Cass. civ. Sez. III, Sent., 19-07-2012, n. 12470 Opposizione all’esecuzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p. 1. Con sentenza del 5 febbraio 2009 la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello proposto dal Fallimento della s.p.a. A.F. & Figli avverso la sentenza del 4 marzo 2003, con la quale il Tribunale di Roma aveva rigettato l’opposizione da esso proposta avverso l’esecuzione forzata immobiliare iniziata nei suoi riguardi dalla s.p.a. Banca di Roma (poi divenuta Capitalia s.p.a.) sulla base di un’ipoteca per L. sei miliardi, gravante su un immobile della società allora in bonis a garanzia di un mutuo fondiario di L. due miliardi, concesso dalla Banca alla s.r.l. T. con atto notarile del 15 aprile 1991.
1.1. L’opposizione all’esecuzione, introdotta nel 1994, era stata proposta adducendosi la nullità del contratto di mutuo per illiceità della causa o comunque del motivo comune ad entrambe le parti e, quindi, l’insussistenza del titolo esecutivo.
A sostegno dell’opposizione e della richiesta di accertamento della nullità del mutuo, l’opponente aveva dedotto: che il Banco di Santo Spirito, poi trasformatosi in Banca di Roma, in data 19 aprile 1991 aveva rinunziato ad un pignoramento eseguito sull’immobile il 7 gennaio precedente in danno del s.p.a. Archibugi, consentendo l’estinzione della procedura esecutiva; che l’8 maggio 1991 la T. aveva acquistato dalla Archibugi l’immobile per un prezzo di L. 1.450.000.000 e lo stesso giorno il Banco di Santo Spirito aveva erogato alla T. L. 2.000.000.000 in esecuzione del mutuo del 15 aprile 1991; che la mutuataria aveva utilizzato la somma per L. 985.565,095 per soddisfare il credito del Banco di Santo Spirito verso la Archibugi e riguardo al quale era intervenuto il pignoramento rinunziato, e per L. 464.434.905 per versarlo alla venditrice a saldo del prezzo pattuito; che il 28 novembre 1991 la Archibugi era stata dichiarata fallita e la Curatela aveva proposto con atto del 7 febbraio 1992 azione revocatoria contro la T. per far dichiarare l’inefficacia della compravendita dell’8 maggio 1991 ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 1 e, comunque, ai sensi del comma 2 di detta norma, con richiesta di restituzione del bene; che con successiva citazione la Curatela aveva richiesto la revoca del pagamento effettuato dalla T. alla Archibugi in relazione alla compravendita; che la stessa Curatela aveva proposto, con atto del 29 gennaio 1992, azione di declaratoria di nullità o, subordinatamente, di inefficacia ai sensi della L. Fall., art. 67 del rogito del 29 gennaio 1992, con cui lo stesso immobile era stato venduto dalla T. alla s.r.l. Immobiliare Sino; che la concatenazione degli atti su indicati, nonchè il fatto che l’amministratore unico della Archibugi era il socio di maggioranza della T., evidenziava la callida intenzione del Banco di Santo Spirito, alla quale aveva accondisceso la Archibugi, di soddisfarsi del proprio credito originariamente chirografario, che era di L. un miliardo, sostituendolo con uno ipotecario di lire due miliardi, destinato ad assorbire per intero l’attivo fallimentare, con la conseguenza della consecuzione di un ingiustificato vantaggio a scapito della par condicio creditorum.
p. 1.2. Il Tribunale, nella costituzione della Banca di Roma e nella contumacia della Telart, a sua volta fallita, dopo una sospensione del giudizio in attesa della definizione dei giudizi introdotti dall’opponente, aveva respinto l’opposizione sul rilievo che, se pure si poteva convenire che il mutuo fosse stato concesso dal banco al fine di frodare i creditori, tale scopo, per un verso non poteva determinare la nullità del contratto, ma solo rendere possibile l’azione revocatoria, che, del resto era stata proposta ed era stata frattanto accolta, per altro verso non giustificava l’applicazione della figura del contratto in frode alla legge e neppure di quella del contratto contrario a norme imperative.
p. 2. Il giudizio sull’appello della Curatela del Fallimento Archibugi si è svolto nella costituzione di Capitalia e nella contumacia del Fallimento T.. p. 3. Contro la sentenza della Corte capitolina ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi la Curatela del Fallimento della Archibugi.
