Cassazione, 11 novembre 2009, n. 43036 L’amministratore di fatto risponde anche se non è personalmente fallito

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto e diritto

Propone ricorso per cassazione G. P. avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna in data 3 novembre 2008 con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna in ordine alla imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

Il reato era stato contestato al G. quale amministratore di fatto della Ecologia 2000, società in accomandita semplice dichiarata fallita nel marzo 2001; la distrazione aveva avuto ad oggetto, secondo la impostazione accusatoria, la somma di circa 165 milioni di lire prelevata dal conto corrente sociale mediate tessera bancomat intestata alla società.

Deduce

1) la erronea applicazione degli artt. 147, 216 e 222, 233 l. fall. 2313, 2318, 2320 cc.

I giudici dell’appello hanno affermato la responsabilità dell’imputato per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione quale amministratore di fatto della s.a.s. Ecologia 2000, sul presupposto che le disposizioni dell’art. 216 l. fall. trovino applicazione nei confronti dell’amministratore di fatto di società in nome collettivo o in accomandita semplice, in forza dell’art. 223 l. fall., norma che si riferirebbe all’amministratore di qualsiasi società fallita, compresa quella personale ed indipendentemente dunque dalla dichiarazione personale di fallimento.

Tale tesi sarebbe sbagliata, però, ad avviso del ricorrente in quanto nella società di persone la responsabilità per il reato di bancarotta, propria del socio accomandatario, è estesa al socio illimitatamente responsabile – che non è imprenditore – dall’art. 222 l. fall., e deve trattarsi di soggetto personalmente dichiarato fallito (art. 147 l. fall.).

In altri termini, in capo al socio accomandante, come, deve ritenersi, per il socio accomandatario, la responsabilità è costruita non tanto sulla nozione di “amministratore” ma su quella di “socio illimitatamente responsabile” e, in particolare, sulla base del disposto dell’art. 2320 cc che estende, dunque ex lege, la responsabilità al socio che compia atti di amministrazione in violazione del divieto sancito dalla norma, così assumendo la responsabilità illimitata verso i terzi per le obbligazioni sociali.

Fuori di tali ipotesi la responsabilità può configurarsi solo in base alle norme sul concorso di persone ex art. 110 cp, salvo che operando una indebita interpretazione analogica in malam partem.

Nel caso di specie il ricorrente, non chiamato a rispondere come extraneus concorrente, né come socio accomandatario né, ancora, come socio accomandante illimitatamente responsabile, non potrebbe ulteriormente vedersi addebitare la distrazione a titolo di “amministratore di fatto”.

Avrebbe errato, nel giungere a tale conclusione, la Corte di merito facendo ricorso al disposto dell’art. 223 l. fall., posto che in materia di società di persone dispone il capo I del tit. VI ossia quello dedicato ai reati “propri” commessi dal “fallito”, mentre il capo II, nel quale è ricompresa la disposizione dell’art. 223 l. fall., opera solo in riferimento ai reati commessi da persone diverse dal fallito, ossia gli amministratori, tra gli altri, delle società dichiarate fallite;

2) il vizio di motivazione in relazione alla qualità di amministratore di fatto attribuita ad esso ricorrente, alla luce di una serie di prove testimoniali e documentali che egli sostiene essere state erroneamente valutate ovvero – per quanto concerne quelle richiamate dalla difesa nei motivi di appello – nemmeno prese in considerazione da parte della Corte di merito. In particolare era stata trascurata la decisiva circostanza che esso Gennari era stato completamente estromesso da ogni rapporto con la società a partire dal giugno 2000, mentre il ruolo di amministratore continuava ad essere svolto dalla amministratrice di diritto, Brunelli.

