Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-07-2012, n. 12682

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza pubblicata il 17.11.2008 il tribunale di Roma confermava la decisione del giudice di pace della stessa città, che aveva dichiarato l’inammissibilità di un’opposizione proposta dalla Tiesse pubblicità s.r.l. avverso sei avvisi di accertamento di indennità di occupazione, afferenti l’utilizzo di spazi pubblicitari su aree di proprietà comunale.

Premesso che, in primo grado, la società aveva dedotto l’illegittimità dei provvedimenti per intervenuta prescrizione del diritto alla riscossione, ai sensi dell’art. 2948 c.c., nonchè l’illegittimità o l’erroneità dell’accertamento sulla pretesa natura abusiva degli impianti pubblicitari gestiti, e l’illegittimità o l’erroneità del conteggio dei canoni di concessione, il tribunale osservava che l’ingiunzione contenuta negli atti induceva a ritenere che il comune avesse inteso agire ai sensi del R.D. n. 639 del 1910.

Riteneva difatti che il potere dell’ente locale di precostituirsi autonomamente il titolo esecutivo stragiudiziale, in ordine al diritto per i canoni (ovvero alle "indennità" di occupazione di un bene pubblico), fosse da rinvenire nell’art. 1 del richiamato R.D. n. 639 del 1910 (ingiunzione fiscale) e D.P.R. n. 43 del 1988, art. 69, comma 2 (riscossione a mezzo ruolo), nonchè, dopo l’abrogazione di tale ultimo testo, nel D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52, comma 6; le quali norme avevano attribuito all’ente locale la facoltà di avvalersi alternativamente di entrambe le forme procedurali di riscossione coattiva.

Sosteneva, quindi, che la domanda della società avrebbe dovuto essere proposta nella forma della opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., comma 1, essendo in detto schema riconducibile anche l’opposizione all’ingiunzione fiscale in quanto finalizzata all’accertamento negativo dell’obbligazione di pagamento; e che, invece, l’aver introdotto l’opposizione con ricorso, anzichè con citazione, aveva determinato il giudice di pace a qualificare la domanda come opposizione ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 23 e a ritenere l’inammissibilità della stessa per esser gli avvisi di accertamento impugnabili, ai sensi della detta legge, solo in caso di mancata notifica degli atti presupposti, in analogia con l’impugnazione delle cartelle esattoriali.

Siffatto profilo il tribunale riteneva assorbente rispetto a ogni restante rilievo. Sicchè confermava la statuizione di inammissibilità della menzionata domanda.

Contro la sentenza di secondo grado la Tiesse pubblicità s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione in due motivi.

Il comune di Roma non ha svolto difese.
Motivi della decisione

1. – Col primo motivo la ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., nonchè degli artt. 97 e 111 Cost. e art. 1367 c.c..

Assume che gli avvisi di accertamento avevano recato l’avvertenza circa la possibilità di proporre, entro il termine di 30 giorni, ricorso in opposizione al giudice di pace o al tribunale, secondo la competenza stabilita dall’art. 7 c.p.c., e segg., e che ciò aveva radicato nella contribuente il convincimento che l’opposizione non dovesse essere proposta nella forma della citazione, neppure sotto specie di opposizione ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., non contenendo, tali articoli, alcun riferimento al termine di 30 giorni.

Sicchè in definitiva l’errore era stato indotto dalle indicazioni fornite dall’amministrazione e poteva essere sanato a mezzo del principio di cui all’art. 1367 c.c., al fine di considerare introdotta una vera e propria opposizione all’esecuzione.

Il motivo è concluso da quesito "se il ricorso in opposizione (..) anzichè essere sanzionato con la declaratoria di inammissibilità perchè non redatto nella forma della citazione, contenendone tutti gli elementi previsti dal codice di rito, debba essere considerata una vera e propria opposizione all’esecuzione e quindi abbiano errato i giudici del merito a non consentire e/o disporre la successiva notifica dell’atto al comune opposto".

2. – Col secondo motivo la società deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione e/o falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 22, e segg., osservando che negli avvisi era stato intimato, tra l’altro, il pagamento delle sanzioni pecuniarie, donde almeno in parte qua l’opposizione proposta ai sensi della L. n. 689 del 1981 dovevasi considerare ammissibile.

3. – I motivi, che, in quanto connessi, possono essere esaminati congiuntamente, appaiono fondati nei limiti e nei termini che seguono.

