la G. veniva condannata dal g.i.p. presso il Tribunale di Milano alla pena di anni sei di reclusione con sentenza resa in sede di giudizio abbreviato, che la seconda sezione della corte di appello di Milano, su gravame proposto dall’imputata, riformava, infliggendo a quest’ultima la pena di anni cinque di reclusione, dopo avere diversamente qualificato ai sensi dell’art. 640 c.p., la originaria contestazione di peculato, con una decisione, che, tuttavia, impugnata dal procuratore generale presso la corte di appello di Milano innanzi al Supremo Collegio, veniva annullata con rinvio ad altra sezione della stessa corte di appello, avendo ritenuto i giudici di legittimità che la condotta della G. andasse invece ricondotta nel paradigma normativo di cui all’art. 314 c.p., e non all’ipotesi della truffa; nel terzo procedimento, infine, giunto in data odierna innanzi al Supremo Collegio, come si è visto, sia il g.i.p. che la corte territoriale hanno ritenuto la G. responsabile del delitto di peculato e non di truffa (cfr. pagine 1 e 2 del ricorso a firma dell’avv. Roberta Ligotti).
Di fronte ad una valutazione quasi unanime dei giudici di merito e di legittimità in ordine alla corretta qualificazione giuridica della condotta della G. (l’unica voce "dissonante" è stata quella della seconda sezione della corte di appello di Milano, poi corretta dal Supremo Collegio), la ricorrente ("caparbiamente" come affermato dallo stesso avv. Ligotti a pagina 3 del ricorso), insiste nel contestare la qualificazione giuridica fatta propria dai giudici di merito nelle sentenze di primo e di secondo grado rese nell’ultimo procedimento riguardante la G. sul quale non si è ancora espressa la Corte di Cassazione, sul presupposto che si tratterebbe di un caso diverso: mentre nei due precedenti procedimenti la G. si era appropriata delle somme di denaro distraendole dalle procedure fallimentari nel cui ambito era stata formalmente nominata curatore, nel caso del fallimento "Arcade" la sua funzione era stata semplicemente quella di coadiutore "di fatto" del curatore fallimentare, formalmente nominato nella persona del N. P., di cui la G. era una stretta collaboratrice.
Di conseguenza, ad avviso della ricorrente, mancherebbe il presupposto per potere imputare alla G. l’indebito prelievo da lei effettuato, attraverso la falsificazione delle comunicazioni inoltrate all’istituto di credito dal Cancelliere del giudice delegato e delle richieste di emissione di assegni circolari in favore di beneficiari e per importi mai autorizzati dal suddetto giudice, delle somme di denaro dal conto corrente della procedura fallimentare "Arcado" a titolo di peculato, non rivestendo formalmente l’imputata la qualità di pubblico ufficiale, elemento costitutivo indefettibile del delitto di cui all’art. 314 c.p., con il quale si apre il Capo 1^ ("Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione") del Titolo 2^ ("Dei delitti contro la pubblica amministrazione") del Libro 2^ ("Dei delitti in particolare") del codice penale, qualità che, nel caso in esame, competeva al solo curatore fallimentare formalmente nominato, cioè al N..
La tesi difensiva non può essere accolta, perchè si fonda sull’evidente equivoco di considerare la G. un semplice soggetto privato, che si è limitata a collaborare con il curatore fallimentare N., tradendone la fiducia, senza assumere alcuna veste formale all’interno della procedura fallimentare, da considerarsi, pertanto, nell’ottica del difensore, privo di ogni autonoma identità giuridica e, correlativamente, immune da ogni responsabilità collegata all’esercizio contra legem dei poteri che sono connessi alla qualifica di natura pubblicistica di organo del fallimento. L’imputata, invece, pur in assenza di una nomina formale, ha svolto di fatto all’interno del fallimento "Arcado" un ruolo quanto meno equiparabile (come ammesso dallo stesso difensore) a quello di coadiutore del curatore fallimentare formalmente nominato, se non di vero e proprio curatore secondo l’impostazione seguita dal giudice di prime cure, condivisa dalla corte di appello.
