Cass. civ. Sez. I, Sent., 17-07-2012, n. 12214 Dichiarazione di fallimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza depositata il 3 giugno 2009, il Tribunale di Torre Annunziata dichiarò il fallimento della ditta individuale D. E., accogliendo i ricorsi presentati il 18 marzo 2009 dalla XXX Veicoli industriali s.r.l., e il 20 marzo 2009 da altri creditori. Contro questa sentenza la signora D. presentò reclamo alla Corte d’appello di Napoli. Il curatore del fallimento e la XXX Veicoli industriali resistettero al reclamo.
2. Con sentenza 29 gennaio 2010, la corte d’appello di Napoli ha respinto il reclamo. Esaminando le singole doglianze della reclamante, la corte ha osservato che: – la mancanza di motivazione della sentenza impugnata non comporta altra conseguenza che l’obbligo del giudice del reclamo di riesaminare le questioni che la parte reclamante sostiene decise ingiustamente in suo sfavore, e di motivare adeguatamente e logicamente la decisione; – nel giudizio di primo grado il ricorso con il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza per la data del 26 maggio 2009, con termine di sette giorni prima dell’udienza per il deposito di memorie, era stato notificato il 18 maggio 2009, ed essendosi all’udienza presentata la de-bitrice per far valere il mancato rispetto del termine di quindici giorni prescritto dalla L. Fall., art. 15 cpv., l’udienza era stata rinviata al 3 giugno, data nella quale la debitrice aveva depositato, senza obiezioni delle altre parti o del giudice, una memoria difensiva e alcuni documenti, senza rappresentare alcuna specifica esigenza difensiva a sostegno della sua richiesta di differimento del procedimento ad altra udienza nel rispetto dei termini di cui alla L. Fall., art. 15, commi 3 e 4; – di conseguenza la parte aveva avuto quindici giorni liberi per preparare le difese e depositare memorie difensive, documenti e relazioni tecniche; – nel giudizio di reclamo la parte non aveva prodotto documenti diversi da quelli già prodotti in primo grado, e in ogni caso la violazione denunciata, che si sarebbe consumata nel giudizio di primo grado, non avrebbe comportato la rimessione della causa al primo giudice, non rientrando tra i casi tassativamente previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., applicabili per analogia anche al reclamo di cui alla L. Fall., art. 18;
l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’acquirente dell’azienda, nel giudizio di primo grado per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore cedente non è prescritta da alcuna norma; – il termine annuale per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore cessato non era stato superato, giacchè l’atto pubblico di vendita era stato registrato il 3 giugno 2008, e inoltre il termine in questione non decorreva dalla data della cessazione dell’attività ma dalla cancellazione dell’imprenditore dal registro delle imprese, avvenuta il 5 dicembre 2008, senza possibilità per l’imprenditore di dimostrare che l’effettiva cessazione dell’attività fosse anteriore; – dai documenti prodotti dalla stessa parte, fin dal giudizio di primo grado, e specificamente dalle dichiarazioni dei redditi per gli anni 2006 e 2007 risultava che i ricavi lordi erano stati di ammontare complessivo di gran lunga superiore a Euro 200.000,00.
3. Per la cassazione di questa sentenza, non notificata, ricorre la signora D., con atto notificato il 2-3 marzo 2009, per quattro motivi, illustrati anche con memoria.
Le parti intimate non hanno svolto difese.

Motivi della decisione

4. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione della L. Fall., artt. 16 e 18, e dell’art. 111 Cost..
Censura la decisione della corte d’appello, nella parte in cui afferma che la decisione resa in sede di reclamo si sostituisce a quella di primo grado, anche nella motivazione, assorbendo ogni questione di legittimità in punto di motivazione del provvedimento oggetto del reclamo. Sostiene che il reclamo, pur avendo un effetto devolutivo pieno, non può ritenersi complementare all’accertamento svolto in primo grado sino al punto di consentire la sostituzione o la sovrapposizione della sentenza resa in quella sede, anche perchè in tal modo la parte che impugna per carenze motivazionali il provvedimento sarebbe privato di un grado di giudizio, dovendo attendere l’integrazione della motivazione in sede di reclamo.