3) Il vizio di motivazione sulla concretezza della distrazione, contestata con riferimento all’uso di una tessera bancomat ma in relazione ad un importo complessivo (160 milioni) incompatibile con il “tetto” fissato mensilmente per i prelievi con tale tessera. Tale evenienza avrebbe dovuto far ritenere al giudice la inaffidabilità delle corrispondenti appostazioni in bilancio;

4) il vizio di motivazione sul diniego delle attenuanti generiche.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

Proprio la giurisprudenza che, nella parte conclusiva della esposizione, il ricorrente cita per qualificarla insufficiente a risolvere le obiezioni fin qui mosse, è quella che, viceversa vale a fondare la tesi correttamente seguita dalla Corte di merito.

Come il ricorrente ha dimostrato di avere verificato, la giurisprudenza di questa Corte ha già posto in evidenza, occupandosi della responsabilità per reati fallimentari del socio accomandante di una società in accomandita semplice, che possono configurarsi due tipi di responsabilità:

– quella dovuta al titolo di socio divenuto illimitatamente responsabile, per essersi indebitamente ingerito nell’amministrazione della società, attraverso la sua dichiarazione di fallimento in sede di estensione ai sensi dell’art. 147, secondo comma legge fall., venendo cosi a possedere, con lo “status” di fallito, la necessaria qualifica soggettiva;

– quella derivante dalla qualità di amministratore di fatto della s.a.s. dichiarata fallita, a prescindere dallo “status” di fallito, bastando a conferirgli la soggettività attiva l’essere stato preposto all’amministrazione ed al controllo di una società commerciale, com’è previsto dall’art. 223 legge fall.

Nel primo caso la responsabilità trova fondamento nel capo primo, titolo sesto della legge fallimentare (reati commessi dal fallito, art. 216-222); nel secondo caso, nel capo secondo dello stesso titolo (reati commessi da persone diverse dal fallito, art. 223-235: precetti di cui l’amministratore – da intendersi come quello ufficialmente investito della carica o anche solo amministratore di fatto – è diretto destinatario).

E quando la responsabilità penale sia configurata sotto il secondo dei due profili enunciati sopra, è irrilevante la mancata estensione del fallimento all’imputato. (Rv. 197282). (Conf. sez. V, n. 180. 1 febbraio 1994, Santopietro Cass. pen. 1994, p. 2546)

In altri termini la giurisprudenza di legittimità non ha mai dubitato della possibilità astratta di configurare la responsabilità penale per bancarotta anche a carico dell’“amministratore di fatto” di una società di persone, ossia del soggetto che, non necessariamente coincidente con la figura del “socio illimitatamente responsabile” e quindi non necessariamente dichiarato fallito in proprio, abbia svolto in concreto poteri di amministrazione in riferimento ad una società in nome collettivo o in accomandita semplice (si veda tra le molte, Sez. 5, Sentenza n. 2858 del 10/02/1998 Ud. Rv. 209958).

E ciò, in quanto si ritiene che l’amministratore di fatto di una società in nome collettivo – al di fuori dei casi previsti dall’art. 222 l. fall. – possa essere chiamato a rispondere del delitto di bancarotta fraudolenta quale diretto destinatario dell’art. 223 legge fall., che riguarda tutte le società dichiarate fallite, comprese quelle personali, indipendentemente dalla dichiarazione personale di fallimento, che può intervenire ai sensi dell’art. 147, capoverso legge fall. (Rv. 200437).

In tal senso si rintracciano precedenti giurisprudenziali anche risalenti, volti però in modo univoco e unanime ad affermare il principio appena ricordato e cioè quello secondo cui qualsiasi soggetto che di fatto si sia inserito nell’attività amministrativa di una società, poi dichiarata fallita, risponde del reato di cui agli arti 223 e 216 l.f., come diretto destinatario delle disposizioni in essi contenute, le quali indicano, tra gli altri, gli amministratori, con riferimento non ad una formale attribuzione di qualifiche, ma all’esercizio concreto delle funzioni che la sostanziano.

Se ne è fatto derivare poi il corollario secondo cui l’amministratore di fatto di una società può rispondere del reato fallimentare quand’anche l’amministratore legale della stessa non sia ritenuto colpevole sul punto, dovendosi aver riguardo all’effettivo potere di gestione svolto nella attività sociale. (Rv. 160222-3).