Come evidenziato sia nella sentenza della corte territoriale (cfr.
pagg. 10-12), sia in quella del g.i.p. presso il tribunale di Milano (cfr. pagg. 15-18), infatti, la G., nelle procedure come quella relativa al fallimento "Arcado" in cui a rivestire formalmente il ruolo di curatore fallimentare era il N., provvedeva alle alterazioni dei mandati di pagamento e delle richieste di emissione di assegni circolari solo dopo che quest’ultimo aveva sottoscritto la richiesta di assegni circolari "come da mandato in originale", cioè non alterato nella entità degli importi e nella indicazione dei beneficiari, per come pervenuto nella sottoscrizione operata dal giudice delegato e dal cancelliere: successivamente aveva cura però di farsi delegare dal N. al ritiro dei titoli, solo a tal punto provvedendo a modificare la richiesta firmata dal curatore.
Nello svolgimento della sua attività illecita la G. era notevolmente agevolata dal rapporto di stretta collaborazione che la legava al N. assolutamente noto all’interno del tribunale fallimentare di (OMISSIS), in virtù del quale il giudice delegato al fallimento, il cancelliere ed i funzionari dell’istituto di credito presso il quale era acceso il conto corrente intestato al fallimento "Arcado" percepivano senza incertezza alcuna l’imputata come una rappresentante del N., preposta da quest’ultimo a coadiuvarlo nell’assolvimento delle incombenze proprie della curatela fallimentare e, proprio grazie a tale rapporto di "rappresentanza organica", le erano stati consegnati, nel corso del tempo, in numerose occasioni, dal cancelliere del giudice delegato i mandati di pagamento e dai dipendenti dell’istituto bancario gli assegni circolari, che venivano poi dirottati dall’imputato in vantaggio di terzi estranei alla procedura fallimentare.
Il fondamento della responsabilità della G. rimane inalterato, ovviamente, anche definendo il suo ruolo all’interno del fallimento "Arcado" in termini di coadiutore "di fatto" del curatore fallimentare formalmente nominato, come prospettato dalla difesa.
La stessa legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), infatti, prevede espressamente il coadiutore come figura autonoma che si affianca al curatore fallimentare (L. Fall., art. 32, comma 2), la cui opera, come precisato dal Supremo Collegio, "è integrativa dell’attività del curatore, svolgendo funzioni di collaborazione e di assistenza nell’ambito e per gli scopi della procedura concorsuale", per cui egli "assume la veste di ausiliario del giudice" (cfr. Cassazione civile, sez. 2, 9.5.2011, n. 10143), e, quindi, di pubblico ufficiale, al pari del curatore fallimentare (sulla natura di pubblico ufficiale del curatore fallimentare, cfr., ex plurimis, Cass. sez. 3, 12.6.2008, n. 37282, N.; Cass., sez. 5, 10.11.2006, n. 41339, C, oltre a Cass., sez. 6, 18.12.2007, n. 16980, rv. 239842, relativa ad uno dei procedimenti in precedenza menzionati in cui la G. rivestiva formalmente tale funzione, su cui si tornerà in seguito). Sotto il particolare profilo della responsabilità penale, poi, la legge fallimentare opera una parificazione tra le due figure che non potrebbe essere più piena:
l’art. 231, infatti, estende le speciali disposizioni penali previste per punire particolari condotte del curatore fallimentare, incompatibili con i suoi doveri di imparzialità e correttezza, dagli art. 228 ("Interesse privato del curatore negli atti del fallimento"); art. 229 ("Accettatone di retribuzione non dovuta") e art. 230 ("Omessa consegna o deposito di cose del fallimento") "alle persone che coadiuvano il curatore nell’amministrazione del fallimento", ampliando in tal modo la sfera di operatività di autonome fattispecie di reato, la cui ultima ragione di essere va individuata nella volontà di sanzionare il distorto esercizio dei poteri