5. Il motivo è infondato. Il principio affermato dalla corte di merito, e che l’art. 354 c.p.c., comma 1, enuncia con riferimento all’appello, non è che l’espressione dello stesso principio devolutivo, per il quale il giudice del gravame è investito del merito della causa, e – fatta eccezione per i casi in cui è diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge – non limita il suo giudizio alla fase rescindente, ma sostituisce la sua decisione a quella del primo giudice. Questo principio deve, a maggior ragione, trovare applicazione nel caso del reclamo, che ancor meno può essere considerato un giudizio di mera legittimità del provvedimento impugnato, essendo invece di regola ritenuto una prosecuzione, davanti ad altro giudice, dello stesso giudizio (è significativo, per l’effetto devolutivo relativamente maggiore del reclamo, il confronto tra la L. Fall., art. 18, comma 2, n. 3, e la specificita dei motivi prescritta dall’art. 342 c.p.c.), pur con i limiti derivanti dalla disciplina dettata dalla L. Fall., art. 18.
Nè il sacrificio di un grado del giudizio di merito, nel caso di nullità del provvedimento di primo grado, è argomento dirimente, essendo ben noto che il doppio grado di merito del giudizio non ha protezione costituzionale.
6. Il principio di diritto, in applicazione del quale il motivo deve essere respinto, è che nel giudizio di reclamo, disciplinato dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 18 e succ. mod., l’applicabilità del principio devolutivo comporta che, qualora il provvedimento impugnato sia privo di motivazione, la corte d’appello non rimette le parti davanti al primo giudice per un nuovo giudizio, ma decide nel merito, esponendo le ragioni del suo convincimento.
7. Con il secondo motivo si denuncia la violazione della L. Fall., art. 15, con particolare riferimento alla prescrizione contenuta nel suo quarto comma, per cui con il decreto di convocazione delle parti deve essere stabilito un termine non inferiore a sette giorni prima dell’udienza per la presentazione di memoria e il deposito di documenti e relazioni tecniche. Il decreto, con il quale era stata stabilita la convocazione per l’udienza del 26 maggio 2009 ed era stato dato termine di sette giorni prima dell’udienza per il deposito di memorie e documenti, era stato notificato il 18 maggio, e quindi in violazione della norma per la quale tra la data della notifica e quella dell’udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni (L. Fall., art. 15, comma 3). Il rinvio alla data del 3 giugno 2009r disposto all’udienza del 26 maggio, rispettava il termine della L. Fall., art. 15, comma 3, ma non quello minimo indicato nel comma 4, di almeno sette giorni liberi prima dell’udienza per il deposito di memorie e documenti. Secondo la ricorrente, s’era in tal modo verificata la materiale impossibilità di procedere al deposito di memorie, documenti e relazioni tecniche con congruo anticipo rispetto al termine fissato per la comparizione delle parti, in modo tale da consentire il pieno esercizio del diritto di difesa e da favorire la pienezza del contraddittorio.
8. Il motivo è infondato. Va premesso che il rinvio dell’udienza aveva adempiuto la prescrizione che tra la data della notificazione del decreto e quella della convocazione intercorresse il termine di quindici giorni. Va premesso altresì – quantunque il punto non sia decisivo – che il termine minimo per il deposito di memorie, documenti e relazioni tecniche, stabilito dall’art. 15, comma 4 è di sette giorni prima dell’udienza, e in mancanza di altre indicazioni deve escludersi che si tratti di sette giorni liberi, dovendo escludersi dal computo il giorno dell’udienza (termine iniziale del computo a ritroso) ed includersi il settimo giorno, utile per l’esercizio della facoltà (per il modo di computare i termini a ritroso v. Cass. 30 aprile 2012 n. 6601). Peraltro, il termine di sette giorni calcolati a ritroso dall’udienza è posto a tutela del diritto di difesa dell’altra parte, per consentirle di prendere visione degli scritti difensivi e del materiale documentario depositato e preparare la difesa prima dell’udienza, e non della parte che intende avvalersi della facoltà di depositare memorie e documenti. Questa, laddove per la ristrettezza dell’intervallo tra notifica del decreto e udienza di convocazione si verifichi l’impossibilità di depositare memorie e documenti nel rispetto del termine, ha certo diritto di dolersene, e di farsi autorizzare a depositarli fuori termine, o di depositarli direttamente – come è avvenuto nel caso oggi sottoposto alla decisione della corte – lasciando all’altra parte di rivendicare il diritto ad un congruo termine per esaminarli, e al giudice di provvedere a tutela del diritto di difesa di quella. Quando ciò accada, la parte che ha potuto depositare gli scritti e i documenti a sua difesa, anche in violazione del termine minimo di sette giorni posto a tutela dell’avversario, non ha alcuna ragione di doglianza, non avendo subito alcun sacrificio del suo diritto di difesa.
