Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-07-2012, n. 12704 Corte di Cassazione Contenzioso tributario Pensione di invalidità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata in data 7.4.09, la Corte d’appello di Reggio Calabria rigettava l’appello proposto da C.G. avverso la pronuncia con cui il Tribunale di Locri, previa declaratoria del difetto di legittimazione passiva della convenuta Regione Calabria, aveva respinto la domanda dallo stesso proposta nei confronti del Ministero dell’Intero e del Ministero del Tesoro, diretta all’ottenimento della pensione di invalidità civile (ovvero, in subordine, dell’assegno mensile di invalidità). Nel pervenire a tale decisione la Corte territoriale, pur dando atto che dalla dichiarazione resa personalmente dall’interessato e depositata all’udienza del 27.9.1999 si evinceva che i redditi per gli anni 1996, 1997 e 1998 erano inferiori a quelli previsti per legge (in base ai DM succedutisi nel tempo) per usufruire dell’invocata prestazione assistenziale (pensione di inabilità), escludeva l’idoneità della prodotta dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà a fornire la prova della sussistenza del richiesto requisito reddituale. Per la cassazione di tale sentenza ricorre F.P., nella qualità di erede di C.G. (deceduto in data (OMISSIS)), con impugnazione affidata ad un unico articolato motivo. Resistono con controricorso il Ministero dell’Interno ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Motivi della decisione

Si premette che il ricorso è soggetto alla disciplina delle modifiche al processo di cassazione, disposte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, e segnatamente dall’art. 366 bis c.p.c., poi abrogato dalla L. n. 69 del 2009, art. 47, lett. d) (entrata in vigore il 4 luglio 2009), che si applicano ai ricorsi proposti contro le sentenze ed i provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 compreso, cioè dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. (art. 27, comma 2 di tale D.Lgs.).

Con unico motivo di ricorso censura la ricorrente la sentenza impugnata per: "Violazione e falsa applicazione dell’art. 149 disp. att. c.p.c., in relazione alla L. n. 118 del 1971, art. 12 ed alla L. n. 153 del 1969, art. 26, in combinato disposto con gli artt. 421 e 437 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Omessa motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5). Deduce che la Corte territoriale, a fronte dell’allegata autocertificazione relativa ai redditi 1996, 1997 e 1998, valevole quale prova legale fino alla decisione di cui alle S.U. della Cassazione n. 5167/2003, lungi dal poter considerare carente la dimostrazione del requisito reddituale, avrebbe dovuto invitare la difesa dell’appellante C.G. ad integrare il quadro probatorio incompleto esistente in causa attraverso la produzione di certificazione della competente Agenzia delle Entrate. Richiama, quale pronuncia in termini, la decisione della Suprema Corte n. 2379/2007 e formula il seguente quesito di diritto: "Dica l’adita Suprema Corte di Cassazione che nei giudizi volti al riconoscimento del diritto a pensione di invalidità civile il requisito reddituale deve essere verificato al momento della decisione della causa d’appello (così riconoscendosi all’art. 149 disp. att. c.p.c. un ambito applicativo esteso anche al sopraggiungere del requisito reddituale nel corso del giudizio), sicchè, allorquando le risultanze di causa offrono già significativi dati d’indagine quanto al reddito in primo grado (e, segnatamente, acquisite in tempo antecedente al consolidarsi dei principi espressi in materia dalle S.U. n. 5167/2003), lo stesso Giudice di appello è tenuto ad invitare la difesa del medesimo invalido ad integrare il quadro probatorio, producendo certificazione aggiornata dell’Agenzia delle Entrate e l’altra documentazione ritenuta necessaria per integrare il quadro probatorio incompleto, e ciò stante che la materia della previdenza ed assistenza è caratterizzata dall’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale".

Il motivo di doglianza, consistente nel mancato esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ai sensi del combinato disposto degli artt. 421 e 437 c.p.c., è inammissibile perchè non autosufficiente in quanto non trascrive quali siano i mezzi istruttori sollecitati alla Corte territoriale.

Lo stesso, nella parte in cui implicitamente afferma che non era stato chiesto alcun approfondimento istruttorio al giudice d’appello, è infondato perchè non ci si può dolere del mancato esercizio di poteri istruttori d’ufficio neppure richiesto al giudice d’appello.

