Cass. civ. Sez. III, Sent., 19-07-2012, n. 12447 Danni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Nel febbraio del 2009 S.B., insieme con F. e D.A., propose appello avverso la sentenza del tribunale di Trento (che ne aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti degli odierni resistenti, condannando poi D.A. al pagamento, in favore di D.P.S., della somma di oltre 77 mila Euro, e D.F. al pagamento di una somma equivalente in favore della P. e di F.P.), lamentando l’erroneità del dictum del primo giudice, anche in punto di ritenuta carenza di legittimazione e di interesse ad agire in capo ad esse appellanti.

Il fatto illecito posto a fondamento della pretesa risarcitoria avanzata dalla S. e dalle D. consisteva – a loro dire – nella corresponsione di cospicui finanziamenti da parte della Cassa Rurale Valdisole alla società P.A.F. – della quale esse erano state socie – senza che ve ne fossero stati, peraltro, i presupposti, avendo la società già subito, prima delle predette erogazioni, perdite rilevanti al punto da non essere in grado di far fronte agli oneri derivanti dai finanziamenti stessi.

In particolare, un finanziamento di circa 300 milioni, garantito da ipoteca sull’immobile sociale, e concesso sol perchè esistevano rapporti amicali o professionali tra alcuni soci e i dirigenti bancari, era stato destinato non alle esigenze della società, bensì alla liquidazione delle quote dei soci uscenti.

Quanto alla condanna pronunciata nei loro confronti in prime cure in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da D. P. e da F.P., ne lamentavano le appellanti la totale illegittimità, posto che la cessione delle quote della società da parte di costoro era avvenuta a titolo gratuito – e non oneroso, come erroneamente ritenuto in prime cure -, restando a carico della sola società (giusta scrittura privata del giugno 2009) l’obbligo di corrispondere alcune somme a titolo di rimborso finanziamenti e di corrispettivi in favore dei soci uscenti.

D.P.S. e F.P., nel resistere all’appello, specificarono che, nella qualità di socie uscenti, esse vantavano un credito pari a quello loro riconosciuto con la sentenza di primo grado.

Nel dicembre del 2009 la corte di appello di Trento rigetterà il gravame.

La sentenza è stata impugnata dalle tre appellanti con ricorso per cassazione sorretto da sei motivi di doglianza.

Resistono con controricorso integrato da ricorso incidentale condizionato D.P.S. e F.P..

Resistono altresì con controricorso B.A., la Cassa Rurale Alta Valdisole e la Federazione Trentina delle Cooperative (che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.).
Motivi della decisione

Il ricorso principale è infondato.

Al suo rigetto consegue l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato D. – F..

Con il primo e quarto motivo (esposti in un ordine peraltro non congruente con l’indicazione iniziale dei motivi di cui ai ff. 13 e ss. del ricorso) si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2049 c.c.; contraddittorietà della motivazione.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati attesane la intrinseca connessione, sono privo di pregio.

Essi lamentano, a vario titolo e sotto vari profili, un preteso vizio della sentenza impugnata, frutto della mancata valutazione di prove scritte, con conseguente contrarietà della decisione rispetto al contenuto delle prove medesime.

Viene ancora lamentato un difetto di contraddittorietà della motivazione ed un travisamento dei fatti.

Viene poi contestato un vizio di omessa pronuncia in ordine alla richiesta di danni morali biologici ed esistenziali.

Le doglianze sono, in limine, inammissibili quanto al lamentato travisamento dei fatti, non essendo, all’uopo, il ricorso per cassazione lo strumento impugnatorio previsto ex lege per tale fattispecie.

Per la restante parte, entrambi i motivi non possono essere accolti.

Essi si infrangono, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto che, nella specie, la concessione di un finanziamento non potesse costituire ipso facto una vicenda di danno per la società beneficiarla, specificando, in proposito, con argomentazioni scevre da qualsivoglia vizio logico-giuridico, che la relativa erogazione aveva, nei fatti, consentito, da un canto, l’acquisto di un immobile di ingente valore (stimato, in sede di esecuzione immobiliare, nella misura di oltre 2 milioni di Euro, somma di gran lunga eccedente l’importo dei crediti vantati dalla Banca concedente), dall’altro, il finanziamento dell’inizio dell’attività sociale.

Per altro verso, la corte trentina ha escluso tout court il carattere illecito dei finanziamenti in parola, attesa la inconsistenza giuridica, a tal fine, della contestazione della natura – personale e di intima conoscenza – dei rapporti tra i soci della P.A.F. e i membri degli organi direttivi dell’istituto di credito mutuante, specificando ancora come la redditività di una nuova compagine societaria non potesse che essere valutata nel lungo periodo.