di amministrazione del patrimonio fallimentare e di gestione della relativa procedura, che per loro natura costituiscono l’essenza stessa dei compiti affidati al curatore fallimentare ed ai suoi coadiutori, collocati, dunque, nella prospettiva della repressione penale, sullo stesso piano. Di tale equiparazione appare, peraltro, assolutamente consapevole la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, in più occasioni, ha definito pubblico ufficiale il coadiutore del curatore del fallimento, "in quanto coopera a titolo oneroso alla funzione di custodia giudiziaria dei beni affidati al curatore", ritenendo, su tale presupposto, che integri proprio "il delitto di peculato la condotta del coadiutore del curatore del fallimento che si appropria di beni della società dichiarata fallita, dei quali abbia il possesso in ragione del suo incarico" (cfr. Cass., sez. 6, 21.1.2009, n. 13107, Z., nonchè Cass., sez. 6, 16.10.2000, n. 11752, Puma, secondo cui "il coadiutore tecnico- contabile del curatore del fallimento, autorizzato a prestare la propria attività professionale, in rappresentanza della curatela, presso l’ufficio i.v.a. in ordine ad una vertenza tributaria, svolge una qualificata collaborazione alla funzione giudiziaria e pertanto esercita funzioni di pubblico ufficiale: è configurabile pertanto il reato di peculato, e non quello di appropriazione indebita, quando, come nella specie, il suddetto coadiutore, ricevuta dal curatore una somma di denaro al fine di definire una contestazione tributaria mediante presentazione all’ufficio i.v.a. di istanza di sanatoria e relativo pagamento, se ne sia appropriato"). La mancanza di una nomina formale di curatore fallimentare o di coadiutore in capo alla G. non consente di escludere la sua qualità di pubblico ufficiale e, con essa, di non qualificare la sua condotta in termini di peculato. Come correttamente osservato dalla corte di appello (cfr. pag. 11) corrisponde ad un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità ritenere che debba rispondere del delitto di peculato anche chi abbia assunto di fatto la veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. Ed invero giurisprudenza e dottrina sono unanimi nel ritenere che agli effetti della legge penale, il funzionario di fatto è equiparato al pubblico ufficiale e debba pertanto rispondere dei reati che presuppongono tale qualifica. In questo alveo si colloca un’importante decisione, puntualmente citata dalla corte territoriale, in cui si è affermato che è pubblico ufficiale il coadiutore dell’esattore concessionario del servizio di tesoreria di un ente territoriale, ancorchè non formalmente investito della pubblica funzione ed in quanto funzionario di fatto, che risponde pertanto del reato di peculato per l’indebita appropriazione delle somme ricevute nello svolgimento della sua attività (cfr. Cass., sez. 6, 2.7.2010, n. 28125, F., rv.
247788, nonchè, nello stesso senso, Cass., sez. 6, 7.4.2003, D’Alessio).
Necessario è, dunque, l’effettivo esercizio della funzione anche senza un formale o regolare titolo d’investitura, purchè sia accompagnato dal consenso quantomeno tacito, dall’acquiescenza o dalla tolleranza della p.a., che nel caso della G. emerge in tutta evidenza dalla sua gestione di fatto per lungo tempo di una parte rilevante dei compiti tipici del curatore fallimentare nella procedura "Arcado", senza che mai nessuna contestazione le venisse mossa al riguardo nè dal curatore formalmente nominato, nè dagli altri organi del fallimento (sulla responsabilità penale del funzionario di fatto, oltre ai precedenti giurisprudenziali menzionati nella sentenza della corte di appello di Milano, cfr.
anche Cass., sez. 6, 16.12.1994, Seri; Cass., sez. 6, 19.6.1990, Susco; Cass. sez. 5, 13.11.1984, Mura; Cass., sez. 6, 18.1.1980, Patrone).