E’ stato più volte affermato: "Nel rito del lavoro, l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, involge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, qualora la sentenza di merito non adduca un’adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione" (cfr. ex plurimis Cass. 5 febbraio 2010 n. 12717). Ed è stato anche specificato che: "Nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori" (cfr. Cass. 12 marzo 2009 n. 6023) e si è infine statuito che: "Nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio il giudice è tenuto a dar conto; tuttavia, per idoneamente censurare in sede di ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità della motivazione sul punto della mancata attivazione di tali poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato l’esercizio, in quanto diversamente si introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di merito" (cfr. Cass. 26 giugno 2006 n. 14731). E’ stato, altresì, ritenuto che, pur in presenza di formale ed esplicita richiesta di una delle parti, in mancanza di un provvedimento decisorio esplicitante le ragioni per le quali il giudice abbia ritenuto di far ricorso all’uso dei poteri istruttori ovvero di non farvi ricorso, non è consentita una censura che, seppur sollevabile precedentemente, sia stata avanzata per la prima volta in sede di legittimità e con la quale si denunzi il mancato esercizio dei poteri d’ufficio, censura che finirebbe, con il giudizio di rinvio, per prolungare la durata del processo. Tale soluzione trova conforto nel principio, costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2) e nella ricaduta, in termini processuali, scaturente dall’inerzia e mancata sollecitazione della parte interessata all’esercizio dei poteri ufficiosi – pur dopo che l’esaurimento dell’istruttoria abbia fatto permanere un quadro probatorio incerto – e ciò anche in ossequio applicativo del principio della tempestività dell’allegazione della sopravvenienza, comportante l’osservanza, a pena di decadenza, dell’onere di far valere nel primo atto difensivo eccezioni o deduzioni volte a contrastare le avverse domande, dovendosi avere riguardo al sistema di preclusioni e decadenze proprio delle controversie di lavoro e, sia pure in misura minore, anche del procedimento ordinario, dopo le riforme del 1990- 1995 (cfr. in tal senso Cass. 21 giugno 2006 n. 14331).

Resta, infine, ininfluente il discorso sul momento in cui è mutato l’orientamento giurisprudenziale sul valore probatorio delle dichiarazioni sostitutive di notorietà, rilevante solo in tema di prospective overruling (nei termini rigorosi di Cass. S.U. n. 15144/2011 e della dottrina e giurisprudenza di altri ordinamenti, sia di civil law sia di common law) nel senso che, affinchè un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso;

che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (cfr. in tal senso Cass. 27 dicembre 2011 n. 28967). La prima e la terza condizione non ricorrono nel caso di mutamento della giurisprudenza in ordine alla valenza probatoria della dichiarazione sostitutiva di certificazione sulla situazione reddituale prevista dalla L. L. 13 aprile 1977, n. 114, art. 24 e, successivamente, dal D.P.R. 20 ottobre 1998 n. 403, art. 1, comma 1, lett. b), poi sostituito dal D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 46, comma 1, lett. o)) ritenuta dalle Sez. U della Cass. n. 5167 del 3.04.2003 idonea a comprovare detta situazione, fino a contraria risultanza, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nei relativi procedimenti amministrativi, ma priva di valore probatorio, anche indiziario, nell’ambito del giudizio civile, caratterizzato dal principio dell’onere della prova, atteso che la parte non può derivare da proprie dichiarazioni elementi di prova a proprio favore, al fine del soddisfacimento dell’onere di cui alìart. 2697 c.c. (dovendosi vieppiù sottolineare che, nella specie, come si rileva dallo stesso ricorso per cassazione, la dichiarazione sostitutiva di certificazione era stata prodotta dall’interessato in data 27.9.1999 e, dunque, quando, lungi dall’esservi un affidamento su un consolidato orientamento giurisprudenziale, vi era anzi un contrasto in ordine alla questione del valore probatorio da attribuire alla autocertificazione dei propri redditi ai fini della sussistenza del requisito reddituale richiesto dalla legge, nell’ambito del quale, peraltro, altra pronuncia della Sez. U, la n. 10153 del 14.10.1998, aveva escluso, in difetto di diversa, specifica previsione di legge, ogni valore probatorio, pure indiziario, a detta autocertificazione).

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Nessuna statuizione va adottata, infine, per quel che riguarda le spese, ricorrendo le condizioni previste per l’esonero del soccombente dal rimborso a norma dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo originario, quale risultante a seguito della sentenza costituzionale n. 134 del 1994, non essendo applicabile al presente giudizio la modificazione introdotta dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, u.c., convertito in L. 24 novembre 2003, n. 326, trattandosi di giudizio introdotto prima del 2 ottobre 2003 (data di entrata in vigore del decreto).
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2012

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