Infine, la impredicabilità di qualsivoglia risarcitoria viene esclusa, in sentenza, da un canto, alla luce dell’ormai esercitato diritto di recesso da parte delle sorelle D. (onde la mancanza della necessaria qualità di socie legittimante tale richiesta) e della connotazione in termini di mera potenzialità ed eventualità del danno lamentato, dall’altro, per effetto della riconducibilità alla S., in qualità di amministratrice, dell’impiego dei finanziamenti, onde la conseguente recisione di ogni nesso causale tra le (soltanto supposte) irregolarità nella concessione dei finanziamenti stessi e il (preteso quanto inesistente) danno lamentato.

La motivazione, ampia, articolata e conforme a diritto, si sottrae, pertanto alle censure mossele, censure che, al di là delle suggestioni da esse indotte (si sostiene, tra l’altro, che la S. fosse un’amministratrice del tutto priva di esperienza e capacità gestionale, mentre le due figlie, D.A. e F., erano semplici cameriere indotte a far parte della compagine sociale quando questa risultava già pesantemente indebitata) sono irrimediabilmente destinati ad infrangersi sul corretto impianto argomentativo adottato dal giudice d’appello dianzi descritto, dacchè esse, nel loro complesso, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. La difesa oggi ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove c.d.

legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Con il terzo e quinto motivo, si denunciano, rispettivamente, la violazione dell’art. 295 c.p.c., ed ancora la violazione dell’art. 228 c.p.c., e segg., art. 244 c.p.c..

I motivi possono, a loro volta, essere congiuntamente esaminati, attesa la identica ratio che li sorregge.

Essi non hanno giuridico fondamento.

Quanto alla invocata sospensione del presente giudizio per effetto della pendenza di altra vicenda giudiziaria volta all’accertamento, da parte della banca, della qualità di socio occulto della P.A.F., risulta di assoluta evidenza (a tacer d’altro) la non coincidenza soggettiva tra la causa di cui si postula in questa sede la pregiudizialità e la causa pregiudicata, onde corretto e insuscettibile di censura in questa sede appare il decisum del giudice territoriale.

Quanto alla scelta del giudice di merito di avvalersi, o meno, della facoltà di cui all’art. 210 c.p.c., essa è – come ampiamente noto alla luce di principi ormai consolidati presso questa Corte regolatrice – del tutto insindacabile in sede di legittimità, volta che tale scelta risulti, come nella specie, analiticamente argomentata, mentre le ulteriori richieste istruttorie, in questa sede reiterate, risultano, a tacer d’altro, inammissibili per la mancata riproduzione (in spregio del principio di autosufficienza del ricorso, nonostante la lunga esposizione degli "elementi di fatto e di diritto a sostegno del ricorso per l’autosufficienza dello stesso" che si dipana dal folio 18 al folio 49 dell’odierno atto di impugnazione, in essa inclusa il capitolo sulle "specifiche violazioni contestate alla corte di appello" di cui al folio 42 del ricorso) del relativo contenuto rilevante in parte qua onde inferirne l’indefettibile carattere della decisività rispetto a punti altrettanto decisivi della controversia.

Con il secondo motivo, e con riferimento all’accoglimento della domanda riconvenzionale, si denuncia violazione dell’art. 1173 c.c..

La doglianza – che lamenta l’erroneo accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dalle odierni resistenti D. e F. – non può essere accolta.

Essa postula, da un canto, una illiceità del negozio di finanziamento recisamente esclusa dalla corte territoriale, mentre, dall’altro, omette di considerare che – alla luce di una più che consolidata giurisprudenza di questa corte regolatrice, quanto all’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto della relativa convenzione negoziale -, in tema di ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di interpretazione (sì come dettati dal legislatore all’art. 1362 c.c., e segg.) e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca (come nella specie) nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva (la predicabilità di un obbligo in capo alla sola società, e non anche alle odierne ricorrenti) degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Con il sesto motivo, si denuncia, infine, una presunta contrarietà al dettato costituzionale di cui all’art. 24 Cost., delle norme di cui agli artt. 2043 e 2049.

La censura, al di là della sua più che manifesta infondatezza, è inammissibile sub specie della sua (ir)rilevanza nel presente giudizio, essendo stato condivisibilmente escluso, dalla corte territoriale, la configurabilità stessa di un danno in capo alle odierne ricorrenti.

Il ricorso principale è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese – che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate, attesa la complessa peculiarità delle questioni trattate – segue come da dispositivo.
P.Q.M.

La corte, decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale condizionato. Compensa le spese tra tutte le parti in causa.

Così deciso in Roma, il 14 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012
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