Cass. civ. Sez. I, Sent., 19-07-2012, n. 12556 Adozione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- C.A. (detto T.), conveniva in giudizio nel 1996 C.R.A., M.E., Ca.

C., C.E., D.R. e A.F..

Esponeva che, con testamento pubblico del 3 giugno 1965, il fratello Ca.Ci. lo aveva nominato erede universale; a causa di gravi e invalidanti patologie, il testatore aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita (mori il (OMISSIS)) in stato di totale infermità e incapacità di intendere e di volere e, ciononostante, l’11 maggio 1994 aveva redatto un apparente testamento olografo, inficiato da vizio della volontà del suo autore nonchè falso nella firma, con il quale aveva revocato quello del 3 giugno 1965, istituito erede universale la moglie M.E. e disposto ingenti legati in favore del nipote C.R.A. (d’ora in poi R.A.), di Ca.Co. e A.F.; il 6 giugno 1994 aveva effettuato una consistente donazione in favore del medesimo nipote R.A. e il 23 giugno 1994 aveva venduto un appartamento a B.M., A.L. e N. S.; inoltre, benchè la cartella clinica presso il nosocomio di (OMISSIS), dove il paziente, ormai in stato terminale, era ricoverato dopo un ictus subito il (OMISSIS), riportasse una condizione di "emiplagia dx, afasia e disfagia", tanto che in data (OMISSIS) era giudicato "non trattabile", in quello stesso giorno Ca.Ci. avrebbe prestato, davanti al magistrato, il consenso all’adozione del nipote maggiorenne R.A.. Tanto premesso, C.A. chiedeva al Tribunale di Lucca di dichiarare la nullità del (o di annullare il) testamento dell’11 maggio 1994, la donazione del 6 giugno 1994 e l’atto di adozione del 20 dicembre 1994, con condanna alle restituzioni. I convenuti chiamavano in giudizio B.M., A.L. e N.S., quali terzi acquirenti dell’appartamento venduto nel giugno 1994.

Si costituivano in giudizio resistendo alle domande attoree R. A. ed M.E. (moglie di Ca.Ci.), i quali proponevano domande riconvenzionali (in via principale e subordinata), tra cui quella di revoca del testamento originario del 3 giugno 1965 in ragione della sopravvenienza del figlio adottivo, ai sensi dell’art. 687 c.c.; si costituivano anche D.R. (coniuge di R.A.) e i chiamati B.M., A. L. e N.S..

Il Tribunale di Lucca, con sentenza del 19 febbraio 2002, rigettava le domande attoree, ritenendo che l’atto di adozione, in difetto di reclamo del decreto adottivo, non fosse autonomamente impugnabile per vizio della volontà del dichiarante; accoglieva la riconvenzionale di revoca del testamento del 1965, compensava le spese di lite tra le parti, ma condannava l’attore a rifonderle alla D., moglie di R.A., in quanto estranea alle pretese giudiziali.

2.- C.A. proponeva appello, deducendo di essere legittimato sia ad impugnare il provvedimento di adozione per mancanza del consenso dell’adottante o per vizio della volontà derivante da sua incapacità naturale, sia a proporre le azioni di invalidità del testamento e della donazione per mancanza di consenso o incapacità di intendere e volere del donante; inoltre impugnava il capo di sentenza in cui il tribunale aveva accolto l’eccezione d’irritualità della richiesta declaratoria d’indegnità dei convenuti appellati a succedere a Ca.Ci..

Nel corso del giudizio di appello, l’appellante C.A. decedeva e il processo veniva proseguito dai suoi eredi: i figli C.C., C.D. e C.M. e la moglie C.T. ved. C.. Nel giudizio si costituivano R.A., M.E. e C.R.S., anche nella qualità di eredi di D.R..