Alla luce delle svolte considerazioni non può che concludersi per la manifesta infondatezza della prima censura presa in considerazione, superata la quale occorre passare alla seconda.
In questo caso si tratta di affrontare la riproposizione di un argomento già esposto non solo innanzi alla corte territoriale, ma anche davanti alla Corte di Cassazione nell’ambito dei due distinti procedimenti, richiamati dal difensore, sorti a carico della G. per fatti analoghi di peculato e falso, commessi nella qualità di curatore fallimentare, che i giudici di legittimità non consideravano pertinente.
Riprendendo il percorso argomentativo seguito dalla sesta sezione penale di questa Corte di Cassazione nella sentenza n. 16980 del 18.12.2007, che rigettava il ricorso proposto dalla G. avverso la sentenza con cui, il 2.11.2005, la corte di appello di Milano confermava la condanna ad otto anni di reclusione per i delitti di peculato continuato, appropriazione indebita aggravata e falso pronunciata il 19.11.2004 dal g.i.p. presso il tribunale di Milano, in sede di giudizio abbreviato, il punto centrale della tesi difensiva è che l’imputata non avesse il possesso o la disponibilità del denaro per ragioni della sua attività di curatore fallimentare o di coadiutore del curatore formalmente nominato, disponibilità che aveva solo il giudice delegato; l’imputata sarebbe riuscita ad entrare in possesso del denaro attraverso le falsificazioni poste in essere sulle autorizzazioni al pagamento dei creditori: da qui l’ipotizzabilità della truffa. Si tratta di un tema, quello della distinzione tra peculato e truffa, da tempo oggetto di riflessione in giurisprudenza ed in dottrina, che, sul punto, sono giunte a conclusioni convergenti.
La giurisprudenza, in particolare, è solita ravvisare nella strumentante dei comportamenti fraudolenti rispetto al conseguimento del potere materiale o giuridico sul denaro o sulla cosa mobile altrui, il discrimine tra truffa e peculato. In tal senso ritiene configurabile il reato di cui all’art. 314 c.p. tutte le volte in cui, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, nel momento in cui pone in essere la condotta appropriativa, abbia già, in via esclusiva o congiuntamente ad altri, un potere materiale o giuridico sul denaro o sulla cosa mobile della pubblica amministrazione, ponendo in essere una condotta fraudolenta al fine di occultare l’illecita provenienza. Diversamente, considera ravvisabile la truffa ogni volta in cui gli artifizi o i raggiri siano posti in essere al fine di consentire all’agente di entrare in possesso della provvista in vista della successiva condotta appropriativa: (cfr. Cass., sez. 6, 22.1.2007, n. 11633, G.G.G., rv.
236146; Cass., sez. 1, 11.4.2006, n. 17320, rv. 234133; Cass., sez. 1, 14.10 2005, n. 46534, rv. 232968; Cass., sez. 6, 4.6.1997, Finocchi). Orbene proprio in applicazione di tali principi è possibile affermare che la condotta concretamente posta in essere dalla G. è definibile esclusivamente in termini di peculato.
