Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 23-01-2013) 20-05-2013, n. 21600 Lesioni colpose

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. L.M.P. veniva giudicata dal Tribunale di Cosenza responsabile dell’infortunio mortale occorso il (OMISSIS) al lavoratore F.M., in qualità di legale rappresentante della C.C. s.r.l. e quindi di datore del lavoro del medesimo, e condannata alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
Secondo la ricostruzione dell’accadimento operata nel giudizio di merito, il F.M. stava scaricando alcuni pannelli in ferro da un camion quando a causa della rottura delle imbracature e delle legature dei pannelli veniva travolto dai medesimi, riportando lesioni che ne cagionavano la morte. Alla L.M. veniva ascritto di aver causato il sinistro in definitiva omettendo di fornire adeguata informazione e formazione ai lavoratori in relazione all’operazione da compiersi ed altresì omettendo l’adozione del piano di sicurezza.
2. Avverso tale decisione proponeva appello l’imputata; impugnazione che la Corte di Appello di Catanzaro rigettava, confermando integralmente la sentenza impugnata. Il giudice di seconde cure riteneva accertato che il F.M. era stato travolto dai pannelli precipitati durante la manovra di scarico e che all’imputata, nella veste di datore di lavoro, doveva essere ascritta una serie di violazioni alla normativa prevenzionistica. A tal specifico riguardo, a fronte dei rilievi avanzati con l’atto di appello, la Corte distrettuale affermava che il giudice di prime cure aveva correttamente ritenuto che la responsabilità dell’imputata derivava dal suo essere legale rappresentante della ditta, non risultando dagli atti processuali alcuna valida delega delle funzioni ad altro soggetto, mentre la prova dell’esistenza di questa deve essere rigorosa.
3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l’imputata a mezzo del difensore di fiducia, avv. F.M..
3.1. Con un primo motivo deduce erronea applicazione della legge, in relazione all’art. 589 c.p., D.P.R. n. 547 del 1955, art. 27 Cost., perchè nel caso di specie la posizione di garanzia della L. M. sarebbe venuta meno per la presenza di una valida delega, consistita nell’integrale trasferimento di tutti i compiti di natura tecnica, mediante atto scritto ritualmente accettato (pg. 5 del ricorso).
2. Con un secondo motivo si deduce erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. e vizio motivazionale.
Si assume, infatti, che la sentenza impugnata non avrebbe svolto alcuna argomentazione in ordine alla efficienza causale della condotta enucleata come penalmente rilevante. L’assenza di formazione ed informazione e l’assenza di misure precauzionali vengono affermate senza esplorarne la incidenza causale rispetto all’evento verificatosi.
3. Con un terzo ed un quarto motivo si deduce erronea applicazione degli artt. 62 bis e 163 c.p. per aver negato le attenuanti generiche, senza prendere in considerazione la giovane età dell’imputata ed il contegno processuale; e non aver concesso la sospensione condizionale della pena per la presenza di due precedenti penali, senza considerare la giovane età della donna.
4. Con un quinto motivo si deduce vizio motivazionale in ordine alla prova del danno, giacchè la Corte di Appello ha confermato la relativa statuizione di primo grado senza argomentare in ordine agli elementi dai quali deduce la prova del danno.