Ha resistito con controricorso la s.p.a, Unicredit quale incorporante della Capitalia s.p.a.
p. 4. Le parti costituite hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

p. 1. Preliminarmente la Corte rileva che si imporrebbe un ordine di rinnovazione della notificazione del ricorso alla T., in quanto la relata della notificazione diretta al Fallimento della stessa, presso il suo curatore, evidenzia che un soggetto che è stato rinvenuto nel luogo in cui la notifica è stata tentata, ha dichiarato per conto del medesimo che il fallimento sarebbe stato chiuso da cinque anni al momento della stessa.
Tanto imporrebbe, dovendosi presumere che la società T. abbia riacquistato la capacità, di ordinare il rinnovo della notificazione nei suo riguardi.
E’ stato, infatti, ritenuto in passato che "Nel procedimento in cui sia parte il fallimento, in persona del curatore, la sopravvenuta chiusura della procedura concorsuale, implicando la cessazione dalla carica del curatore medesimo ed il conseguente venir meno della sua capacità processuale, configura evento interruttivo regolato dal disposto dell’art. 300 cod. proc. civ., pertanto, quando il fallimento si sia costituito in primo grado per mezzo di procuratore, il verificarsi di detto evento, dopo la sentenza del primo giudice, non osta a che il processo d’appello venga validamente instaurato con atto notificato a quel procuratore e prosegua ritualmente nei confronti del fallimento, fino al momento in cui, secondo le disposizioni del citato art. 300 cod. proc. civ., l’evento medesimo non sia certificato dall’ufficiale giudiziario, ovvero dichiarato o notificato dal procuratore (il quale resta a tal fine legittimato anche quando il fallimento rimanga contumace in Sede di gravame), tenendo conto che solo nel suddetto momento si determina l’interruzione del processo e l’inizio del decorso del termine per la sua riassunzione o prosecuzione" (Cass. n. 3360 del 1984).
Mente, più di recente, si è detto che Il fallimento di una società e dei suoi amministratori non determina il venir meno di questi ultimi, perchè la società rimane in vita ed essi restano in carica, salva la loro sostituzione; ne consegue che, ove detta società ritorni "in bonis" a seguito della chiusura del fallimento, essa riacquista la propria ordinaria capacità, con tutti i conseguenti poteri di rappresentanza degli organi sociali. (Cass. n. 20947 del 2009).
Ed ancora, nella logica che competa alla parte che esercita il diritto di impugnazione individuare la controparte nella dimensione relativa alla capacità che essa ha al momento in cui il diritto di impugnazione viene esercitato, che Qualora uno degli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo (nella specie, la chiusura del fallimento con perdita della capacità processuale da parte del curatore e riacquisto della stessa da parte del fallito) si verifichi nel corso del giudizio di secondo grado, prima della chiusura della discussione, e tale evento non venga dichiarato nè notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce a norma dell’art. 300 cod. proc. civ., il ricorso per cassazione deve essere instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati, alla luce dell’art. 328 cod. proc. civ., dal quale si desume la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell’impugnazione, con piena parificazione, a tali effetti, tra l’evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la fase attiva del giudizio e non dichiarato nè notificato. Pertanto, l’impugnazione effettuata alla parte non più legittimata è affetta da nullità rilevabile d’ufficio e, limitatamente ai processi pendenti alla data del 30 aprile 1995, suscettibile di sanatoria con efficacia solo "ex nunc", con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione (Cass. n. 3351 del 2007; conf.: 20611 del 2011).
D’altro canto, nella specie la causa è inscindibile, concernendo litisconsorzio necessario iniziale, ai sensi dell’art. 102 c.p.c..
Tuttavia, l’inammissibilità del ricorso, della quale di seguito si darà conto, rende superfluo ordinare il rinnovo della notificazione.
Ciò, alla stregua del principio di diritto secondo cui Nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso (nella specie, per la palese inidoneità del quesito di diritto), di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio. (Cass. sez. un. n. 6826 del 2010).
p. 2. Il Collegio ritiene che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, perchè proposto in violazione dell’art. 366-bis c.p.c., che è applicabile, in quanto la sentenza impugnata è stata pronunciata anteriormente al 4 luglio 2009, data dell’intervenuta abrogazione, che, tuttavia, ha avuto luogo con la conservazione dell’ultrattività della norma per i ricorsi proposti – come quello in esame – successivamente a quella data avverso provvedimenti pronunciati anteriormente (art. 58, comma 5, della legge).