Dalle sentenze di merito risulta che l’imputata si sia appropriata delle somme di denaro di cui aveva la disponibilità nella qualità di collaboratrice del curatore fallimentare: infatti, la G. accedeva ai conti correnti del fallimento in forza dell’autorizzazione rilasciata dal giudice delegato al curatore fallimentare, che l’imputata rappresentava di fatto, in virtù di un rapporto organico che le consentiva di agire in nome e per conto del curatore fallimentare; in tale qualità riceveva il denaro dalla banca e distribuiva le somme ai vari creditori, trattenendo per sè gli importi ulteriori, frutto della falsificazione. Ebbene in tale condotta la falsificazione non ha costituito l’artificio attraverso cui l’imputata ha avuto la disponibilità del denaro, che invece è stata acquisita per mezzo dell’autorizzazione che il giudice delegato le ha rilasciato in quanto alter ego o, comunque, coadiutrice di fatto del curatore fallimentare; l’appropriazione vi è stata nel momento in cui la G., aveva già la disponibilità delle somme versatele dalla banca, disponibilità che ha conseguito per mezzo dell’esibizione dell’autorizzazione del giudice delegato al curatore fallimentare da lei rappresentato, rimanendo irrilevante a questi fini la parziale falsificazione di tale documentazione. E’ evidente che si tratta di una condotta al limite tra le due fattispecie astratte, tuttavia deve escludersi che l’impossessamento del denaro sia diretta conseguenza dell’inganno, in quanto la falsa documentazione è servita soltanto a favorire il materiale trapasso delle somme in quantità maggiore a quella originariamente autorizzata, laddove la disponibilità del denaro è stata conseguita dall’imputata spendendo la sua qualità di rappresentante o coadiutrice del curatore fallimentare, ruolo accettato senza alcuna incertezza sui suoi poteri di fatto dagli organi del fallimento, ed esibendo l’autorizzazione al pagamento dei creditori.
In sostanza, è vero che in quanto rappresentante o coadiutrice del curatore fallimentare, al pari di quest’ultimo, la G. non aveva la disponibilità delle somme incassate nell’esercizio delle sue funzioni, tuttavia tale disponibilità (giuridica) veniva acquistata ogni qual volta riceveva materialmente dal giudice delegato l’autorizzazione ad effettuare i pagamenti ai vari creditori. Di conseguenza, l’imputata, rappresentante a tutti gli effetti o semplice coadiutrice del curatore fallimentare, e quindi, per le ragioni già esposte, organo dell’ufficio fallimentare e pubblico ufficiale, si è appropriata del denaro di cui ha avuto la disponibilità in forza del provvedimento giudiziario di autorizzazione al pagamento dei creditori, ponendo in essere il reato di peculato.
Su questa stessa linea interpretativa si colloca, peraltro, la seconda sezione della Suprema Corte che con la sentenza n. 3327 pronunciata in data 8.1.2010, annullava con rinvio ad altra sezione della stessa corte di appello per un nuovo giudizio, la sentenza con cui la corte di appello di Milano, in data 25.10.2007, aveva riformato la sentenza di condanna pronunciata in sede di giudizio abbreviato dal g.i.p. presso il tribunale di Milano nei confronti della G. ritenendo che l’indebita appropriazione di somme di denaro dal conto corrente di un altro fallimento affidato alle sue cure in qualità di curatore fallimentare andasse qualificata come truffa e non come peculato, stabilendo che, invece, la condotta dell’imputata andava ricondotta al paradigma normativo dell’art. 314 c.p..
In tale ultimo arresto, infatti, i giudici di legittimità affermano che "integra il delitto di peculato – e non quello di truffa aggravata – la condotta del curatore fallimentare che si appropria del denaro di cui abbia avuto la preventiva disponibilità in forza del provvedimento giudiziario di autorizzazione al pagamento dei creditori, dovendosi ritenere irrilevante a tal fine la successiva, parziale, falsificazione degli importi delle somme oggetto delle originarie autorizzazioni al prelievo da parte del giudice: rafforza siffatta conclusione il rilievo – civilistico – che la dichiarazione di fallimento determina un pignoramento generale del patrimonio del fallito e ne attribuisce l’amministrazione al curatore, che la svolge mediante atti dispositivi rispetto ai quali l’autorizzazione del giudice delegato si configura come mero atto integrativo dell’efficacia".
