Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 07-06-2012) 16-07-2012, n. 28400 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Paola, con sentenza del 3/3/2011, resa a seguito di rito abbreviato, dichiarava S.C. colpevole del reato di cui all’art. 110 c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, art. 80, comma 2, perchè, in concorso con altra persona, coltivava canapa indiana su un terreno demaniale, in località (OMISSIS), della estensione di circa 3.500,00 mq., in cui vi erano 780 piante in fase di crescita, e lo condannava alla pena di anni 6 di reclusione ed Euro 20.400,00 di multa.

La Corte di Appello di Catanzaro, chiamata a pronunciarsi sull’appello interposto nell’interesse del prevenuto, con sentenza del 21/9/2011, in parziale riforma del decisum di prime cure, esclusa l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 1, ha ridotto la pena ad anni 3, mesi 5 di reclusione ed Euro 12.200,00 di multa, con sostituzione della interdizione perpetua dai pp.uu. con quella temporanea, per anni 5, con conferma nel resto.

Propone ricorso per cassazione la difesa dello S., con i seguenti motivi:

-vizio di motivazione in relazione alla concretizzazione del reato contestato e alla ascrivibilità di esso in capo all’imputato;

-errata valutazione delle emergenze istruttorie, in particolare delle risultanze delle analisi a cui è stato sottoposto un esiguo numero di piante, analisi esperite con l’applicazione di un metodo di indagine non indicato dall’esperto dell’ARPAL, all’uopo incaricato;

peraltro, mancanza di prova sulla attività di cessione a terzi della droga ricavata dalla piantagione.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile.

La sentenza è argomentata correttamente e logicamente e fornisce esaustivo riscontro ai motivi libellati con l’atto di appello.

La difesa dello S. eccepisce l’assoluta mancanza di prove in ordine alla attività di cessione di sostanza stupefacente attribuita al prevenuto, nonchè alla qualità delle piante, messe a dimora, visto che l’indagine di laboratorio è stata eseguita su solo tre esemplari di esse, non tenendo, peraltro, in alcuna considerazione le dichiarazioni rese dal prevenuto, in sede di interrogatorio di garanzia, sull’uso personale della sostanza sequestrata.

Inoltre, le conclusioni a cui è pervenuto l’esperto dell’ARPAL, incaricato di eseguire l’accertamento sulla identificazione della specie di appartenenza delle piante de quibus, non avrebbero potuto essere di supporto alla affermazione di colpevolezza del prevenuto, visto che in esse si legge che dette piante contengono i principi attivi della canapa indiana, senza, però, fornire indicazioni sul procedimento seguito per individuare il tetracannabinolo (THC), non consentendo, così, nè al giudice, nè alla difesa alcun controllo sulla correttezza del metodo di indagine applicato.

Dal vaglio di legittimità a cui è stata sottoposta la motivazione della impugnata sentenza, è rilevabile la manifesta infondatezza delle censure formulate, per i seguenti motivi, ampiamente evidenziati dal giudice di merito:

– in primis, l’imputato in sede di interrogatorio, nel corso della convalida dell’arresto, ha ammesso di avere realizzato la piantagione al fine di potere vendere la sostanza stupefacente ricavata e di avere la disponibilità degli impianti idraulici e di tutta la attrezzatura necessaria per la irrigazione dei terreni in questione;

– secondariamente, l’imputato fu sorpreso in flagranza mentre controllava lo sviluppo delle piante e procedeva alla cura delle stesse;

– di poi, le indagini tecniche di laboratorio descrivono in dettaglio i reperti, dando contezza del peso netto della sostanza per campione, della presenza di picco corrispondente al tetracannabinolo, principio attivo della cannabis, della quantità totale di THC presente nei campioni e del numero di dosi ricavabili, a nulla rilevando che la disamina non sia stata estesa a tutta la piantagione; peraltro, tutte le piante erano caratterizzate da omologhe connotazioni fattuali.

Va, altresì, evidenziato che lo S. ha scelto di essere giudicato con le forme del rito abbreviato, allo stato degli atti, sicchè è irrilevante e priva di pregio l’affermazione difensiva in ordine ad asserite lacune investigative per il mancato compimento di una più complessa consulenza tossicologica o di diverso accertamento tecnico.

Tenuto conto, poi, della sentenza del 13/6/2000, n. 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che lo S. abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, lo stesso, a norma dell’art. 616 c.p.p., deve, altresì, essere condannato al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 1.000,00.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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