La ragione di inammissibilità discende dalla circostanza che il ricorso prospetta – come, del resto, ha inteso anche la resistente, che non a caso si è preoccupata di esaminarli separatamente – quattro motivi, che indica l’uno di seguito all’altro ed illustra, quindi, sotto le lettere da a) di e), ma – in disparte che non si specifica quale motivo si illustra sotto ciascuna lettera – senza adempiere riguardo ad ognuno di essi al requisito di cui all’art. 366- bis c.p.c., a conclusione dell’illustrazione ipoteticamente riferibile ad ognuno.
In particolare:
a) alla pagina sei vengono indicati i quattro motivi nei seguenti termini:
– "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, 1343 e 145 cod. civ.; art. 360 c.p.c., n. 3";
– "Violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 216, comma 3:
art. 360 c.p.c., n. 3";
– "Violazione dell’art. 2 Cost. e dei principi di buona fede e correttezza che devono informare qualsivoglia atto di autonomia privata: art. 360 c.p.c., n. 3;
– "Insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., n. 5";
b) tali indicazioni, ancorchè non vengano prospettate come di consueto, con una numerazione o altra enunciazione similare, integrano, quanto alle prime tre, l’articolazione di una proposizione evidenziatrice dell’intenzione di prospettare ed illustrare specifiche violazioni di norme di diritto sostanziale e, quindi, come del resto sotteso all’evocazione dell’art. 360, n. 3 di un motivo ai sensi di tale norma, mentre la quarta rivela l’intenzione di voler illustrare un motivo relativo alla c.d. quaestio facti ai sensi del n. 5 della norma;
c) a ciascuno dei tre motivi ai sensi dell’art. 360, n. 3 doveva corrispondere un quesito di diritto ai sensi dell’art. 366-bis, mentre l’illustrazione del quarto motivo doveva chiudersi o comunque contenere il momento di sintesi espressivo della c.d. "chiara indicazione", cui alludeva quella norma (si vedano Cass. (ord.) n. 16002 del 2007 e Cass. sez. un. n. 20603 del 2007, poi seguite da copiosa e costante giurisprudenza di questa Corte);
d) viceversa, in chiusura della esposizione di tutti e quattro i motivi, peraltro condotta senza una precisa enunciazione di quale fra di essi si intenda illustrare, è enunciato un unico "quesito di diritto".
In tal modo l’art. 366-bis risulta violato perchè imponeva che l’illustrazione di ognuno dei tre motivi ai sensi dell’art. 360, n. 3 si concludesse con un quesito e perchè il motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 non si conclude con nè contiene il detto momento di sintesi.
In proposito si ricorda che già Cass. n. 27130 del 2006 aveva statuito che In tema di ricorso per cassazione, secondo la nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, il quesito di diritto prescritto dal nuovo art. 366-bis cod. proc. civ. non può essere unico per l’intero ricorso, ma dev’essere formulato separatamente rispetto a ciascuna censura formulata, come si evince sia dall’indicazione separata nella norma dei singoli motivi di ricorso, sia dall’espressione "ciascun motivo", che si legge nel suo comma 2; si veda, altresì, Cass. sez. un. n. 21864 del 2007, per la sottolineatura della stessa esigenza; ed ancora Cass. n. 16275 del 2007, secondo cui Per effetto dell’art. 366 bis cod. proc. civ., così come introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6 i ricorsi per cassazione proposti avverso decisioni pubblicate a decorrere dal due marzo 2006 devono contenere, a pena di inammissibilità, la formulazione di un quesito di diritto che non può essere unico per l’intero ricorso ma, secondo la chiara lettera della norma, formulato separatamente rispetto a ciascuna censura.
Si rammenta, inoltre, che è stato statuito che La previsione di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., là dove esige che l’esposizione del motivo si debba concludere con il quesito di diritto, non significa che il quesito debba topograficamente essere inserito alla fine della esposizione di ciascun motivo, essendo consentita la elencazione finale o conclusiva di tutti i quesiti, purchè, in tal caso, ciascuno di essi sia espressamente riferito al motivo, con richiamo numerico od alla rubrica delle violazioni addotte, oppure il collegamento al motivo sia inequivocabilmente evidenziato dalla esistenza di un rapporto di pertinenza esclusiva, in modo tale che esso sia agevolmente individuabile, senza necessità di una particolare analisi critica. (Cass. n. 5073 del 2008).