Motivi della decisione

4. Il ricorso è manifestamente infondato e, per taluni profili, aspecifico.
4.1. Il primo motivo di ricorso pretende di affermare una situazione di fatto diversa da quella accertata nei gradi di merito ed esplicata con puntuale motivazione, senza neppure denunciare il travisamento della prova, e rimanendo peraltro non autosufficiente. Si propone, pertanto, una ricostruzione alternativa a quella operata dalla sentenza impugnata (esistenza di una delega valevole a trasferire su altro soggetto gli obblighi di sicurezza gravanti sulla L. M.).
Vale ricordare che compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della reale degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata, oppure dall’aver assunto dati inconciliabili con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Cass. Sez. 2^, n. 13994 del 23/03/2006, P.M. in proc. Napoli, Rv. 233460; Cass. Sez. 1^, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233778; Cass. Sez. 2^, n. 19584 del 05/05/2006, Capri ed altri, Rv. 233775; Cass. Sez. 6^, n. 38698 del 26/09/2006, imp. Moschetti ed altri, Rv. 234989).
Peraltro, già la sentenza di primo grado dava atto che la difesa aveva sostenuto che l’imputata non era destinataria degli obblighi prevenzionistici in quanto non ricopriva cariche sociali dal 16.11.1999; in sostanza, la difesa aveva rappresentato che la L. M. avesse avuto un ruolo meramente nominale ed insisteva sull’avvenuto rilascio di una delega di funzioni prevenzionistiche.
Tali asserzioni erano state disattese dal primo giudice in quanto: 1) non esisteva agli atti alcun verbale di assemblea del 16.11.1999 avente ad oggetto la cessazione dalla carica di amministratore da parte di L.M.P., la lettera di cessazione del rapporto di lavoro con il F.M. indirizzata alla sezione circoscrizionale del lavoro di Rende e avente data 24.11.1999 recava la firma della L.M. per la C.C. s.r.l.; 2) il contributo testimoniale proveniente da L.E. G. dimostrava la effettività del ruolo ricoperto dall’imputata; 3) non risultava il conferimento di alcuna delega espressa, inequivoca e certa.
L’appellante aveva riproposto i rilievi in tal modo disattesi e la Corte distrettuale ha affermato che non risulta in atti alcuna valida delega delle funzioni ad altro soggetto, mentre la prova dell’esistenza di questa deve essere rigorosa. A fronte di ciò la ricorrente ha reiterato la mera asserzione dell’esistenza di una valida delega avente forma scritta e seguita da rituale accettazione, senza dare alcuna indicazione in ordine all’eventuale travisamento della prova imputabile alla Corte di Appello o esplicare i passaggi argomentativi dai quali desumere che l’esistenza di tale atto è stato negato in via interpretativa.
4.2. Il secondo motivo è privo del necessario carattere di specificità, considerato che con esso si denuncia l’erronea affermazione in ordine alla sussistenza della relazione causale tra condotta omissiva dell’imputata e l’infortunio patito dal lavoratore, senza tuttavia esplicitare le ragioni di diritto e di fatto che sosterrebbero tale censura.
Ai sensi dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), l’impugnazione deve enunciare, tra gli altri, "i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta". L’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), commina la sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione quando venga violato, tra gli altri, il disposto dell’art. 581 c.p.p..
Come costantemente affermato da questa Corte (tra le altre, sez. 6^, 30/10/2008, Arruzzoli ed altri, rv. 242129), in materia di impugnazioni, l’indicazione di motivi generici nel ricorso, in violazione dell’art. 581 c.p.p., lett. c), costituisce di per sè motivo di inammissibilità del proposto gravame.
4.3. Il terzo ed il quarto motivo (che lamentano il trattamento sanzionatorio per non esser stato preso in esame la giovane età dell’imputata ed il contegno processuale, la prima anche sotto il profilo della concedibilità della sospensione condizionale della pena), sono parimenti manifestamente infondati.
La Corte di Appello ha congruamente motivato in ordine al valore assorbente dei precedenti penali anche specifici dell’imputata, rispetto alla giovane età e come ciò valga sia in rapporto al diniego delle attenuanti generiche, sia in funzione della (negata) sospensione condizionale della pena. E’ opportuno rammentare che nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6^, n. 34364 del 16/06/2010 – dep. 23/09/2010, Giovane e altri, Rv. 248244). Per l’ulteriore profilo evidenziato dal ricorso, è principio pù volte formulato da questa Corte che la valutazione dei presupposti per la concedibili^ della sospensione condizionale della pena rientra nei poteri discrezionali del giudice il cui esercizio, se effettuato nel rispetto del parametri valutativi di cui agli artt. 163 e 164 c.p., è censurabile in cassazione solo quando sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico.
L’istituto della sospensione condizionale della pena, infatti, per assunto pacifico, è caratterizzato da un massimo ambito di autonomia e facoltatività avulso da meccanicistiche predefinizioni o da automatismi applicativi.
Peraltro, anche in questo caso, la Corte di Appello ha reso sul tema una puntuale e congrua motivazione, esplicitando le ragioni per le quali non è possibile operare una prognosi favorevole in ordine al futuro comportamento della L.M., tenuto conto dei plurimi precedenti penali, taluni attinenti alla violazione di norme prevenzionistiche.
4.4. Il quinto motivo deduce vizio motivazionale in ordine alla prova del danno, in relazione alla disposta provvisionale. Ma le argomentazioni svolte dalla ricorrente risultano palesemente incongrue, poichè sembrerebbe che si pretenda di derivare la mancata prova del danno dalla circostanza per la quale causa della morte della vittima sarebbe stata la mancata formazione ed informazione della stessa. Quale connessione esista tra i due piani è incomprensibile a questa Corte, posto che an e quantum del danno vanno rapportati alla lesione del bene tutelato.
Peraltro la Corte di Appello ha offerto una puntuale motivazione delle ragioni per le quali è pervenuta alla decisione di condannare al pagamento delle provvisionali, e nelle misure definite, in favore delle costituite parti civili (cfr. pg. 6).
5. Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 a favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese di questo giudizio, che unitariamente e complessivamente liquida in Euro 3.000,00, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali come per legge.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 a favore della Cassa delle Ammende nonchè alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese di questo giudizio, che unitariamente e complessivamente liquida in Euro 3.000,00, oltre I.V.A., C.P.A, e spese generali come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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