4. – Assume la sentenza – e al riguardo la ricorrente non muove rilievo – che, nella specie, trattavasi di provvedimenti amministrativi intesi alla costituzione di un "titolo esecutivo stragiudiziale in ordine al diritto per i canoni ovvero alle indennità di occupazione di bene pubblico". Tali provvedimenti, secondo quanto dalla sentenza risulta, contenevano distinti ordini (ingiunzioni) di pagamento dei ripetuti canoni o indennità, adottati a norma del R.D. n. 639 del 1910.

Può essere utile precisare che l’utilizzo di spazi pubblicitari si configura come forma di svolgimento di un’attività economica soggetta ad autorizzazione (v. Cons. Stato n. 44/2007), sia perchè gli enti locali hanno la funzione di salvaguardare il decoro e la sicurezza degli edifici e delle strade, sia perchè gli stessi ne traggono entrate per loro specificamente previste, come è l’imposta regolata dal D.Lgs. n. 507 del 1993. Per cui la gestione di spazi (ancorchè a scopo pubblicitario), riconducibile, secondo la giurisprudenza, alla concessione di servizi (v. per tutte Cons. Stato n. 3333/2006), suppone che il concessionario sia tenuto nei confronti dell’amministrazione all’ottenimento di un’autorizzazione e al pagamento di un canone.

5. – La ricorrente, nulla obiettando, come detto, circa la ripetuta previa affermazione dell’impugnata sentenza, si duole tuttavia della pronuncia di inammissibilità dell’opposizione. E sostiene che, in base al principio di conservazione tratto dall’art. 1367 c.c., il ricorso, avverso i detti provvedimenti proposto secondo lo schema dell’opposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 23, doveva comunque essere considerato alla stregua di "valido e regolare atto di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.". In proposito richiama l’insegnamento di questa Corte in ordine alla insussistenza della nullità (o improcedibilità) della domanda ove, in concreto, sia stato adottato il rito camerale in luogo di quello ordinario per le controversie a questo soggette, laddove non risulti eccepito che dall’inversione sia derivato un effettivo pregiudizio per le parti (Cass. n. 18201/2006).

In verità, il riferimento all’art. 1367 c.c., e al correlato principio di conservazione, non è pertinente. L’art. 1367 c.c., traduce un principio interpretativo della volontà del contraente.

Esso possiede una pur limitata applicabilità in sede processuale, ma nel contesto della funzione che gli è propria. Nella giurisprudenza della Corte è ritenuta soggetta al principio ermeneutico stabilito dall’art. 1367 c.c. (e dall’art. 159 c.p.c.) l’interpretazione dell’atto di parte nel quale è insita la funzione di manifestare la volontà rispetto all’effetto che ne deriva, come la procura alle liti di cui all’art. 83 c.p.c.; sì da dover essere compiuta – tale interpretazione – nel rispetto della regola della conservazione del negozio laddove, per esempio, la procura risulti conferita in primo grado con locuzione ampia ("per il presente giudizio" o altra equivalente) (v. Cass. n. 12170/2005; n. 7772/2003).

Di contro, nel caso di specie non viene in questione la necessità di interpretare un atto negoziale. Viene in questione semplicemente l’azione (atto giuridico in senso stretto) esercitata in modo non conforme alle prescrizioni di rito. E dunque un fatto processuale stricto iure, che con le regole del negozio nulla ha da spartire.

6. – Epurato nondimeno dalla confusione tra i concetti, il senso ultimo della doglianza, vale a dire l’assunto di essere l’impugnata sentenza errata in diritto a misura della pronunciata conferma di una declaratoria di inammissibilità dell’opposizione così come proposta, va condiviso.

L’ingiunzione fiscale, in quanto espressione del potere di accertamento e di autotutela della p.a., ha natura di atto amministrativo che cumula in sè le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto (Cass. n. 12263/2007; n. 2494/1997).

Questa Corte, infatti, ha accolto (v. Cass. n. 8335/2003) la teoria della natura amministrativa dell’ingiunzione detta, nel contempo rifiutando quella della natura giurisdizionale della stessa, secondo la quale l’ordine di pagamento si configura come domanda rivolta al giudice e il visto di questo assume la funzione di accertamento che rende esecutivo il credito; tanto che – si è giustamente affermato – la decorrenza del termine stabilito per proporre opposizione produce una decadenza dalla quale non derivano, tuttavia, effetti di natura processuale, bensì il solo effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito (v. Cass. n. 1527/1996), qualunque ne sia la fonte, di diritto pubblico o privato (Cass. n. 8162/2000).

