Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 23-01-2013) 15-05-2013, n. 20942

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di L’Aquila, costituito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., con ordinanza pronunciata il 2 luglio 2012, ha annullato l’ordinanza in data 4 giugno 2012 con la quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pescara aveva applicato la misura degli arresti domiciliari nei confronti di A.V. K., commercialista, ritenuto gravemente indiziato di aver partecipato ad una associazione per delinquere diretta a favorire l’illecita immigrazione di cittadini provenienti da paesi non compresi nell’Unione Europea, attraverso la simulazione di contratti di lavoro e altri atti diretti a legittimare la loro permanenza nel territorio nazionale.

A sostegno della decisione, dopo il richiamo degli elementi costitutivi del delitto previsto dall’art. 416 cod. pen., il Tribunale ha addotto l’insussistenza di gravi indizi della volontà dell’ A. di accordarsi con gli altri presunti partecipi all’associazione per la realizzazione di un comune programma criminoso.

Ad avviso del Tribunale, gli elementi raccolti attestavano l’impegno dell’ A. in due pratiche di regolarizzazione su incarico di altrettanti clienti, i quali lo avevano contattato separatamente, senza che fosse emersa alcuna relazione con gli altri presunti associati idonea a manifestare la consapevolezza dell’indagato di far parte di un organismo unitario avente un comune scopo illecito; nè risultava una distribuzione di compiti tra i pretesi sodali, con assegnazione all’ A. di specifiche mansioni funzionali ad un comune programma criminale, e, neppure, il riparto dei proventi con attribuzione all’indagato di remunerazioni eccedenti rispetto a quelle pertinenti alla gestione delle pratiche curate.

Sul piano delle esigenze cautelari, il Tribunale ha osservato che i reati fine attribuiti all’ A. risalivano al biennio 2009-2010, sicchè particolarmente rigorosa avrebbe dovuto essere la dimostrazione di attuali esigenze di cautela speciale, considerato il tempo trascorso tra la consumazione della presunta attività criminosa e l’emissione della misura cautelare coercitiva, avvenuta circa due anni dopo, senza che, nel tempo Intermedio, l’ A. avesse tenuto altre condotte penalmente rilevanti, pur risultando sottoposto ad osservazione e controllo per essere le indagini già in corso.

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pescara, il quale deduce i vizi di violazione di legge e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Il Tribunale avrebbe ignorato il solido compendio indiziario, indicato nell’ordinanza cautelare genetica, in tema di reati fine ascrivibili all’ A., previsti dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5, e dall’art. 483 cod. pen., in relazione al D.P.R. n. 445 del 2000, art. 76, nonchè dalla L. n. 102 del 2009, art. 1 ter. Esso attesterebbe la commissione dei suddetti reati nell’ambito di una struttura unitaria, composta da più persone in vista della realizzazione di un comune programma, con distribuzione dei compiti tra i partecipanti (promotori, intermediari, datori di lavoro e consulenti) e ripartizione tra loro dei proventi ricavati dall’attività di illecita regolarizzazione di immigrati clandestini (circa Euro 12.000 per ogni richiesta trattata).

In tale contesto associativo l’ A., commercialista, avrebbe avuto il compito di redigere la falsa documentazione indispensabile per il buon esito della domanda, e di inoltrare la stessa telematicamente, come riferito da W.T., partecipe al sodalizio, e come attestato dagli assidui rapporti dello stesso A. con D.M.G., a sua volta membro dell’associazione, prestatosi ad inoltrare a proprio nome, col supporto specialistico del ricorrente, le fittizie domande di nulla osta o di emersione del lavoro irregolare, nonchè a reperire datori di lavoro compiacenti, mantenendo lo stesso D.M. rapporti con i promotori dell’associazione tra i quali M.J.I..

L’estrema cautela adottata dall’ A. per non figurare in relazione con gli altri componenti del sodalizio, come rivelato dal contenuto di una sua conversazione intercettata col D.M., e il linguaggio sempre molto circospetto utilizzato nei dialoghi captati, deporrebbero per la sua consapevole e volontaria partecipazione alla comune e redditizia attività criminale.

