Cass. civ. Sez. I, Sent., 19-07-2012, n. 12549 Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza dell’8.1.2008 il Tribunale di Ragusa, ritenuta manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata da I.R. e I., dichiarava l’attrice XXX figlia naturale di Ia.Ro. e improponibile la domanda di risarcimento dalla stessa proposta.
La decisione, impugnata sotto il profilo dell’errata interpretazione del materiale probatorio acquisito (essenzialmente consistente in documenti provenienti dalla madre dell’appellata e dal fratello del defunto), della mancata articolazione di prova testimoniale e della disposta consulenza tecnica sul cadavere dello Ia., veniva confermata dalla Corte di Appello di Catania, che segnatamente rilevava come le indagini genetiche avessero un valore decisivo nei giudizi di filiazione, quelle svolte sul cadavere di Ia.Ro. avessero accertato la sua paternità rispetto all’istante con una percentuale di attendibilità superiore al 99,999%, le altre prove fornite dall’appellata avessero rappresentato ulteriore riscontro della fondatezza della domanda. Avverso la detta sentenza I.R., I.I.M.V., S.C., quali eredi di Ia.Ro., proponevano ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resisteva l’intimata con controricorso poi illustrato da memoria.
La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 25.6.2012.

Motivi della decisione

Con i tre motivi di impugnazione le ricorrenti hanno rispettivamente denunciato: 1) violazione dell’art. 269 c.c., in relazione agli artt. 118 e 116 c.p.c., con riferimento all’omessa valutazione di argomenti di prova che avrebbero deposto in senso contrario, e segnatamente della circostanza concernente l’avvenuta comunicazione dell’imminente maternità da parte della madre allo zio G., e non al presunto padre;
2) violazione dell’art. 269 c.c., comma 2, artt. 118 e 116 c.p.c., artt. 2, 13 e 30 Cost., per l’affermata esclusione della necessità di acquisire preventivamente il consenso dei congiunti per disporre del cadavere. Il diritto all’identità biologica sarebbe infatti riconosciuto e tutelato secondo i limiti fissati dal legislatore (art. 30 Cost., comma 3), mentre il principio affermato dal giudice delle leggi, secondo il quale l’ispezione sulla persona sarebbe subordinata al consenso dell’interessato (Corte Cost. n. 257 del 1996), a dire dei ricorrenti dovrebbe trovare applicazione anche nel caso di intervenuto decesso, essendo i prossimi congiunti legittimati ad esprimere il necessario consenso all’espletamento di accertamenti sulla salma dell’estinto;
3) vizio di motivazione in relazione alla manifestata adesione alle conclusioni del consulente tecnico. Il relativo giudizio sarebbe infatti viziato per l’omessa considerazione delle note critiche formulate al riguardo dal consulente tecnico di parte.
Il ricorso è infondato.
Per quanto concerne il primo motivo si osserva infatti che la Corte di Appello, dopo aver correttamente precisato che l’art. 269 c.c., nell’attuale formulazione "non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata la paternità naturale" e che, in conformità dei principi fissati da questa Corte di legittimità, non è configurabile alcuna gerarchia fra i diversi mezzi di prova (C. 07/14976, C. 06/6694, C. 05/12166), ha poi ritenuto: che la prova della paternità biologica fosse desumibile, innanzitutto, dall’esito della disposta consulenza tecnica; che gli altri dati probatori acquisiti (fra i quali ha specificamente indicato quello relativo al rapporto di I.G. con la madre dell’appellata) avrebbero dato "ulteriore riscontro alla fondatezza della domanda"; che sarebbero stati irrilevanti gli elementi prospettati in senso contrario dalle ricorrenti, segnatamente consistenti nel ritardo con cui era stata promossa l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, nella qualificazione della documentazione prodotta dall’originaria attrice, nell’assenza di prove testimoniali.
Si tratta dunque di valutazione di merito sufficientemente motivata con argomentazioni immuni da vizi logici, per di più sindacata in modo del tutto generico e soltanto sotto il profilo della non condivisione del relativo contenuto, nulla essendo stato infatti dedotto circa le ragioni per cui la detta conclusione sarebbe errata.
Ne discende, conseguentemente, l’inammissibilità della censura oggetto di esame.
E’ poi priva di pregio la doglianza rappresentata con il secondo motivo di impugnazione, con il quale le ricorrenti hanno denunciato l’erroneità della decisione, nella parte in cui era stata esclusa la necessità del consenso dei congiunti per l’espletamento di consulenza tecnica sul DNA di persona deceduta (nella specie Ia.
R.).
In particolare la decisione in questione sarebbe errata per il fatto che: a) non vi sarebbe alcuna graduatoria fra i due distinti valori rispettivamente afferenti "al diritto all’identità biologica" e "al diritto del cadavere" (p. 8 del ricorso); b) la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 696 c.p.c., nella parte in cui la norma non prevedeva che l’ispezione personale fosse subordinata al consenso dell’interessato (Corte Cost. 1996/257), e da ciò sarebbe desumibile l’imprescindibilità del consenso dei prossimi congiunti all’espletamento di analoghi accertamenti sulla salma dell’estinto; c) il diritto all’identità biologica sarebbe assicurato dall’art. 30 Cost. nei limiti prescritti dalla legge, sicchè non sarebbe legittima l’interpretazione estensiva data dalla Corte territoriale alla normativa vigente.
