Cass. civ. Sez. I, Sent., 19-07-2012, n. 12535 Farmacia Interpretazione del contratto Associazione in partecipazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – C. e L.M.M. convennero in giudizio la sorella L.M.V., chiedendo l’accertamento della durata trentennale del contratto di associazione in partecipazione stipulato con la stessa il 30 luglio 1984 ed avente ad oggetto la gestione di una farmacia, nonchè la dichiarazione d’illegittimità del recesso della sorella e dell’obbligo di quest’ultima di rendere il conto della gestione, con la condanna al pagamento degli utili loro dovuti ed al risarcimento dei danni.

1.1. – Con sentenza del 17 luglio 2003. il Tribunale di Termini Imerese accertò l’inesistenza della facoltà di recesso e l’obbligo della convenuta di rendere il conto della gestione per gli anni compresi tra il 1981 ed il 1995, condannando L.M.V. al pagamento delle somme dovute per gli anni compresi tra il 1990 ed il 1995, e rigettando la domanda di risarcimento dei danni.

2. – Sull’impugnazione di L.M.V., la Corte d’Appello di Palermo, con sentenza non definitiva del 10 dicembre 2008, ha confermato l’inesistenza del diritto di recesso ed il diritto dell’appellante allo stipendio di direttore di farmacia, rideterminando l’utile prodotto dalla farmacia per gli anni compresi tra il 1984 ed il 1995 e disponendo la prosecuzione dell’istruttoria per la definitiva liquidazione degl’importi dovuti agli appellati.

Premesso che, con scrittura contemporanea alla stipulazione del contratto, le parti avevano pattuito una durata trentennale dell’associazione in partecipazione, con obbligo di rinnovo per eguale periodo e così via di seguito, la Corte ha ritenuto che la contestuale previsione dell’efficacia vita natural durante del contratto, anche nei confronti degli eredi, non costituisse una chiara indicazione d’indeterminatezza della durata, ma una clausola di stile, volta a rafforzare il vincolo, sancendone l’obbligo di rinnovo.

Rilevato inoltre che il c.t.u. nominato in appello aveva calcolato gli utili netti distribuibili tra le parti sottraendo dall’utile lordo, determinato mediante l’esame del libro degl’inventari e delle dichiarazioni dei redditi rese anno per anno, lo stipendio spettante all’appellante in qualità di direttrice di farmacia secondo i contratti collettivi vigenti, ha ritenuto che, ai fini della determinazione dello stipendio, dovesse ipotizzarsi l’avvenuta prestazione dell’attività lavorativa per quaranta ore settimanali senza alcun turno aggiuntivo, non essendo stata fornita la prova dell’effettivo svolgimento di turni imposti dall’Autorità pubblica.

3. – Avverso la predetta sentenza L.M.V. propone ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. Resiste con controricorso C.S.L., in qualità di procuratore generale di C. e L.M.M., proponendo ricorso incidentale, articolato in due motivi, al quale la ricorrente resiste con controricorso.

Il controricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione

1. – Con i primi tre motivi del ricorso principale la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1362 cod. civ., nonchè la contraddittorietà e l’insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Sostiene infatti che, nella ricostruzione della comune intenzione delle parti, la Corte d’Appello ha omesso di valutare il comportamento successivo delle stesse, non avendo considerato da un lato che la scrittura sottoscritta contestualmente alla conclusione del contratto sarebbe risultata assolutamente superflua ove avesse ugualmente stabilito in trent’anni la durata del rapporto, dall’altro che con atto stragiudiziale di diffida del 25 luglio 1995 gli attori, nel denunciare l’inadempimento di essa ricorrente, avevano chiaramente attribuito alla scrittura un senso diverso da quello del contratto.

Aggiunge la ricorrente che l’accertamento della durata trentennale del rapporto mal si concilia con l’affermazione dell’obbligo di rinnovo del contratto per un eguale periodo alla scadenza, la quale comporterebbe comunque una perpetuazione del vincolo contrattuale, in contrasto con l’accertata determinatezza della sua durata.