Nella specie il quesito nella sua prima proposizione evoca insieme gli artt. 1343 e 1345, in relazione alla L. Fall., art. 261, comma 3, e i principi di buona fede e correttezza e la stessa cosa fa la seconda proposizione, che, peraltro evoca anche una norma, l’art. 2740 c.c. cui non si fa in precedenza riferimento. In tale situazione è impossibile raccordare le due proposizione ad alcuno dei tre motivi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dato che si richiamano promiscuamente norme relative al primo ed al secondo nella prima e, nella seconda, oltre ad esse, i principi evocati nel terzo motivo.
Si rileva, d’altro canto, che, se le quattro enunciazioni indicative dei motivi si dovessero considerare come un motivo formalmente unico, almeno nell’intenzione della ricorrente, verrebbe in rilievo la seguente statuizione: In caso di proposizione di motivi di ricorso per cassazione formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, sostanziandosi tale prospettazione nella proposizione cumulativa di più motivi, affinchè non risulti elusa la "ratio" dell’art. 366-bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesito o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesito o nei quesiti prospettati, dovendo la decisione della Corte di cassazione essere limitata all’oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l’illustrazione.". (Cass. sez. un. n. 5624 del 2009).
p. 3. I quattro motivi e, quindi, l’intero ricorso sarebbero comunque inammissibili, perchè dedotti in violazione anche del requisito di ammissibilità di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, siccome eccepito anche dalla resistente: infatti, si fondano sul contenuto di una serie di documenti – il contratto di mutuo, la compravendita, la concessione di ipoteca, la rinuncia al pignoramento e altri – dei quali non forniscono l’indicazione specifica ai sensi di detta norma, che costituisce il precipitato normativo del c.d. principio di autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione. Infatti, non si riproducono nè direttamente nè indirettamente, con l’indicazione della parte del documento in cui l’esposizione indiretta troverebbe riscontro, da farsi in modo adeguato, come ad esempio indicando la pagina e le righe di essa, le parti di detti documenti sulle quali si fondano i motivi e non si indica se e dove essi erano stati prodotti nelle fasi di merito e se e dove siano stati prodotti in questa sede di legittimità, come imponeva una consolidata giurisprudenza della Corte (ex multis: Cass. sez. un. n. 28547 del 2008 e n. 7161 del 2010).
E’ appena il caso di rilevare che sia la prospettazione promiscuamente illustrativa dei motivi sia la stessa formulazione dell’unico inidoneo quesito di diritto alludono espressamente al condizionamento del mutuo alla iscrizione dell’ipoteca sull’immobile già esecutato, onde almeno la conoscenza del contenuto dell’atto in questione risulta particolarmente rilevante.
Non solo: la stessa sentenza impugnata fa un espresso riferimento al contratto di dazione dell’ipoteca alla fine del punto 3. della motivazione, il che evidenzia ulteriormente la fondatezza del rilievo ai sensi dell’art. 366, n. 6.
p. 4. Il Collegio osserva inoltre che i motivi sono illustrati senza che ci si faccia carico della complessiva motivazione della sentenza impugnata, della quale si evoca solo il punto in cui essa ha osservato che l’illiceità della causa dovesse escludersi in quanto il pregiudizio per il ceto creditorio doveva considerarsi condizionato al futuro e, al momento incerto, inadempimento del creditore principale. Questa espressione riportata fra virgolette è l’unica parte della motivazione espressamente evocata.
Senonchè, in dispare che essa è estrapolata da una proposizione più ampia e, fra l’altro riferita ad un’argomentazione concernente anche l’esclusione del motivo illecito comune alle parti, essa rappresenta soltanto la conclusione di un’argomentazione e non, quindi, la motivazione. Quest’ultima è la risultante di un ragionamento che, dopo avere disatteso un rilievo della sentenza di primo grado circa la sottovalutazione della circostanza della coincidenza fra la persona fisica dell’amministratore della Archibugi e il socio di maggioranza della T. (punto 1/a), si articola con una precisa argomentazione svolta al successivo punto 1/b e con altra argomentazione successiva al punto 1/c, delle quali il passo riportato nel ricorso costituisce solo la conclusione. Sicchè, dovendo i motivi di ricorso per cassazione, come ogni motivo di impugnazione, necessariamente concretarsi nella critica della motivazione della sentenza impugnata, nella specie il ricorso somministra motivi che vengono illustrati senza alcuna considerazione di essa e, quindi, sono inidonei allo scopo del motivo di ricorso per cassazione.