Ritiene il Collegio che le argomentazioni svolte sul punto dalle ricorrenti non possano comportare gli esiti auspicati, e ciò non soltanto per la genericità (quello sub a) e l’inconsistenza (quelli sub b e sub c) dei rilievi, che sarebbero comunque inidonei a determinare le conseguenze prospettate, ma, più semplicemente, per l’assorbente ragione che non è configurabile un diritto soggettivo dei prossimi congiunti sul corpo della persona deceduta, circostanza da cui discende l’insussistenza di un loro potere di disposizione su di esso.
Al riguardo va innanzitutto evidenziato che il legislatore non ha dettato alcuna disciplina in proposito, nè sembra che il preteso diritto "del cadavere" possa essere correttamente desunto dal disposto dell’art. 30 della Costituzione, nella parte in cui prescrive che la legge detta le norme ed i limiti per la ricerca della paternità (rilievo sub c), cui non sarebbe stato dato seguito.
La disciplina positiva risulta viceversa orientata verso il duplice obiettivo della difesa del corpo delle persone decedute da inutili e gratuiti interventi mutilatori e della legittimazione delle eventuali iniziative dell’autorità giudiziaria poste in essere per motivi di giustizia.
Ed invero il cadavere costituisce oggetto di espressa tutela nel vigente codice penale nell’apposito capo relativo ai delitti contro la pietà dei defunti (artt. 407 e 411 c.p.), che mirano per l’appunto a tutelarne il rispetto sotto diversi aspetti, e cioè in relazione all’integrità delle tombe ed alle cose destinate al relativo culto, allo svolgimento del funerale, ad eventuali atti di vilipendio, alla distruzione, soppressione, sottrazione, occultamento o uso illegittimo di cadavere, e quindi in fattispecie del tutto diverse rispetto a quella oggetto di giudizio.
Analogamente, il Regolamento di Polizia Mortuaria (D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285) prevede poi (art. 83) che le salme possono essere esumate prima del prescritto turno di rotazione per ordine dell’autorità giudiziaria, per indagini nell’interesse della giustizia (ovvero per trasportarle in altre sepolture o per cremarle previa autorizzazione del sindaco), così come alla medesima autorità è conferita la facoltà di disporre esumazioni straordinarie per identiche finalità, e pertanto con riferimento all’avvertita necessità di assicurare gli accertamenti indispensabili per motivi di giustizia.
In entrambi i casi contemplati dal citato Regolamento non è dunque richiesto il consenso dei familiari o degli eredi all’esumazione ed all’autopsia del cadavere del congiunto, consenso la cui necessità è anzi da ritenere implicitamente esclusa dall’interpretazione complessiva della normativa vigente sopra richiamata. D’altro canto in tal senso si è già esplicitamente espressa questa Corte (C. 71/392), che per l’appunto non ha riconosciuto alla volontà dei familiari del defunto una possibilità di disporre del cadavere per scopi diversi da quello della sua destinazione normale, consistente nel modo e nella forma del seppellimento.
Come dato ulteriormente rafforzativo della correttezza della sopra delineata conclusione non può infine essere sottaciuta la circostanza che la facoltà di agire in giudizio a tutela di un proprio diritto è costituzionalmente garantita (art. 24 Cost.), sicchè una interpretazione della normativa vigente orientata in senso restrittivo rispetto al relativo esercizio si porrebbe in contrasto con il dettato costituzionale. Ciò tanto più ove si consideri che la controversia in esame ha ad oggetto l’accertamento di un diritto fondamentale, attinente allo status dell’originaria attrice, e che comunque (come sopra già precisato) il consenso dei congiunti per accertamenti da eseguire sul cadavere per finalità di giustizia non è previsto da alcuna disposizione normativa, ed anzi la lettura complessiva della normativa vigente induce a conclusioni del tutto contrarie.
E’ da ultimo inammissibile il terzo motivo di impugnazione.
Ed invero in proposito si osserva che manca l’indicazione del fatto controverso prescritta dal disposto dell’art. 366 bis c.p.c., all’epoca vigente, non potendosi considerare tale l’omessa considerazione delle note critiche alla consulenza di parte.
Peraltro, contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti. le dette note non sono state ignorate dalla Corte di Appello, che piuttosto con statuizione non contestata le ha dichiarate inammissibili poichè "si tratta di una c.t.p. che contiene osservazioni alla c.t.u. non proposte in primo grado".
Sembra utile comunque evidenziare che la censura in questione sarebbe in ogni modo viziata sul piano dell’autosufficienza, essendo stata omessa l’indicazione sia del contenuto dei rilievi svolti dal consulente tecnico di parte, che delle ragioni per le quali le conclusioni formulate dal consulente tecnico di ufficio sarebbero errate.
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con condanna solidale delle ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido tra loro al pagamento di Euro 2.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 25 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012

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