1.1. – Le predette censure, da esaminarsi congiuntamente, in considerazione della comune attinenza all’interpretazione del contratto, sono infondate.

Nella ricostruzione degli accordi intercorsi tra le parti, la Corte d’Appello ha preso l’avvio proprio dall’esame della scrittura privata sottoscritta contestualmente alla stipulazione del contratto registrato, dando atto della contraddittorietà delle espressioni nella stessa utilizzate ai lini della determinazione della durata dell’associazione in partecipazione, ma dimostrando di poter superare le difficoltà interpretative rilevate attraverso il raffronto tra le diverse parti della relativa clausola; ha infatti escluso che le parti avessero voluto prevedere un rapporto a tempo indeterminato, conferendo prevalente rilievo al termine trentennale dalle stesse specificamente indicato, e riconducendo la generica previsione della durata vita natural durante del rapporto, rispetto ai contraenti ed ai loro eredi, all’intento delle parti di rafforzare il vincolo giuridico, desumibile anche dall’assunzione dell’obbligo di rinnovare il contratto alla scadenza. La coerenza logica di tale ragionamento non appare in alcun modo scalfita dall’obiezione della ricorrente, secondo cui l’attribuzione alla scrittura privata di una portata meramente confermativa delle condizioni stabilite dal contratto ne avrebbe reso superflua la stipulazione: il confronto tra l’art. 4 del contratto e l’art. 2 della scrittura privata, riportati testualmente nel ricorso, dimostra infatti che il secondo non si limitava a riprodurre il contenuto del primo, ma, nel ribadire la durata trentennale del rapporto, introduceva l’obbligo del rinnovo alla scadenza, non previsto dal contratto registrato.

Nessuna contraddizione è poi configurabile tra il riconoscimento di tale obbligo e l’esclusione della durata indeterminata del rapporto, non risultando che la rinnovazione dovesse aver luogo alle medesime condizioni stabilite dal contratto originario, ed essendo anzi fatta espressamente salva dalla clausola in esame la possibilità di diverse pattuizioni, evidentemente riguardanti la durata del nuovo rapporto.

Sotto un diverso profilo, l’iter argomentativo della sentenza impugnata appare pienamente conforme ai canoni ermeneutici dettati dall’art. 1362 c.c. e segg., i quali impongono di ricostruire la volontà contrattuale innanzitutto mediante l’individuazione del senso letterale delle espressioni usate e della comune intenzione delle parti, quale emerge dalla lettura complessiva del programma negoziale, ed attribuiscono una portata meramente sussidiaria agli altri criteri interpretativi, tra i quali il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, la cui utilizzazione è consentita soltanto ove il giudice di merito dimostri, con argomentazioni convincenti, l’impossibilità, e non già la mera difficoltà di pervenire, attraverso l’interpretazione letterale, alla conoscenza della comune intenzione dei contraenti (cfr. Cass., Sez. 5, 23 aprile 2010, n. 9786; Cass., Sez. 2, 20 agosto 2002, n. 12268; 18 aprile 2002, n. 56359). In quest’ottica, il grado di certezza ed univocità del risultato interpretativo conseguito dalla sentenza impugnata attraverso l’esame della scrittura privata può considerarsi sufficiente ad escludere la rilevanza della diffida successivamente intimata alla ricorrente, la quale, peraltro, integrando una condotta unilaterale ascrivibile ad una sola delle parti, non può essere tenuta in conto ai fini dell’interpretazione del contratto, dal momento che il comportamento successivo al quale attribuisce rilievo l’art. 1362 cit. comma 2 è soltanto quello di cui siano stati partecipi entrambi i contraenti, non potendo contribuire a fare chiarezza in ordine alla loro comune intenzione l’iniziativa assunta in via esclusiva da uno di essi, e quindi corrispondente ai suoi personali disegni (cfr. Cass., Sez. 3, 12 gennaio 2006, n. 415; 23 luglio 2004, n. 13839; Cass., Sez. 2, 13 settembre 2004, 18352).