In tal senso i due procedimenti – rispettivamente disciplinati dal R.D. n. 639 del 1910 e dalla L. n. 689 del 1981 – differiscono nel presupposto: il primo essendo radicato da un provvedimento di coazione costituito dall’ordine di pagamento emesso dal competente ufficio creditore al fine di riscuotere semplicemente, in autotutela, l’entrata patrimoniale; il secondo supponendo un ben diverso schema fondato sul preliminare accertamento di una violazione amministrativa specificamente sanzionata; accertamento solo all’esito del quale è consentito, decorso il termine di trenta giorni dalla relativa contestazione (o notificazione), determinare, con separata ordinanza, la somma dovuta per la violazione stessa, mediante la relativa ingiunzione di pagamento.

Ferma la citata differenziazione, i rimedi processuali a disposizione del destinatario dell’atto sono peraltro, nei due casi, analogamente costruiti.

Entrambe le situazioni sono astrette dal medesimo sistema processuale di cognizione a tipo oppositorio, introdotto da azioni di accertamento negativo.

La differenza attiene alla disciplina del rito in relazione al tipo di controversia, posto che il medesimo R.D. n. 639 del 1910, art. 3, rinvia alle norme del codice di procedura civile, mentre la L. n. 689 del 1981, art. 23, contempla un sistema conchiuso in regole proprie (ratione temporis).

7. – Il tribunale di Roma ha ritenuto che l’erroneità del rito fosse suscettibile di dar luogo all’inammissibilità della domanda.

Ma la conclusione è del tutto errata, dal momento che la chiusura del processo con una pronuncia di rito non è consentita, nel sistema, fuori dei casi previsti dalla legge; e, per quanto rileva, fuori dei casi in cui venga in questione il vizio insanabile di un presupposto processuale.

Va anzi osservato che la tendenza di fondo dell’ordinamento, emergente dalla disciplina positiva – in particolare dall’art. 180 c.p.c. (e, oggi, anche dall’art. 182 c.p.c.; ma lo stesso potrebbe dirsi per le clausole generali di cui agli artt. 156 e 164 c.p.c., chiaramente orientate a rafforzare il principio fondamentale secondo cui il processo di cognizione mira a concludersi con pronunce di merito) – è quella di prevedere che neppure in carenza di un presupposto processuale il giudice possa chiudere immediatamente il processo con una pronuncia di rito, dovendo dapprima sperimentare i rimedi appositamente previsti dalla legge.

Cosicchè, in generale, solo dinanzi a una simile carenza (insanabile o insanata) è legittima la chiusura in rito del processo.

La carenza del presupposto processuale, ove non altrimenti rimediabile, non consente infatti al processo di giungere a una decisione di merito utile al proprio scopo; e quindi priva il processo della sua funzione (secondaria o servente) rispetto alla tutela della situazione sostanziale (primaria) che si assume lesa.

Al di fuori di codeste situazioni, una sentenza che chiuda il processo in rito non è consentita perchè il processo di cognizione serve ad accertare la ragione e il torto. E le ipotesi in cui la violazione di norme disciplinatrici di esso possono legittimarne una conclusione mediante sentenze di assoluzione dall’osservanza del giudizio rimangono confinate nell’alveo della eccezionaiità.

8. – Ebbene, nel sistema così delineato, la correttezza del rito – e questo è il punto – non costituisce mai un presupposto processuale (e men che meno un presupposto insanabile). Non è invero dal legislatore costruita secondo le caratteristiche di un simile concetto, come condizione, cioè, per la pronuncia di merito.

E difatti l’errore nella scelta del rito comporta, per norma generale in più situazioni ribadita, solamente il mutamento di rito in itinere: v. per es. gli artt. 426 e 427 c.p.c., per il processo del lavoro, come pure l’art. 447-bis, per il processo locatizio, o l’abrogato del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 1, comma 5, fintanto che è rimasto in vigore il processo commerciale.

L’impugnata sentenza, avendo confermato la chiusura in rito del processo di opposizione al di fuori dei casi in cui una simile statuizione è dall’ordinamento prevista, non si sottrae a censura; e va cassata con rinvio al medesimo tribunale di Roma, in diversa composizione (monocratica), per l’esame del merito.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 30 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2012

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