Decisiva, e assorbente nel presente giudizio, è peraltro la correttezza della decisione impugnata nella parte in cui osserva che la questione non può essere utilmente riproposta in sede di reclamo, stante l’effetto devolutivo di questo e la possibilità della parte di utilizzare davanti al secondo giudice le facoltà difensive pregiudicate – in tesi – nel primo giudizio. Nè è esatto che il giudizio di reclamo subirebbe delle limitazioni in relazione agli atti e ai documenti prodotti nel giudizio di primo grado, tenuto conto del modo ben diverso in cui, quanto alla produzione di documenti nuovi, dispone la L. Fall., art. 18, comma 2, n. 4, nel testo oggi vigente, rispetto all’art. 345 c.p.c., comma 3.
9. Pertanto al rigetto del motivo soccorre il richiamo del medesimo principio devolutivo, enunciato al precedente punto 6), nel senso che, nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, la violazione del diritto di difesa, che sia stata consumata nel giudizio di primo grado, è sanata dal regolare svolgimento del giudizio di reclamo, nel quale il debitore è ammesso a svolgere tutte le attività difensive che gli siano state impedite nel giudizio davanti al tribunale.
10. Con il terzo motivo si denuncia la violazione della L. Fall., art. 15, e art. 354 c.p.c.. Si sostiene che, nel procedimento per la dichiarazione dell’imprenditore individuale, e conseguentemente nell’eventuale giudizio di reclamo, il contraddittorio dovrebbe essere integrato nei confronti dell’acquirente al quale l’impresa sia stata trasferita prima dell’inizio del procedimento. I creditori istanti, si osserva, avevano avanzato pretese creditorie vantate nei confronti di un’impresa commerciale operante (la ditta "XXX Trasporti") azionando le procedure di legge non nei confronti della stessa, ma nei confronti della persona fisica che amministrava l’impresa all’epoca in cui furono contratte le obbligazioni, incuranti del fatto che questa avesse nel frattempo cessato la sua attività imprenditoriale. La ricorrente, infatti, aveva trasferito la piena proprietà dell’azienda a favore di altri con atto pubblico 3 giugno 2008, registrato il 17 giugno 2008 e trascritto presso la camera di commercio, mentre le istanze dei creditori erano state depositate nelle date 18 e 20 marzo 2008. A sostegno della sua tesi, la difesa della ricorrente richiama il caso della fusione per incorporazione, che si risolve in una vicenda evolutiva – modificativa dello stesso soggetto, che conserva la sua identità, pur in un nuovo assetto organizzativo. Il punto di diritto sul quale si sollecita la pronuncia della corte è così sintetizzato dalla stessa parte: se la L. Fall., art. 15, comma 2, nella parte in cui dispone che debba essere convocato "il debitore", indichi con tale accezione il soggetto che possiede la legale rappresentanza della ditta o società debitrice al momento delle deposito delle istanze per la dichiarazione di fallimento, ovvero se con tale termine debba ritenersi individuato il soggetto che legalmente rappresentava la ditta e/o la società debitrice all’epoca in cui questa contrasse i debiti evidenziati dai creditori istanti con le domande proposte L. Fall., ex art. 6.
11. Al fondamento del motivo di ricorso in esame vi è la supposizione che l’impresa commerciale individuale abbia una propria soggettività, distinta da quella di colui che svolge l’attività d’impresa, il quale, come avviene nelle società, e in genere nelle persone giuridiche, ne sarebbe il legale rappresentante. Di una tale soggettivizzazione non v’è traccia nell’ordinamento: l’impresa, che diversamente dall’imprenditore non è definita nel codice civile, non è altro che l’attività svolta dall’imprenditore, il quale riveste tale qualità se risponde ai requisiti indicati nell’art. 2082 c.c..