2. – Prioritario, rispetto all’esame del quarto motivo del ricorso principale, è quello del primo motivo del ricorso incidentale, con cui il controricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2 del CCNL 20 gennaio 1979 e dell’art. 4 dei CCNL 21 ottobre 1982, 17 dicembre 1985. 10 luglio 1990 e 2 febbraio 1994 per i dipendenti delle farmacie private, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto alla ricorrente lo stipendio previsto per l’esercizio delle funzioni di direttore di farmacia, in contrasto con le predette disposizioni, le quali escludono la configurabilità di tale qualifica nel caso in cui, come nella specie, il titolare della farmacia sia farmacista.

2.1. – Si osserva al riguardo che la figura del direttore di farmacia, quale soggetto abilitato all’esercizio della professione di farmacista cui è affidata la responsabilità della vendita al pubblico dei medicinali e delle altre forme di medicamento, è prevista dal R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 378 (Testo unico delle leggi sanitarie) per l’ipotesi in cui il titolare della farmacia non sia a sua volta un farmacista iscritto nell’albo professionale, e quindi, al di fuori del caso in cui la farmacia appartenga ad un ente pubblico (art. 121), per l’ipotesi in cui il farmacista sia stato autorizzato all’esercizio di una succursale, ai fini della gestione della stessa (art. 120), ovvero per l’ipotesi di gestione provvisoria della farmacia da parte degli credi del titolare premorto che non siano a loro volta abilitati all’esercizio della professione (art. 369; L. 2 aprile 1968, n. 475, art. 12).

E’ a tali fattispecie che fanno riferimento i contratti collettivi invocati dal controricorrente per la definizione della qualifica di direttore di farmacia, dall’attribuzione della quale dipende anche il riconoscimento del corrispondente trattamento economico, che, in quanto previsto a favore di un dipendente della farmacia, operante in posizione di subordinazione rispetto al titolare, non può ovviamente essere accordato a quest’ultimo.

Senonchè, nel riconoscere alla ricorrente lo stipendio spettante ai direttori di farmacia secondo i contratti collettivi di lavoro vigenti, la sentenza impugnata non ha fatto riferimento alla disciplina legale e collettiva, ma alla volontà manifestata dalle parti, richiamando l’art. 2 della scrittura privata sottoscritta contestualmente al contratto, che prevedeva l’attribuzione di detto stipendio, rinviando ai contratti collettivi. La censura è pertanto inammissibile, non risultando pertinente alla ratio decidendi della sentenza impugnata, fondata sull’applicazione non già di una nor-ma di legge o di un contratto collettivo, ma di una clausola di un contratto individuale, la cui interpretazione, peraltro, costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo dell’inosservanza dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o dell’incongruenza o illogicità della motivazione, nella specie neppure dedotte (cfr. Cass., Sez. lav., 4 maggio 2009, n. 10232;

Cass., Sez. 3, 27 marzo 2007. n. 7500; Cass., Sez. 1, 22 febbraio 2007, n. 4178).

3. – Può quindi procedersi all’esame del quarto motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente lamenta l’omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini della determinazione dello stipendio a lei spettante in qualità di direttore di farmacia, ha ritenuto non provato lo svolgimento di turni aggiuntivi imposti dall’Autorità.

3.1. – La censura è infondata.

A fondamento della decisione, la Corte d’Appello ha osservato che in base agli elementi acquisiti non era possibile stabilire quali e quanti turni la farmacia avesse svolto, rilevando l’assenza di qualsiasi documento che ne fornisse la prova, e ritenendo non pertinente, in particolare, l’avvenuta produzione in giudizio di una ordinanza del Sindaco di (OMISSIS), la quale si riferiva all’anno 2003, e quindi ad un periodo successivo a quello che costituisce oggetto della controversia.