Vero è che in altra, isolata sentenza, non riguardante la G., il Supremo Collegio sembra giungere ad una conclusione diversa, affermando che "commette il reato di truffa aggravata ex art. 61 c.p., n. 9, e non quello di peculato, il curatore fallimentare che attraverso l’utilizzazione fraudolenta di mandati di pagamento falsificati e in apparenza provenienti dall’ufficio del giudice delegato al fallimento si appropri di somme di denaro di pertinenza della procedura fallimentare. Infatti, il curatore non ha nè la disponibilità materiale, nè quella giuridica di tali somme, in quanto per conseguirla necessita di apposito provvedimento di autorizzazione del giudice delegato (cfr. L. Fall., art. 34), onde la falsificazione dei mandati costituisce proprio lo strumento fraudolento mediante il quale si ottiene l’impossessamento del denaro" (cfr. Cass., sez. 6, 4.11.2009, n. 5447, G.O. e altro).
Si tratta, tuttavia, di un contrasto solo apparente ed anzi tale decisione rafforza ulteriormente la tesi che si sostiene. Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, infatti, gli imputati (il curatore fallimentare ed il marito) avevano provveduto a falsificare integralmente i mandati di pagamento, che risultavano abusivamente compilati e falsificati con l’apposizione delle firme apocrife del giudice delegato e del dirigente della sezione fallimentare del tribunale di Perugia, nonchè del sigillo autentico di tale ufficio per cui il curatore fallimentare non aveva mai avuto la disponibilità delle somme di denaro di pertinenza della procedura fallimentare, di cui poteva appropriarsi solo grazie alla falsificazione dei mandati; nel caso della G., invece, come si è più volte evidenziato, la falsificazione è successiva al momento in cui quest’ultima, in qualità di rappresentante o coadiutrice di fatto del curatore fallimentare, aveva ottenuto la disponibilità delle somme del conto corrente, sia pure limitatamente alle somme oggetto di autorizzazione, il cui importo veniva semplicemente incrementato e stornato, in misura corrispondente all’aumento, in favore dei terzi estranei alla procedura fallimentare, operazione che non avrebbe potuto essere effettuata nel modo con cui è stata portata a termine (meno rischioso per la G. proprio perchè poteva giovarsi di mandati di pagamento e di richieste di emissione di assegni circolari originariamente autentici) se l’imputata non avesse ottenuta, grazie ai provvedimenti autorizzativi del giudice delegato, la disponibilità delle somme di denaro depositate sul conto corrente intestato al fallimento "Arcade". Anche sotto questo ulteriore profilo, dunque, le censure della ricorrente non possono condividersi, risultando del tutto superfluo, infine, affrontare l’ulteriore tema dell’applicabilità o meno dell’art. 48 c.p., essendosi esaurientemente dimostrato come la responsabilità della G. per il delitto di cui all’art. 314 c.p., abbia un suo solido fondamento senza che ci sia bisogno di ricorrere all’istituto dell’errore determinato dall’altrui inganno previsto dal citato art. 48 c.p..
Non può, in conclusione, non rilevarsi che le censure prospettate dalla ricorrente debbano ritenersi manifestamente infondate, trovando adeguata risposta in consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità e della dottrina, sui quali, peraltro, la Suprema Corte si era ripetutamente soffermata nell’ambito degli altri due procedimenti sorti a carico della G. e che, pertanto, non potevano non essere noti alla ricorrente.
Allo stesso tempo tali censure hanno costituito argomenti già sollevati innanzi alla corte territoriale, che sono stati disattesi da quest’ultima con motivazione approfondita e immune da vizi o da evidenti errori di applicazione delle regole della logica ovvero da incongruenze che vanifichino o rendano manifestamente incongrua la motivazione adottata, risolvendosi in una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preclusa in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. 1, 28.12.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507). Ne consegue che il ricorso proposto nell’interesse di G.C. va dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3, con condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento, nonchè in favore della cassa delle ammende di una somma a titolo di sanzione pecuniaria, che appare equo fissare in Euro 1000,00, tenuto conto della complessità delle questioni di diritto prospettate, che, tuttavia, come si è detto, da tempo avevano trovato adeguata risposta ad opera della giurisprudenza di legittimità, circostanza facilmente verificabile dal difensore della ricorrente, che, quindi, non può ritenersi immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr.
Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di rito.
Così deciso in Roma, il 13 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012
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