Onde, anche sotto tale profilo i motivi sono inammissibili.
p. 5. Si deve, poi, aggiungere che, prescindendo dall’assorbenza di quest’ultimo rilievo, se l’illustrazione dei motivi si considerasse, pur non essendo parametrata alla motivazione della sentenza impugnata, si evidenzierebbe:
a) che il motivo di violazione di norma imperativa ai sensi dell’art. 1418 c.c. è articolato senza espressa enunciazione di quale sia la norma imperativa violata;
b) che, se – superando il fatto che compete al ricorrente svolgere in modo espresso e preciso l’attività di dimostrazione della violazione della norma di diritto di cui asserisce la violazione, onde evitare fraintendimenti della Corte e difficoltà per la difesa avversaria – si ipotizzasse che la norma imperativa violata è quella sottesa alla norma incriminatrice penale di cui alla L. Fall., art. 216, riguardo alla bancarotta preferenziale, dovrebbe rilevarsi che manca qualsiasi attività dimostrativa di come e perchè si fosse realizzata la fattispecie di cui a detta norma, posto che si evoca solo il passo motivazionale sopra ricordato e lo si critica dicendo – del tutto ambiguamente ed apoditticamente – che non si sarebbe considerato che la problematica del reato di bancarotta preferenziale, di cui alla L. Fall., art. 216, allorquando agisce in giudizio, come nella specie, il curatore della società dichiarata fallita, non può considerarsi un fatto futuro e, tantomeno, incerto, essendo evidente che l’intervenuto fallimento era ed è circostanza idonea e sufficiente a determinare la configurazione del reato, quando, come nella specie, sia stata posta in essere una fattispecie negoziale diretta a favorire il recupero dei crediti di un soggetto ai danni di altri soggetti, con palese violazione, quindi, della c.d. par condicio creditorum;
c) che, infatti, in tal modo non solo non ci si preoccupa di svolgere una precisa attività di riconduzione della vicenda sotto la norma dell’art. 216 nelle sue note descrittive, ma con evidente circolarità del ragionamento si finisce per attribuire al fallimento la funzione di giustificare ex sè oggettivamente tale riconduzione, senza fornire al riguardo alcuna spiegazione su come e perchè esso possa averla svolta, il che sarebbe stato, invece, necessario, tenuto conto che la sentenza impugnata nel punto 1/b dice che è rimasta indimostrata nel giudizio l’esistenza di una già presumibile incapienza del patrimonio della Archibugi ed anche da tanto desume che non era logicamente legittimo assumere l’esistenza di una maliziosa preordinazione della dazione di ipoteca per pregiudicare (o con la ragionevole previsione di pregiudicare) i creditori della Archibugi;
d) che parimenti priva di attività dimostrativa è l’illustrazione dei motivi quanto alla violazione degli artt. 1343 e 1345 c.c., nel senso che non viene svolta alcuna specifica attività diretta a ricondurre il fatto storico – che avrebbe dovuto essere precisato in tutte le note rilevanti ed offerto alla Corte con i necessari riferimenti a dove esse trovassero riscontro nello svolgimento del processo – sotto le dette norme;
e) che la stessa cosa è a dirsi dell’evocazione dei principi di correttezza e solidarietà, richiamati nell’accezione in cui sarebbero stati assunti da Cass. n. 20106 del 2009, alla quale, peraltro, si fa dire, senza evocare il preciso passo motivazionale che lo confermerebbe, che avrebbe considerato operante nell’ambito contrattuale un principio per cui qualsiasi contratto, che venga stipulato in violazione del principio di buona fede e correttezza, deve ritenersi contrario a norme imperative, con conseguente sua nullità.
p. 6. Il ricorso dev’essere, conclusivamente dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro diecimiladuecento/00, di cui duecento/00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 26 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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