Sostiene invece la ricorrente che la prova in questione era stata fornita mediante la produzione di un decreto emesso il 9 dicembre 1978, con cui il Medico Provinciale di Palermo, nel disciplinare i turni delle farmacie situate nel Comune di (OMISSIS), vi aveva incluso anche quella da lei gestita; dovendo l’esercizio restare obbligatoriamente aperto nei giorni in cui era di turno, con almeno un lavoratore reperibile in farmacia, e non essendo risultato l’avvenuto pagamento di compensi a terzi dipendenti per i turni settimanali, nè alcuna spesa per sanzioni amministrative dipendenti da violazioni connesse con le turnazioni, si sarebbe dovuto concludere che era stata lei stessa ad assicurare, con la propria presenza, il funzionamento della farmacia nei predetti giorni, con la conseguente spettanza del relativo compenso.

Non risulta peraltro dedotto che il provvedimento in questione, trascritto integralmente nel ricorso per cassazione, fosse stato sottoposto all’esame della Corte d’Appello, essendosi la ricorrente limitata ad affermare che lo stesso, allegato alla relazione del consulente di parte depositata unitamente alla comparsa di costituzione in primo grado, era stato tenuto in conto dal c.t.u., senza però precisare se la relazione del consulente di parte fosse stata nuovamente depositata in appello. La produzione di documenti nel primo grado del giudizio non ne comporta infatti la definitiva acquisizione al processo, restando la parte interessata, che abbia sottoposto tali documenti all’esame del giudice di prime cure, libera di non avvalersene nel grado successivo del giudizio, con la conseguenza che, ove detti documenti forniscano la prova dei fatti costitutivi della domanda, e tali fatti siano controversi, il giudice di appello non può che trame le necessarie conclusioni in ordine al fondamento della domanda (cfr. Cass., Sez. lav., 15 gennaio 2004, n. 511; Cass., Sez. 3, 8 maggio 2003, n. 6987).

4. – E’ infine inammissibile, per difetto di autosufficienza, il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui il controricorrente denuncia la violazione degli artt. 184 e 345 cod. proc. civ., sostenendo che, ai fini della quantificazione dell’utile lordo della farmacia, la Corte d’Appello ha recepito i calcoli del c.t.u.

nominato nel corso del giudizio di secondo grado, il quale ha tenuto conto della documentazione tardivamente prodotta dalla ricorrente nel corso del giudizio di primo grado e dichiarata inammissibile per tale motivo dal Tribunale.

4.1. – Premesso che l’art. 345 c.p.c., comma 3, nell’escludere l’ammissibilità di nuove prove in grado di appello, ivi compresi i documenti, fa salva l’ipotesi in cui il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli in primo grado per causa ad essa non imputabile, si osserva che il controricorrente, nel contestare l’avvenuta ammissione dei documenti prodotti dalla ricorrente in appello, si è limitato a ribadire la tardività della loro produzione in primo grado, astenendosi dall’indicarne il contenuto e dal precisare le ragioni che hanno indotto la Corte d’Appello a riesaminare la valutazione compiuta dal Tribunale in ordine all’imputabilità del ritardo o ad affermare l’idoneità della prova a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi.

Tale articolazione della censura non risponde al requisito prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, applicabile anche al controricorso contenente un ricorso incidentale (cfr. Cass.. Sez. 3, 8 gennaio 2010, n. 76; 11 ottobre 2005, n. 19756), il quale esige che nell’atto siano riportati, in maniera specifica e puntuale, tutti gli elementi utili perchè il Giudice di legittimità possa avere una completa cognizione dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti, così da acquisire un quadro degli elementi fondamentali in cui si collocano la decisione censurata e le doglianze prospettate, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti del processo (cfr. Cass., Sez. lav., 5 febbraio 2009. n. 2831; 12 giugno 2008, n. 15808; Cass., Sez. 3, 24 luglio 2007, n. 16315).

5. – I ricorsi vanno pertanto entrambi rigettati, con la dichiarazione dell’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti, avuto riguardo alla reciproca soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale, e dichiara interamente compensate tra le parti le spese processuali.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 8 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012

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