La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 3 giugno 2005, rigettava l’appello e, in accoglimento dell’appello incidentale degli appellati, condannava gli eredi dell’appellante al rimborso delle spese processuali di primo grado, oltre a quelle del secondo grado in favore di R.A., C.R.S. ed M. E.. Secondo la corte di merito, la disciplina dell’adozione di persone maggiori di età, quale delineata dall’art. 291 c.c., e segg., escludeva che il provvedimento di adozione ("decreto motivato", poi "sentenza" a seguito della L. n. 149 del 2001) fosse impugnabile da soggetti diversi da quelli tassativamente indicati all’art. 313 c.c., comma 2, e comunque al di fuori dello schema di impugnazione previsto da detta norma. La Corte riteneva inoltre che, per effetto della revocazione del testamento pubblico del 3 giugno 1965, a causa della sopravvenienza del figlio adottivo, ai sensi dell’art. 687 c.c., comma 1, C.A. non era legittimato a proporre le domande di nullità e/o annullamento del testamento olografo dell’11 maggio 1994, della donazione e dell’atto di compravendita; che la domanda di declaratoria di indegnità di M.E. e R.A. a succedere a Ca.Ci.

era inammissibile in quanto proposta irritualmente in una memoria (depositata il 17 luglio 1997) non autorizzata dal giudice nè portata a conoscenza della controparte e comunque l’appellante e i suoi successori erano privi di interesse alla richiesta pronuncia di indegnità, poichè essi non avrebbero potuto mai assumere la qualità di eredi, subentrando infatti per rappresentazione il figlio di R.A. ( C.R.S.).

3.- C., D. e C.M., nella qualità di eredi di C.A., propongono ricorso per cassazione articolato in sei motivi.

Resistono con controricorso R.A. e C.R.S., nella qualità di eredi di D.R. ed M.E..

R.A. propone ricorso incidentale in proprio.

I ricorrenti hanno presentato un atto nel quale, premesso di avere appreso del decesso di A.F. e del trasferimento della proprietà di un suo immobile in favore di A.A. e A.B.E., da cui si desumeva l’avvenuta accettazione dell’eredità e quindi il loro status di eredi legittimi del primo, hanno esposto di avere notificato un atto "per integrazione del contraddittorio" nei loro confronti. Vi sono memorie illustrative dei controricorrenti.
Motivi della decisione

1.- Preliminarmente, i separati ricorsi, principale e incidentale, vanno riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2.- Il primo e il terzo motivo del ricorso principale vanno esaminati congiuntamente.

Il primo deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 296, 313 c.c. (nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla L. n. 149 del 2001) e art. 428 c.c., comma 1, avendo la sentenza impugnata sopravvalutato la natura giudiziale e sottovalutato la natura negoziale dell’istituto dell’adozione delle persone maggiori di età:

da ciò gli effetti contestati di escludere la impugnabilità del decreto di adozione in via autonoma da parte di terzi per mancanza o vizi del consenso e di ammettere l’impugnazione soltanto nelle forme e nei termini previsti dall’art. 313 c.c., con conseguente pregiudizio ai diritti soggettivi dei terzi (nella specie, a causa dell’effetto di revoca del testamento del 1965, ai sensi dell’art. 687 c.c.).

Il terzo motivo deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1421 e 428 c.c., in relazione al ravvisato difetto di legittimazione dell’attore, quale erede testamentario, ad impugnare l’adozione, dovendo invece quella legittimazione riconoscersi ai terzi portatori di un qualsiasi interesse patrimoniale o morale.

2.1.- Entrambi sono infondati.

Il testo originario dell’art. 313 c.c., è stato modificato ad opera della L. n. 184 del 1983, che ha previsto l’obbligo di motivazione del decreto di adozione di persone di maggiore età e, inserendovi un secondo comma, la reclamabilità alla corte d’appello da parte dell’adottante, dell’adottato e del p.m.. Successivamente, la L. n. 149 del 2001 ha previsto per l’adozione la forma della sentenza e la possibilità di proporre "impugnazione" alla corte d’appello da parte dei medesimi soggetti.

