Cass. civ. Sez. II, Sent., 19-07-2012, n. 12488 Nullità

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Svolgimento del processo

Con sentenza dell’11 settembre 2002 il Tribunale di Roma, decidendo su tre cause riunite, dichiarò la nullità dell’atto di compravendita immobiliare stipulato in data 16 maggio 1991 da S.S. e F.P. con St.Gi. e del successivo contratto intercorso in data 8 novembre 1995 tra quest’ultimo e T.A., rigettando, tra l’altro, la domanda avanzata dal T. nei confronti di S. e F. diretta ad ottenere il trasferimento della proprietà dell’immobile in suo favore.

Interposto appello principale da parte del T. ed incidentale ad opera dello St., con sentenza n. 600 del 2 febbraio 2006 la Corte di appello di Roma confermò integralmente la decisione impugnata, dichiarando inammissibile il gravame principale e rigettando quello incidentale. Per quanto qui interessa, il giudice di secondo grado pronunciò l’inammissibilità dell’appello proposto da T.A. per difetto dello ius postulandi, rilevando la nullità procura alle liti rilasciata dalla parte, atteso che la firma di quest’ultima risultava autenticata da persona che era stata in precedenza cancellata dall’albo professionale degli avvocati;

aggiunse che era altresì irrilevante la circostanza che l’atto di appello fosse stato sottoscritto da altro difensore, regolarmente iscritto all’albo professionale, atteso che questi, intervenuto in udienza, aveva espressamente disconosciuto la propria firma.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 24 febbraio 2006, con atto notificato il 28 aprile 2006, ricorre T.A., affidandosi a due motivi.

Resistono con controricorso S.S. e F.P., mentre St.Gi. non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso censura la decisione impugnata per violazione del diritto costituzionale di difesa in giudizio, per non avere la Corte di appello riconosciuto che la parte aveva conferito la procura alle liti ad un soggetto professionalmente non abilitato per errore scusabile, sicchè essa avrebbe dovuto essere rimesso in termini al fine di evitare l’effetto della decadenza dall’impugnazione, aggiungendo che tale istanza era chiaramente evincibile nell’atto di costituzione del nuovo difensore, che aveva chiaramente espresso l’intenzione di far proprie tutte le doglianze espresse nel gravame irritualmente proposto.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha riconosciuto che l’istituto della rimessione in termini, come regolato dall’art. 184 bis cod. proc. civ., cioè in epoca precedente alla novella dell’art. 153 c.p.c., introdotta con la L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 153 cod. proc. civ., trova applicazione, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, anche alle situazioni esterne allo svolgimento del giudizio, tra le quali rientra la proposizione dell’impugnazione (Cass. n. 98 del 2011). L’applicabilità di questa disposizione nel processo richiede però, quale presupposto necessario ed indefettibile, l’istanza della parte interessata, corredata dall’allegazione delle ragioni in forza delle quali essa è incorsa nella decadenza per errore scusabile.

Ora, nel caso di specie, al di là ricorrenza di tale ultimo requisito, che dovrebbe invero escludersi per la ragione che l’abilitazione di un determinato soggetto all’esercizio della professione legale di avvocato costituisce un dato facilmente accertabile da chiunque mediante la consultazione dell’apposito albo professionale, deve rilevarsi che, per quanto risulta dagli atti di causa, la parte appellante, una volta appresa la circostanza che il proprio difensore non era professionalmente abilitato a difenderlo in giudizio, non ha mai avanzato al giudice di appello alcuna istanza di rimessione in termini. Tale circostanza, del resto, è ammessa dallo stesso ricorso, che, consapevole della sua mancanza, sostiene che essa doveva ritenersi implicitamente avanzata allorquando il nuovo difensore, "al momento di costituirsi in giudizio in luogo dei due difensori apparenti, espressamente manifestò l’intento di far proprie tutte le doglianze espresse nel gravame irritualmente proposto". Questo assunto difensivo è però privo di pregio, non potendosi ravvisare nell’adempimento indicato alcuna istanza di rimessione in termini per l’incorsa decadenza nel termine per impugnare, che non può all’evidenza ravvisarsi, nemmeno implicitamente, nel mero richiamo alle difese svolte e che comunque, per disposizione di legge, deve essere espressamente formulata.

Il secondo motivo denunzia vizio di motivazione, assumendo che il giudice a quo avrebbe dovuto considerare, ai fini della statuizione delle spese, le ragioni della decisione, e cioè il fatto che l’inammissibilità dell’appello non era ascrivibile ad un comportamento della parte, ma al fatto che essa era stata raggirata da un sedicente avvocato.

Il mezzo è infondato, avendo il giudice di appello applicato, ai fini della regolamentazione delle spese, il criterio legale della soccombenza posto dall’art. 91 cod. proc. Civ.; per giurisprudenza costante di questa Corte, inoltre, la valutazione da parte del giudice di merito in ordine alla sussistenza di giusti motivi ai fini della compensazione delle spese di lite rientra in una scelta discrezionale che, in quanto tale, se omessa, non è autonomamente censurabile in sede di legittimità, nemmeno sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. n. 7607 del 2006; Cass. S.U. n. 14989 del 2005).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio sostenute dai controricorrenti, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012
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