Le risultanze probatorie, inoltre, smentirebbero la ritenuta mancanza di una divisione di compiti e proventi tra gli associati, ed escluderebbero la tesi del Tribunale secondo la quale l’ A., nel campo delle pratiche di illecita regolarizzazione di immigrati clandestini, avrebbe agito a titolo esclusivamente personale senza la consapevolezza e la volontà di far parte di una rete di persone accordatesi per la proficua realizzazione di un comune programma criminoso nel medesimo settore.

Riguardo alle esigenze cautelari, infine, l’ordinanza impugnata, valorizzando a favore dell’Indagato, il tempo trascorso tra la commissione dei reati fine e l’emissione della misura cautelare, avrebbe confuso l’attualità delle esigenze cautelari con l’attualità delle condotte criminose, trattandosi, invece, di nozioni del tutto diverse.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile.

Dalla lettura sinottica della motivazione del provvedimento impugnato e delle censure ad esso mosse dal pubblico ministero ricorrente si evince, con chiarezza, che non si versa nell’ambito della violazione di legge, solo genericamente denunciata dal pubblico ministero ricorrente, e, neppure, nel vizio della motivazione secondo i tassativi profili enunciati dal legislatore come mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà del discorso giustificativo della decisione, bensì nel campo, non sindacabile in questa sede, del mero apprezzamento delle risultanze investigative, in quanto connotate o meno dal requisito della gravità indiziaria, che, insieme alla ricorrenza delle esigenze cautelari, legittimano l’applicazione delle misure coercitive personali.

Il Tribunale ha desunto non solo dal numero limitato delle pratiche (due) di illecita regolarizzazione curate dall’ A. nello svolgimento della sua attività professionale di commercialista, ma anche dalle loro modalità esecutive, caratterizzate da rapporti trattenuti dall’indagato con i soli clienti stranieri richiedenti la regolarizzazione della loro presenza in Italia, e dall’entità dell’onorario per esse percepito, non eccedente quello ordinariamente dovuto per la prestazione professionale attuata, la mancanza di indizi gravemente rappresentativi dell’inserimento dell’ A. nell’ipotizzata associazione finalizzata alla illecita regolarizzazione, a fini di lucro, delle posizioni di un numero indeterminato di cittadini stranieri illegalmente presenti sul territorio nazionale.

Tale ragionamento non è apparente nè manifestamente illogico o contraddicono, sia intrinsecamente sia estrinsecamente, con riguardo alle fonti di prova richiamate dal pubblico ministero ricorrente, che sarebbero state ignorate dal tribunale del riesame, poichè i contatti dell’indagato con persone ritenute inserite nel sodalizio criminale, non esplicitamente evocativi di legami criminali e, anche per la prudenza del linguaggio adoperato, apprezzati dal ricorrente come sintomatici del coinvolgimento dell’ A. nell’ipotizzato sodalizio criminale, non viziano la motivazione del provvedimento impugnato che si limita ad escludere la gravità degli indizi di partecipazione dell’indagato alla supposta associazione per delinquere, senza escludere il concorso dello stesso con altre persone nelle singole pratiche di illecita regolarizzazione curate.

Con riguardo, poi, alle esigenze cautelari in relazione ai reati scopo risalenti al 2009-2010, il Tribunale ha adeguatamente giustificato la ritenuta non attualità di esse per l’inesistenza di segnali di prosecuzione della condotta illecita da parte dell’ A. in tempi più recenti, peraltro di agevole accertamento attraverso il controllo delle trasmissioni telematiche delle istanze di regolarizzazione, con la conseguente possibilità di intervenire, in sede cautelare, nel caso in cui tale prosecuzione dovesse emergere nel prosieguo delle indagini.

2. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, proposto dal pubblico ministero, non segue condanna alle spese.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2013

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