Autorevole dottrina ha visto nel riferimento al reclamo (e a maggior ragione poi all’impugnazione) una chiara espressione della intenzione del legislatore di non distinguere i vizi processuali da quelli sostanziali, con l’effetto che tutti i motivi di invalidità (sostanziale o processuale) dell’adozione non potrebbero che convertirsi in motivi di reclamo (o impugnazione), restando così superata l’affermazione, contenuta nella relazione al codice civile e comunque non vincolante per l’interprete, secondo la quale i motivi di invalidità sostanziale del rapporto di adozione potrebbero essere fatti valere in un giudizio ordinario di impugnazione negoziale.

Sulla stessa linea è la giurisprudenza di legittimità: "il decreto che pronunzia l’adozione di persone di maggiore età (art. 314 c.c.) è costitutivo dell’adozione, produce effetti direttamente incidenti sullo status dell’adottato ed è connotato dalla stabilità, comprovata dalla circostanza della previsione della sua revocabilità soltanto in casi tassativi e specifici (artt. 305-309 c.c.), in conseguenza di fatti sopravvenuti e con efficacia ex tunc; pertanto, poichè siffatto decreto ha natura di provvedimento decisorio e definitivo, i vizi sia processuali sia sostanziali che, eventualmente, lo inficiano e ne determinano la nullità si convertono in motivi di impugnazione e possono essere fatti valere esclusivamente con il mezzo di impugnazione previsto dall’ordinamento, con la conseguenza che la decadenza dall’impugnazione comporta che gli stessi, in applicazione del principio stabilito dall’art. 161 c.p.c., non possono essere più dedotti, neppure con la actio nullitatis" (v. Cass. n. 13171/2004).

I ricorrenti ripropongono la tesi secondo la quale il reclamo potrebbe ammettersi soltanto per i vizi processuali o per l’assenza dei presupposti di legge dell’adozione, mentre per quelli sostanziali (mancanza o vizi del consenso, incapacità legale o naturale, scopo illecito, ecc.) sarebbero esperibili le ordinarie azioni negoziali di nullità o annullamento. Nell’ambito di tale risalente orientamento interpretativo si colloca l’affermazione secondo cui "il consenso dell’adottante, previsto dall’art. 296 c.c. come necessario per far luogo all’adozione, pur non avendo natura contrattuale nè potendo essere considerato un atto unilaterale a contenuto patrimoniale, costituisce pur sempre un negozio di diritto familiare, soggetto a controllo di legittimità e di merito da parte dell’autorità giudiziaria, ma con una sua propria autonomia ed una sua funzione sul piano del diritto privato che conserva anche dopo il decreto di adozione di natura amministrativa, con la conseguenza che la sua impugnazione si configura come impugnazione del negozio e non come azione di nullità del procedimento" (v. Cass. n. 4461/1983;

quest’ultima sentenza è richiamata, in tempi più recenti, da Cass. n. 13062/2000, la quale ha ritenuto l’applicabilità, seppur nei limiti in cui sia compatibile, della disciplina generale concernente i vizi del consenso come causa di invalidità del negozio).