E’ dunque escluso che l’imprenditore individuale sia il rappresentante legale di un’impresa, vale a dire di un’entità distinta, che gli sopravviverebbe in caso di trasferimento ad altro soggetto. Oggetto del trasferimento non può essere propriamente l’attività del cedente, vale a dire un’esplicazione della sua stessa persona, ma solo l’azienda, vale a dire il complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa. Il trasferimento dell’azienda, d’altra parte, non libera il cedente dai suoi debiti, se non vi sia consenso dei creditori (art. 2560 c.c.), nè rileva qui la responsabilità dell’acquirente nei limiti indicati dall’art. 2560 cpv. c.c.. Ciò che conta è che l’imprenditore individuale, che abbia cessato la sua attività per qualsiasi motivo, e dunque anche per il trasferimento dell’azienda, resta obbligato per le obbligazioni contratte durante l’esercizio della sua attività. Egli dunque, e non altri, è il debitore, che la L. Fall., art. 15 cpv., impone di sentire prima della dichiarazione del suo fallimento, nè vi è ragione di sentire il suo successore nella titolarità dell’azienda, se contro di lui non siano state proposte istanze di fallimento: in ogni caso, le condizioni per la solvibilità di questi dovrebbero essere accertate – quando ciò sia richiesto – separatamente da quelle del precedente titolare dell’azienda.
12. La decisione della corte sul punto è pertanto immune da censure, dovendosi applicare il principio di diritto che, nel fallimento dell’imprenditore individuale, che abbia cessato la sua attività a seguito di cessione dell’azienda ad altro imprenditore individuale, il debitore che, a norma della L. Fall., art. 15, deve essere sentito in Camera di consiglio è solo l’imprenditore medesimo, e non anche il cessionario dell’azienda.
13. Con l’ultimo motivo di ricorso si denuncia la violazione o falsa applicazione della L. Fall., art. 10. Si sostiene che, essendo l’attività commerciale della ricorrente cessata il 3 giugno 2008, alla data del 3 giugno 2009 il termine annuale entro il quale la L. Fall., art. 10, consente la dichiarazione di fallimento era già spirato; e che non sarebbe rilevante, al fine di spostare in avanti il dies a quo di decorrenza del termine, la successiva data di cancellazione dell’impresa della ricorrente dal registro delle imprese, perchè in virtù della natura dichiarativa delle trascrizioni sul registro delle imprese il debitore sarebbe sempre ammesso a provare d’aver cessato di fatto l’attività in epoca anteriore al provvedimento di formale cancellazione.
14. Entrambi gli assunti sono privi di fondamento.
In relazione al primo punto è da osservare che, a norma dell’art. 2963 cpv. c.c., non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del termine, e il decorso del termine stesso si compie con lo spirare dell’ultimo istante del giorno finale. Ne deriva che nel caso di specie il termine di un anno dalla cessazione dell’attività commerciale, entro il quale – secondo l’impostazione difensiva in esame – la ricorrente poteva essere dichiarata fallita, cominciava a decorrere il primo giorno (4 giugno 2008) successivo al dies a quo (3 giugno 2008) che non è computato nel termine, e spirava all’ultimo istante dell’ultimo giorno corrispondente dell’anno successivo (3 giugno 2009).
In ordine al secondo punto – che è quello decisivo nel presente giudizio – è sufficiente ricordare che, a norma della L. Fall., art. 10, comma 1, gli imprenditori individuali possono essere dichiarati falliti entro un anno che decorre non già dalla cessazione dell’attività, bensì dalla cancellazione dal registro delle imprese. Nè giova all’imprenditore la natura dichiarativa della pubblicità del registro delle imprese, che tutela invece – secondo i principi ordinari della materia – i terzi. Il capoverso della citata disposizione – nel testo risultante dalla modifica apportata dal D.Lgs. 12 settembre 2007 n. 169, art. 2, comma 2, applicabile al caso in esame – fa salva, infatti, solo "per il creditore o per il pubblico ministero" (e non per l’imprenditore) la facoltà di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine annuale.
15. Il motivo pertanto deve essere respinto in applicazione del principio di diritto che il termine di un anno, entro il quale l’imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito, decorre dalla cancellazione dal registro delle imprese, senza possibilità per l’imprenditore medesimo di dimostrare il momento anteriore dell’effettiva cessazione dell’attività.
16. In conclusione il ricorso deve essere respinto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *