Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 23-01-2013) 19-09-2013, n. 38702

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

B.M. è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Brescia per rispondere dei seguenti reati:
1) furto aggravato, in concorso con altri, di un’autovettura ; reato commesso in (OMISSIS);
2) tentato omicidio, commesso in concorso di più di cinque persone in danno di R.A., attuato utilizzando la XXX di cui al capo precedente per speronare l’autovettura SMART alla guida della quale si trovava la predetta R., con l’intento di simulare un comune sinistro stradale; agendo T.U. quale mandante, al fine di eludere i provvedimenti emanati dal Presidente del Tribunale di Brescia in data 5.6.2008 nella causa di separazione con la moglie R.A.; B.C., B. M., M.A. e M.L. per aver, nella preparazione del delitto, rubato la XXX di cui al capo precedente; B.M. per avere, insieme a persona non identificata, speronato con la XXX la SMART, scaraventandola fuori dalla sede stradale ad oltre cento metri dal punto d’urto con l’intento di cagionare la morte di R.A.; B. C., M.A. e M.L. per aver svolto compiti di appoggio e di copertura al B.M. durante le fasi del pedinamento della R., consentendo a B.M. di allontanarsi indisturbato dal luogo dell’esecuzione dopo l’urto e l’abbandono dell’autoveicolo rubato; B.A., B.F. detto (OMISSIS), B.F. detto (OMISSIS), Be.Co. e S.A. per aver collaborato alla predisposizione del fatto reato mediante appostamenti e pedinamenti della vittima, al fine di individuare il momento più propizio per compiere l’omicidio; con le aggravanti di aver commesso il fatto nei confronti del coniuge non legalmente separato di T.U., con premeditazione, avvalendosi di mezzo insidioso, per motivi abietti o futili, con la compartecipazione di un numero di persone superiore a cinque; reato commesso in (OMISSIS); con la recidiva reiterata per B.M..
Con sentenza in data 9.2.2011 il Tribunale di Brescia ha dichiarato l’imputato responsabile dei suddetti delitti uniti dal vincolo della continuazione – escluse per il tentato omicidio le aggravanti della premeditazione e del mezzo insidioso – e concesse le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti residue e alla recidiva lo ha condannato alla pena di anni 8 e mesi sei di reclusione.
A seguito dell’impugnazione del Procuratore generale, la Corte d’appello di Brescia con sentenza in data 2.12.2011, in parziale riforma della suddetta sentenza del Tribunale, riconosciuta sussistente la circostanza aggravante della premeditazione e reputate le attenuanti generiche subvalenti, limitatamente al reato di tentato omicidio, rispetto alle ritenute aggravanti, aumentava la pena inflitta a B.M. ad anni 12 e mesi due di reclusione.
La Corte d’appello, prendendo in esame l’appello dell’imputato, preliminarmente respingeva l’eccezione di inutilizzabilità delle conversazioni telefoniche captate in altro procedimento, pendente davanti all’autorità giudiziaria di Cremona, a carico anche di B.M. per il delitto di estorsione.
Il P.M. di Cremona in data 14.5.2008 aveva disposto l’intercettazione dell’utenza cellulare intestata a B.M. a mezzo di impianti della Questura di Cremona, motivando sia sull’insufficienza degli impianti installati nella Procura della Repubblica, sia sulle eccezionali ragioni di urgenza che non consentivano di ritardare l’intercettazione.
Successivamente il P.M. aveva ripetutamente chiesto al GIP del Tribunale di Cremona la proroga delle operazioni di intercettazione sulla suddetta utenza, e la difesa aveva eccepito che nè nelle richieste del P.M. nè nelle autorizzazioni del GIP vi fosse traccia del persistere delle esigenze di urgenza precedentemente esposte e neppure era stato specificato che le operazioni sarebbero proseguite in impianti esterni alla Procura della Repubblica.
La Corte territoriale respingeva l’eccezione ritenendo che il decreto di proroga incide esclusivamente sulla durata delle operazioni d’intercettazione e che solo quando risulti un’effettiva variazione dell’originaria situazione fattuale si rende in concreto necessario un ulteriore provvedimento del P.M. finalizzato al ripristino dell’ordinario modus operandi.
La Corte di merito, accertato che l’imputato era sicuramente a bordo dell’auto rubata che aveva tamponato la Smart guidata dalla parte lesa, circostanza questa alla fine non negata neppure dal B., affermava che dal complesso degli elementi raccolti si desumeva con chiarezza che il predetto aveva compiuto la suddetta azione con l’intento di uccidere R.A..
Non era revocabile in dubbio, alla stregua del contenuto delle conversazioni intercettate, che T.U. avesse dato incarico al B. e ai suoi compari di uccidere la moglie. Lo stesso compenso pattuito – 50.000 Euro – era incompatibile, tenuto conto delle non floride condizioni economiche del T., con l’intento di provocare qualche lesione o con il proposito di mettere in scena un’azione dimostrativa per spaventare la moglie.
Significativo era il fatto che dopo l’azione posta in essere dal B. e dai suoi amici il T., non essendo stato raggiunto lo scopo che perseguiva, fosse restio a dar corso al pagamento di quanto pattuito.
Il B. aveva insistito con i suoi complici perchè venisse compiuto il lavoro concordato con il T., e dopo il fatto, che non aveva comportato alcuna conseguenza fisica per la R., l’imputato aveva valutato con i suoi amici di andare a trovare il T. per concordare in quali termini si dovesse "finire il lavoro".
La stessa dinamica del tamponamento smentiva la riduttiva ricostruzione della difesa, perchè la Smart era stata violentemente urtata in curva con il preciso intento di scaraventarla fuori strada, in un punto in cui la strada era sopraelevata rispetto al piano di campagna ed era quindi facilmente prevedibile il rovinoso ribaltamento dell’auto.
La Corte distrettuale, sulla base della suddetta ricostruzione del fatto, riteneva infondata la richiesta di riconoscere all’imputato l’attenuante di cui all’art. 116 c.p., in quanto le prove raccolte avevano smentito la tesi del B. di essere stato solo intenzionato a compiere un’azione dimostrativa, senza alcuna volontà di uccidere R.A.. Riconosceva, infine, sussistente l’aggravante della premeditazione, in quanto vi era stata, quanto meno dall’inizio del giugno 2008, un’attività di osservazione e pedinamento della parte lesa posta in essere dalla compagine in cui era inserito l’imputato; il T. aveva dato incarico proprio al B. di uccidere la moglie, dandogli anche un anticipo sulla somma che si era impegnato a versargli ad incarico espletato;
dall’imputato e dai suoi complici era stato predisposto un piano articolato, attuato nella mattinata del (OMISSIS), prima con il furto dell’auto con la quale doveva essere inscenato il finto incidente, poi con l’attuazione dello stesso ad opera di più persone che si erano divise i compiti.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato che ne ha chiesto, con un primo motivo, l’annullamento eccependo l’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate in esecuzione dei decreti di proroga delle operazioni di intercettazione, in quanto gli stessi non contenevano alcuna motivazione nè sulla causa legittimante l’utilizzo di apparati di captazione esterni agli uffici della Procura della Repubblica, nè in ordine alle eccezionali ragioni di urgenza richieste dall’art. 268 c.p.p., comma 3 per l’esecuzione delle operazioni di intercettazione a mezzo di impianti non installati nella Procura della Repubblica.
In altro procedimento, pendente davanti all’autorità giudiziaria di Cremona, erano in corso nel maggio 2008 intercettazioni anche dell’utenza in uso a B.M. per una vicenda estorsiva che non ha alcuna attinenza con il fatto di cui al presente processo.
Inizialmente le ragioni di urgenza per effettuare le operazioni al di fuori delle installazioni della Procura della Repubblica di Cremona erano state giustificate con la necessità di registrare i commenti alla imminente esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Cremona.
Successivamente, in data 23.5.2008, 6.6.2008 e 24.6.2008, erano stati emessi decreti di proroga delle operazioni di intercettazione, senza alcun riferimento nè all’insufficienza o all’inidoneità degli impianti istallati nella Procura della Repubblica nè alle eccezionali ragioni di urgenza che costringevano ad utilizzare impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica.
Con un secondo motivo il ricorrente ha dedotto l’erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 43, 56, 575 e 116 c.p. e art. 192 c.p.p..
Dalle conversazioni intercettate risultava che l’imputato si rifiutava di eseguire il mandato di T.U., che perciò nel corso delle telefonate più volte lo aveva aspramente rimproverato.
Il B. in data 25.6.2008, in modo del tutto estemporaneo e senza alcun collegamento con l’attività precedente, aveva posto in essere un’azione dimostrativa, tamponando l’autovettura di R. A. senza procurare alla predetta alcuna lesione, al solo fine di indurre il T. a versargli almeno parte della somma che gli aveva promesso.
In effetti, nelle telefonate successive alla suddetta azione dimostrativa l’imputato aveva più volte richiesto il corrispettivo sostenendo che il "lavoro" era stato effettuato.
La conversazione intercettata il 17.6.2008 tra l’imputato e M. A. – nella quale secondo l’interpretazione dei giudici di merito l’imputato avrebbe chiesto al M., riferendosi alle sollecitazioni del T., se fosse capace l’indomani di ammazzare – non era affatto chiara, sia perchè alcune parole risultavano spezzate, sia perchè i due avevano immediatamente dopo proseguito parlando di una certa C..
Al più, poteva ipotizzarsi che l’imputato, compiendo la suddetta azione dimostrativa al fine di truffare il T., avesse accettato il rischio che, a seguito dell’urto, la R. avrebbe potuto riportare anche lesioni mortali; ma in tal caso non sarebbe ipotizzabile il tentato omicidio, in quanto il dolo eventuale è incompatibile con il delitto tentato.
In via subordinata, il ricorrente ha chiesto che la sentenza impugnata fosse annullata per il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 116 c.p., in quanto il B., per i motivi sopra indicati, era intenzionato a commettere un reato diverso e meno grave da quello voluto dai coimputati.
Con un terzo motivo il ricorrente ha dedotto l’erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 577 c.p.p., comma 1, n. 3.
Dal complesso delle prove raccolte era risultato che l’azione posta in essere il 25.6.2008 era da considerarsi estemporanea e del tutto avulsa dal precedente contesto, nè traeva origine da precedenti attività di appostamento o da precedenti contatti tra gli imputati.
Mancando una preparazione e programmazione del delitto nelle forme in cui si era verificato, che erano state decise quella stessa mattina, non poteva essere ritenuta sussistente l’aggravante della premeditazione.
Tra l’altro, essendo detta aggravante inerente all’intensità del dolo, per il disposto dell’art. 118 c.p. non poteva estendersi al B., se ritenuta sussistente nei confronti di altri compartecipi al delitto.
A seguito dell’annullamento della sentenza, quanto meno nella parte in cui era stata ritenuta nei confronti dell’imputato l’aggravante della premeditazione, doveva essere rivisitato in senso favorevole all’imputato il giudizio di comparazione tra attenuanti generiche e residue aggravanti.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono infondati.
Quanto al primo motivo, il ricorrente non contesta che nel procedimento pendente davanti all’autorità giudiziaria di Cremona fossero adeguatamente motivate dal Pubblico Ministero le ragioni (causa l’insufficienza degli impianti installati presso la Procura della Repubblica di Cremona e l’impossibilità assoluta, per l’urgenza, di rinviare l’intercettazione) per le quali era stato disposto che il compimento delle operazioni di intercettazione avvenisse mediante impianti in dotazione alla Polizia giudiziaria.
Si sostiene, però, che sarebbero nulli i decreti di proroga – e quindi inutilizzabili tutte le intercettazioni eseguite in forza dei predetti decreti – in quanto nè nelle richieste di proroga del P.M. nè nei decreti del GIP che avevano accordato le proroghe vi era alcuna motivazione sulla causa legittimante la prosecuzione dell’utilizzo di apparati di captazione esterni agli uffici della Procura della Repubblica.
La questione proposta dal ricorrente è stata da tempo risolta dalla giurisprudenza di questa Corte che, a sezioni unite, ha stabilito che, in tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, il decreto del giudice dell’indagine preliminare di proroga della durata delle operazioni non comporta, di per sè, il venir meno delle condizioni legittimanti il ricorso ad apparati diversi da quelli esistenti presso la Procura della Repubblica, e pertanto non è necessaria, neanche nelle ipotesi in cui l’attività di captazione sia effettuata mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, l’adozione, da parte del P.M., di un ulteriore provvedimento esecutivo delle operazioni medesime, che si limiterebbe solo a confermare quanto già precedentemente disposto in ordine alle modalità spazio-temporali dell’intercettazione e, in particolare, all’impiego di apparecchiature alternative (sentenza n. 42792/2001, Rv. 220094).
In successive sentenze di questa Corte si è aggiunto che i decreti di proroga delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni telefoniche (art. 267 c.p.p., comma 3), sono provvedimenti preordinati solo a differire nel tempo la durata delle intercettazioni in corso, mentre le modalità esecutive delle captazioni debbono rimanere quelle originarie; di conseguenza non è necessario riesporre le ragioni di indisponibilità della strumentazione esistente presso gli uffici della Procura che hanno legittimato il ricorso ad impianti esterni, ove non risulti in alcun modo nè sia dedotta una sopravvenuta disponibilità della strumentazione in uso alla Procura (V. Sez. 5 sentenza n. 23123 del 9.3.2004, Rv. 229187 e Sez. 2 sentenza n. 24194 del 16.3.2010, Rv.
247661).
Nel merito, sono chiari i passaggi, concatenati logicamente tra loro, attraverso i quali la Corte d’appello – sulla base di una certa interpretazione delle risultanze che non presenta alcun difetto sotto l’aspetto logico giuridico – ha ritenuto responsabile il ricorrente dei delitti sopra indicati.
Da intercettazioni telefoniche disposte in altro procedimento pendente davanti all’autorità giudiziaria di Cremona, nel quale il ricorrente era indiziato del delitto di estorsione, gli inquirenti sono venuti casualmente a conoscenza degli accordi tra B. M. e T.U. per eliminare la moglie di quest’ultimo.
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, il B., in esecuzione dei suddetti accordi, aveva prima studiato (con la collaborazione di complici) le abitudini di R.A., moglie del T., e poi approntato un piano che prevedeva la morte della predetta a seguito di un incidente stradale provocato dallo stesso B. alla guida di un’autovettura rubata.
Il giorno del fatto il suddetto piano era stato attuato dal ricorrente e dai suoi complici: la mattina avevano rubato una XXX con la quale doveva essere simulato un incidente con l’auto SMART della R.; il B., con un complice non identificato, aveva in effetti con la suddetta XXX violentemente tamponato in curva l’auto guidata dalla R., ma la stessa fortunosamente non aveva subito lesioni a causa dell’urto subito dalla sua auto; il B. e la persona che viaggiava con lui, subito dopo il simulato incidente, avevano abbandonato sul posto la XXX ed erano saliti a bordo dell’auto dei complici che, in attuazione del piano, li seguivano.
La Corte territoriale ha ritenuto sussistente nell’imputato l’animus necandi considerando il contenuto delle intercettazioni telefoniche;
lo scopo del T., che aveva solo interesse ad uccidere la moglie e non ad intimorirla o provocarle qualche lesione; l’entità del compenso pattuito con il T.; le modalità e la violenza del tamponamento che, per le condizioni dei luoghi, avrebbe potuto provocare la morte della R.; il comportamento del ricorrente dopo il fatto, e in particolare il suo proposito di "finire il lavoro".
A fronte della suddetta ricostruzione dei fatti, il ricorrente ha riproposto una diversa lettura delle risultanze processuali – peraltro già esaminata e respinta dalla Corte di merito con motivazione del tutto logica – secondo la quale l’imputato avrebbe solo posto in essere, in modo del tutto estemporaneo, un’azione dimostrativa al fine di indurre il T. a versargli una parte della somma pattuita, e in sostanza al fine di realizzare una truffa nei confronti del predetto T..
La diversa lettura delle risultanze da parte del ricorrente, rispetto a quella data dal Tribunale, non può però essere presa in considerazione in sede di legittimità, dove possono essere denunciati i vizi logico giuridici contenuti nel provvedimento impugnato, o anche il travisamento della prova su un punto decisivo, ma non può chiedersi a questa Corte di intervenire nell’interpretazione della prova.
Il sindacato di legittimità, infatti, secondo quanto dispone l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è circoscritto nei limiti della assoluta "mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato". Tale controllo di legittimità è diretto ad accertare che a base della pronuncia esista un concreto apprezzamento delle risultanze processuali e che la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da vizi logici, restando escluse da tale controllo non soltanto le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova e la scelta di quelli determinanti, ma anche le incongruenze logiche che non siano manifeste, ossia macroscopiche, eclatanti, assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate o con altri passaggi argomentativi utilizzati dai giudici. La verifica di legittimità riguarda cioè la sussistenza dei requisiti minimi di esistenza e di logicità della motivazione, essendo inibito dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo sul contenuto della decisione. Ne consegue che non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso sono fondati su una diversa prospettazione dei fatti addotta dai ricorrenti nè su altre spiegazioni fornite dalla difesa (o dall’accusa), per quanto plausibili e logicamente sostenibili (v. sez. 6, sentenza n. 1662 del 4.12.1995, rv. 204123).
Nei motivi di ricorso non è indicato alcun vizio logico o giuridico nell’apparato motivazione della sentenza impugnata, ed anche le ulteriori critiche alla sentenza impugnata – per non aver riconosciuto, in via subordinata, l’attenuante di cui all’art. 116 c.p. e per aver ritenuto sussistente l’aggravante della premeditazione – si basano sulla suddetta ricostruzione alternativa della vicenda che, per le ragioni sopra esposte, non può essere presa in considerazione da questa Corte.
Dovendosi accogliere la ricostruzione del fatto come operata dalla Corte di merito, poichè la motivazione della sentenza è risultata immune da vizi logico giuridici, è del tutto evidente che al ricorrente – autore materiale del tentato omicidio – non può essere riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 116 c.p.p; così come è evidente la sussistenza dell’aggravante della premeditazione, tenuto conto dell’incarico di compiere l’omicidio; dello studio delle abitudini della vittima; della predisposizione di un piano che prevedeva l’intervento di più persone, con suddivisione di compiti;
delle modalità di attuazione del piano; della fermezza con la quale l’imputato ha mantenuto per tutto il tempo (dal momento dell’incarico alla sua attuazione) il proposito di uccidere R.A.).
Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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