Quest’ultimo orientamento, nel nuovo contesto normativo, è ormai superato. Esso finisce per attribuire rilevanza anche esterna al consenso e per affermare la natura contrattuale dell’adozione, la quale va invece esclusa, poichè il consenso perde ogni autonomia e rilevanza esterna, diventando un presupposto interno o una conditio juris della pronuncia di adozione: se vi sono irregolarità, queste vizieranno gli atti successivi e la pronuncia finale, alla quale soltanto si dovrà fare riferimento. Inoltre, la valorizzazione della natura negoziale del consenso non potrebbe condurre di per sè ad ammettere una legittimazione diffusa (di chiunque vi abbia interesse) ad impugnare il negozio ovvero il provvedimento di adozione che lo presuppone, stante la tassatività dell’elencazione, contenuta nell’art. 313 c.c., comma 2, dei soggetti legittimati all’impugnazione (v. Cass. n. 5049/1987). In questa prospettiva, la presenza di vizi nell’espressione del consenso dell’adottante non potrebbe comunque essere fatta valere da soggetti diversi dalle parti del rapporto adottivo (v. art. 1441 c.c., comma 1). Analogo rilievo vale per l’ipotizzata incapacità naturale dell’adottante al momento della prestazione del consenso: infatti la mancanza di una espressa previsione normativa circa le persone legittimate a far valere la suddetta situazione invalidante, raffrontata alla dettagliata e specifica indicazione delle categorie di persone e congiunti legittimati a proporre le singole azioni dettata dal codice civile in materia di diritto di famiglia, esclude che possa trovare applicazione in materia la disposizione generale di cui all’art. 428 c.c., poichè tale norma, nel consentire l’esercizio dell’azione anche agli eredi e aventi causa, è volta a tutelare interessi essenzialmente patrimoniali, con la conseguenza che soggetto legittimato a proporre l’azione di impugnazione del consenso dell’adottante è soltanto lo stesso adottante, titolare della posizione soggettiva in contestazione, dovendo tale azione considerarsi esclusivamente personale e non trasmissibile, se non esercitata in vita dal detto titolare del rapporto adottivo (v. Cass. n. 4694/1992; sul carattere personalissimo del rapporto adottivo e sulla intrasmissibilità della legittimazione ad impugnare il provvedimento di adozione v. anche Cass. n. 2520/1975).

3.- Il secondo motivo deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 2700 c.c. e art. 221 c.p.c., poichè la corte d’appello non si sarebbe pronunciata sul motivo d’impugnazione con cui era stato censurato il capo della sentenza di primo grado che aveva ritenuto che, anche ammettendosi l’impugnabilità del consenso all’adozione, l’attore avrebbe dovuto proporre querela di falso avverso il verbale d’udienza del 20 dicembre 1994.

3.1.- Il motivo è inammissibile. La sentenza impugnata non ha omesso di pronunciare, ma ha implicitamente e correttamente ritenuto la questione assorbita, in conseguenza del confermato rigetto dell’impugnazione dell’atto di adozione.

4.- Il quarto motivo deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 180 c.p.c., comma 2, art. 170 c.p.c., comma 4 e art. 156 c.p.c., commi 1 e 2, per avere la corte fiorentina accolto l’eccezione di inammissibilità della domanda d’indegnità a succedere (degli eredi di Ca.Ci.) e per averla giudicata irrituale. Si sostiene l’erroneità di tale decisione, non comminando l’ordinamento alcuna specifica sanzione in caso di mancata autorizzazione del giudice al deposito di una memoria nella quale sia proposta una domanda nuova;

nè vi sarebbe stata violazione del contraddittorio, essendo stata rispettata la regola di cui all’art. 170 c.p.c., che prevede la comunicazione delle comparse mediante deposito in cancelleria.

4.1.- Il motivo è infondato.

Premesso che i giudici di merito hanno ritenuto che la domanda d’indegnità fosse stata proposta per la prima volta all’udienza di precisazione delle conclusioni, essendo stata prima introdotta in una memoria non autorizzata dal giudice all’udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c., comma 2, è decisivo il rilievo che la predetta domanda d’indegnità avrebbe potuto e dovuto essere proposta nell’atto di citazione (notificato nel luglio 1996), cioè quando si erano già verificate le circostanze di fatto rivelatrici, in tesi, dell’indegnità, che avevano indotto C.A. a intraprendere l’azione giudiziaria. Non può quindi ritenersi, come esattamente rilevato dai controricorrenti, che tale domanda fosse proponibile nel corso del giudizio di primo grado, in quanto consequenziale alla domanda riconvenzionale proposta dai convenuti (e accolta) di revocazione del testamento del 1965 per sopravvenienza del figlio (art. 687 c.c.), tanto più che, anche in tal caso, tale domanda avrebbe dovuto essere proposta all’udienza di trattazione o, al più tardi, nella memoria autorizzata ex art. 183 c.p.c., u.c., termine ultimo per il rituale esercizio dello jus poenitendi, e non lo è stata. La motivazione in diritto resa dalla sentenza impugnata dev’essere pertanto corretta in questi termini, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