L’amministratore di fatto di una società risponde infatti dei reati fallimentari non già quale “extraneus” ma quale diretto destinatario della norma (Rv. 175668; conf. Rv. 166410).

I rilievi della difesa non valgono ad incidere seriamente su tali approdi.

Il fatto, cioè, che nelle società collettive o nelle accomandite il reato di bancarotta sia tipizzato, dall’art. 222 l. fall., in relazione alla figura del socio illimitatamente responsabile dichiarato fallito, a prescindere quindi dalla qualità di imprenditore – che può mancare – non impedisce che nel caso in cui invece ricorra la figura dell’amministratore di fatto perché in concreto da costui sia stata esercitata attività gestoria nell’ambito delle stesse società di persone, il responsabile possa essere chiamato a rispondere a titolo di bancarotta impropria ai sensi dell’art. 223 l. fall., a seguito della dichiarazione di fallimento della società medesima (ed a prescindere quindi dalla qualità personale di fallito).

Non si tratta certo di una operazione ermeneutica di analogia in malam partem, come sostenuto dal ricorrente, ma della applicazione di una norma appositamente prevista dalla legge fallimentare, l’art. 223 per l’appunto, la quale prevede i fatti di bancarotta fraudolenta che possono essere commessi da persone diverse dal fallito, tra le quali l’amministratore della società dichiarata fallita, da intendersi, in base alla ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale sul punto, sia come amministratore di diritto che semplicemente di fatto.

Il secondo motivo è inammissibile.

Il compito del giudice della legittimità è quello di sindacare, ove uno specifico motivo di ricorso lo solleciti a tanto, il corretto svolgersi dell’iter logico seguito dal giudice e la completezza del suo ragionamento, dovendo fermare il proprio potere di censura quando una simile disamina porti ad affermare che la ricostruzione è stata logica e plausibile ed a prescindere dalla possibilità che altre ricostruzioni altrettanto plausibili siano rappresentate dal ricorrente.

Il giudice della legittimità non è invece deputato a sindacare i risultati della prova ossia a ripercorrere l’analisi della prova che costituisce materia riservata al potere di analisi e di selezione proprio del giudice del merito.

Risulta dunque del tutto inammissibile il motivo di ricorso articolato mediante la riproposizione dei testi delle dichiarazioni testimoniali o delle acquisizioni documentali poiché solo la razionalità e completezza della relativa analisi possono essere messe in discussione dinanzi al giudice della legittimità segnalando un vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606 lett. e cpp.

Anche la doglianza sulla omessa valutazione di un mezzo di prova può essere ovviamente articolata alla stregua della norma citata ma non già sottoponendo direttamente alla Cassazione la prova pretermessa – come invece ha fatto il ricorrente – quanto piuttosto allegando in primo luogo la decisività della lacuna motivazionale denunciata rispetto al complesso del tessuto argomentativo, oltre alla corrispondenza ad essa di uno specifico motivo di appello immotivatamente disatteso dal giudice competente per il secondo grado, scattando, in mancanza, la preclusione.

Nella specie la motivazione adottata dalla Corte appare completa e plausibile poiché la Corte si è soffermata con dovizia di particolari sulle numerose testimonianze di soggetti che hanno sperimentato il potere decisionale in capo al Gennari e sulla documentazione dalla quale risulta che egli si è avvalso, nella firma, della qualità di amministratore.

La Corte ha cioè fatto corretta applicazione del principio secondo cui la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 cc postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione.

Nondimeno, “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale (Rv. 224948).

L’accertamento degli elementi sintomatici di tale gestione o cogestione societaria costituisce oggetto di apprezzamento di fatto che è insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica.