5. Il quinto motivo deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 463 c.c. e art. 100 c.p.c. e vizio di motivazione, per avere i giudici di merito negato l’interesse dell’attore, fratello del de cuius, a chiedere l’esclusione dalla successione come indegni di M.E. e R.A., sul presupposto che nella chiamata all’eredità sarebbe comunque subentrato per rappresentazione il figlio di quest’ultimo. I ricorrenti giustificano l’interesse (di C.A.) all’azione dichiarativa dell’indegnità ex art. 463 c.c., per l’ipotesi che il rappresentante ( R.C.S.) a propria volta non voglia o non possa accettare l’eredità.

5.1.- Il motivo è assorbito, in conseguenza del rigetto del motivo precedente, concernente la medesima domanda.

6. Il sesto motivo deduce vizio di motivazione, per avere la corte di merito omesso di pronunciarsi sull’atto di appello con cui le era stato chiesto di riesaminare la statuizione di primo grado che aveva escluso, in costanza di adozione, la legittimazione ad impugnare il testamento dell’11 maggio 1994 e la donazione del 6 giugno 1994, in violazione dell’art. 591 c.c., comma 2, n. 3, e art. 3 c.c., artt. 606 e 624 c.c., che attribuiscono la legittimazione all’impugnativa a chiunque vi abbia interesse; inoltre, l’interesse a fare accertare l’apocrifia del testamento sussisterebbe quand’anche l’atto adottivo non sia impugnabile in via autonoma.

6.1.- Sorvolando sul profilo d’inammissibilità insito nell’impropria sovrapposizione, nell’ambito della medesima censura, di un vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) e di un error in procedendo, qual è quello di omessa pronuncia (art. 360, n. 4, in relazione all’art. 112 c.p.c.), il motivo è inammissibile nella parte in cui deduce un’omissione di pronuncia in realtà insussistente. Infatti, poichè per effetto della revocazione del testamento del 1965 ex art. 687 c.c., a causa della sopravvenienza del figlio adottivo di Ca.

C., C.A. aveva perduto la qualità di erede testamentario, la corte di merito ha implicitamente escluso l’esistenza di un suo interesse ad impugnare il testamento olografo del 1994, non potendo egli ricevere dall’azione un concreto vantaggio (analogamente, nel caso in cui l’eredità sia destinata ad eredi di grado poziore, v. Cass. n. 12291/1998). Vale il principio secondo cui, laddove la legittimazione all’azione di nullità o di annullamento sia estesa a chiunque vi abbia interesse, l’attore deve pur sempre dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse ad agire secondo le norme generali e con riferimento all’art. 100 c.p.c., non potendo l’azione essere proposta per far valere un fine generale di attuazione della legge (v., tra le tante, Cass. n. 338/2001). Analogamente, un eventuale annullamento della donazione farebbe ripristinare il patrimonio del de cuius, con un vantaggio concreto in capo ai soli successibili.

1.- Nel ricorso incidentale R.A. imputa alla corte di merito di avere liquidato, in suo favore, le spese processuali relative all’attività processuale svolta soltanto nella sua qualità di erede di D.R. e non quelle relative alla più onerosa attività svolta per la sua difesa in proprio.

7.1.- Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata, avendo liquidato unitariamente le spese del secondo grado in favore di R.A., è conforme a diritto, trattandosi di attività difensiva unica, sebbene svolta in una duplice veste.

8.- In conclusione, entrambi i ricorsi vanno rigettati. Sussistono giusti motivi per compensare parzialmente le spese processuali, anche in considerazione della soccombenza reciproca, ponendo a carico dei ricorrenti, la cui soccombenza è prevalente, il pagamento dei due terzi delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa per un terzo le spese del giudizio di cassazione e condanna i ricorrenti, in solido, a pagare gli altri due terzi, che liquida, nella percentuale così indicata, in Euro 3.000,00 per onorari e Euro 150,00 per esborsi.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 2 luglio 2012.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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