I motivi di ricorso sul punto si risolvono invece, come detto, nella inammissibile sollecitazione ad una diversa valutazione dei risultati di prova, anche laddove segnalano la cessazione di qualunque attività da parte del Gennari a partire dal marzo 2000: evenienza che, non solo è stata rappresentata nella sola forma storica a questa Corte, ma per di più senza che se ne indichi la capacità – nella eventualità di una omessa valutazione colpevole – di smantellare l’intero impianto della motivazione. Invero, anche l’amministratore di fatto di una società può vedere la cessazione della propria attività senza che per questo la stessa perda, con riferimento al passato, la propria natura.

Il terzo motivo è infondato.

È noto che la costante giurisprudenza osserva che in tema di prova del delitto di bancarotta fraudolenta, il mancato rinvenimento, all’atto della dichiarazione di fallimento, di beni e di valori societari, a disposizione dell’amministratore, costituisce, qualora non sia da questi giustificato, valida presunzione della loro dolosa distrazione, probatoriamente rilevante al fine di affermare la responsabilità dell’imputato (v. tra le molte, Rv. 231411).

Tale principio va tuttavia contemperato con quello secondo cui ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta per distrazione è necessario che siano sottratti alla garanzia dei creditori cespiti attivi effettivi e, pertanto, sicuramente esistenti. Ne consegue che se detta esistenza è dubbia, in quanto attestata solo da scritturazioni contabili fittizie effettuate per occultare lo stato di decozione o per altre ragioni, non può ritenersi integrata la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 216, comma primo, n. 1 L.F. (Rv. 236047).

Nella specie, tuttavia, non è tale orientamento a venire in discussione in quanto il ricorrente non deduce apertamente la fittizietà della appostazione in bilancio quanto, piuttosto, la illogicità della massima di esperienza in base alla quale i giudici del merito avrebbero accreditato l’impianto della accusa: la massima cioè secondo cui, come da imputazione, la distrazione di 160 milioni di lire si sarebbe realizzata in pochissimi anni essenzialmente attraverso l’uso indebito della carta bancomat della società. Ne deriverebbe che la iscrizione della posta nelle scritture contabili sarebbe del tutto inattendibile.

Ebbene, la lettura della sentenza impugnata evidenzia che i giudici hanno analizzato compiutamente lo stesso motivo già posto in appello ed hanno fornito una spiegazione più che esauriente e completa del convincimento raggiunto.

Hanno cioè posto in evidenza che il dato dei prelevamenti ingiustificati è stato tratto dalle scritture contabili ed in particolare dal conto anticipi del bilancio che non solo era stato materialmente compilato da una dipendente della società diversa dall’interessato ma, oltretutto, era passato al vaglio del curatore il quale ne aveva verificato l’attendibilità sia attraverso la comparazione con gli estratti conto bancari, sia attraverso la diretta contestazione all’imputato il quale non aveva contestato i prelevamenti. I giudici avevano anche aggiunto il dato, proveniente dalle dichiarazioni della amministratrice legale Brunelli, secondo cui il Gennari si approvvigionava di danaro sia attraverso il bancomat che attraverso forme diverse di prelievo.

Tale analisi risponde in toto ai criteri di una corretta e completa motivazione che si sottrae, dunque, all’ulteriore vaglio di questa Corte, mentre, per converso, la censura del ricorrente, pur dispiegata sul piano della “tenuta logica” della motivazione tende, in realtà, a conseguire – del tutto inammissibilmente – una diversa ricostruzione del materiale probatorio, introducendo il dubbio sulla credibilità delle dichiarazioni dei numero testi assunti.

Il quarto motivo è inammissibile.

A fronte di una motivazione più che esaustiva da parte della Corte, la quale ha ritenuto preponderante, nella valutazione ex art. 133 cp, la valenza dei precedenti penali (in un caso anche specifici) dell’imputato e quindi la assenza di elementi di segno positivo valorizzabili ai fini che qui interessano, la censura articolata nel motivo di ricorso è assolutamente generica. Non attinge alcuno dei passaggi della motivazione e non indica le ragioni in fatto a sostegno della propria domanda.

Alla soccombenza segue la condanna alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate, sulla base della nota depositata, come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché alle spese della parte civile che liquida in complessivi euro 1.500 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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