Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 23-01-2013) 21-02-2013, n. 8556 Sequestro preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. Con ordinanza resa il 16/05/2012 dal Tribunale del riesame di S, Maria Capua Vetere veniva confermato il provvedimento di sequestro preventivo, emesso dal G.I.P. del locale Tribunale in data 17/04/2012 a carico di A.V., avente ad oggetto l’importo di Euro 30.000, costituente il corrispettivo della cessione di quote della società XXX. s.r.l. che l’ A. aveva trasferito in assenza delle comunicazioni agli uffici finanziari, previste dalla L. n. 646 del 1982, art. 30.
Il Tribunale fondava la propria decisione sul rilievo della piena equiparabilità ai sensi dell’art. 445 cod. proc. pen., comma 1-bis, ai fini rilevanti per il procedimento "de quo" della sentenza di applicazione pena a richiesta delle parti, emessa nei confronti dell’ A. per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., alla sentenza di condanna, emessa all’esito di giudizio ordinario;
inoltre, rilevava che, quanto al "fumus", le risultanze documentali agli atti, in specie il contratto del 19.9.2008, avente ad oggetto la cessione di quote di XXX. s.r.l., da parte di A. V., in favore di A.L. e A.G., per l’importo complessivo di Euro 30.000,00, superiore alla soglia minima prevista dall’art. 30, nonchè la mancata dimostrazione dell’avvenuta comunicazione della variazione patrimoniale riguardante l’indagato al Nucleo di Polizia Tributaria, offrivano elementi sufficienti per ritenere integrata la fattispecie delittuosa ipotizzata dall’accusa.
2. Avverso tale ordinanza propone ricorso per cassazione l’indagato a mezzo del suo difensore, il quale si duole di violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla L. n. 646 dl 1982, art. 31 nonchè all’art. 321 c.p.p., per avere il Tribunale ritenuto che la sentenza di patteggiamento in ordine al delitto di cui all’art. 416- bis cod. pen. costituisse valido presupposto per l’integrazione della fattispecie penale in contestazione, sebbene la stessa non contenesse una condanna sul presupposto dell’accertamento positivo di responsabilità e l’interpretazione proposta della norma di cui all’art. 445 cod. proc. pen. fosse in contrasto col principio di tassatività; inoltre, censura la decisione impugnata per non avere condotto alcun accertamento in ordine alla sussistenza del dolo, da escludersi per la scelta della forma dell’atto pubblico per il regolamento negoziale e per l’indicazione del valore delle quote superiore alla soglia di punibilità.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e va dunque respinto.
1. Il primo motivo di gravame reitera una questione già correttamente risolta in punto di diritto dal Tribunale, vertente sull’individuazione del presupposto preteso dalla norma di cui alla L. n. 646 del 1982, art. 30 per configurare il reato dalla stessa previsto.
Tale disposizione sanziona testualmente la condotta di chi, essendo sottoposto con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione ai sensi della L. n. 575 del 1965, in quanto indiziato di appartenere alle associazioni previste dall’art. 1 di tale Legge, oppure essendo condannato con sentenza definitiva per il reato di cui all’art. 416- bis cod. pen., ometta di rendere comunicazione al Nucleo di Polizia Tribunale delle variazioni patrimoniali intervenute superiori ad una soglia minima pari in origine a L. 20.000.000. I soggetti destinatari dell’obbligo di comunicazione sono dunque individuati in funzione della qualità personale di destinatari di un precedente provvedimento impositivo di misura di prevenzione o di condanna penale irrevocabile, la cui esistenza costituisce presupposto di fatto del reato di omessa comunicazione, senza che possa assumere alcuna rilevanza l’eventuale concessione o meno del beneficio della sospensione condizionale della pena. Per contro, a norma dell’art. 30, comma 3, soltanto l’intervenuta revoca della misura di prevenzione a seguito di vittorioso esperimento di un mezzo di impugnazione, appello o ricorso per cassazione, ha il potere di determinare l’anticipata cessazione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali di cui al comma 1.
2. La tesi del ricorrente pretende che soltanto la sentenza di condanna, resa nel giudizio dibattimentale o nel giudizio abbreviato, possa esplicare la funzione di presupposto per l’insorgenza dell’obbligo comunicativo e quindi per la punibilità della sua trasgressione in ragione della formulazione testuale della norma incriminatrice, priva di riferimenti alla pronuncia di patteggiamento e della natura e contenuto differenti di tale pronuncia rispetto a quella ordinaria di condanna. Per quanto il primo rilievo non sia infondato, la difesa trascura il disposto dell’art. 445 cod. proc. pen., comma 2 ultima parte, il quale stabilisce che "salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna": è quindi il legislatore a stabilire in via generalizzata una parificazione dei due tipi di sentenza, salvo che non intervenga una disposizione specifica a stabilire diversamente.
2.1 Inoltre, quanto alla natura della sentenza di applicazione pena a richiesta delle parti soccorre l’elaborazione giurisprudenziale, ormai consolidata, secondo la quale, all’esito dell’introduzione del nuovo istituto del "patteggiamento allargato", (Cass. Sez. Unite, n. 17781 del 29.11.2005, Diop, rv. 233518; sez. 6, n. 10094 del 25/2/2011, Pisicchio, rv. 249642), anche il valore della disposizione dell’art. 445 cod. proc. pen., comma 1-bis, deve essere rivisitato, tenendo conto di quanto rilevato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 155 del 13/5/1996), la quale, nel riconoscere la conformità del rito del patteggiamento ai principi della Costituzione, ha rilevato come anche la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. presupponga "pur sempre la responsabilità" dell’imputato e che alla rinuncia a contestare "il fatto" come descritto nell’imputazione e la propria "responsabilità" consegua che su di esso e sull’attribuzione all’imputato si formi il giudicato. E tale affermazione è stata ulteriormente rafforzata anche dalla modificazione dell’art. 653 cod. proc. pen., operata dalla L. n. 97 del 2001, che, con l’eliminazione del riferimento alla sentenza pronuncia all’esito del dibattimento, ha consentito l’efficacia vincolante nel giudizio disciplinare, tanto della sentenza penale irrevocabile di condanna, che della sentenza di applicazione della pena su richiesta, con sostanziale parificazione di tutti i giudicati penali, derivanti da qualsiasi tipo di sentenza, come poi riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 336 del 3/11/2009).
2.2 Da tali premesse le Sezioni Unite sono giunte ad affermare il principio di diritto, secondo il quale "la sentenza emessa all’esito della procedura di cui agli artt. 444 e segg. c.p.p. poichè è, ai sensi dell’art. 445, comma 1-bis, equiparata "salvo diverse disposizioni di legge a una pronuncia di condanna" costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168 c.p., 1 comma, n. 1, della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa", mentre si segnala come in merito all’istituto della revisione è intervenuta la modifica normativa dell’art. 629 cod. proc. pen. per effetto della L. n. 134 del 2003, art. 12, con la previsione della possibilità di avanzare istanza di revisione, consentita "in ogni tempo a favore dei condannati", anche per chi sia stato destinatario di sentenze "emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2". In questo caso il legislatore stesso ha operato l’equiparazione tra i "condannati" con pronuncia di patteggiamento ai destinatari di condanna resa in procedimento ordinario, per tutti i casi di revisione, senza eccezione alcuna, quindi anche per l’ipotesi prevista dall’art. 630 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), in cui "dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631".
2.3 La considerazione delle modifiche normative e dell’evoluzione giurisprudenziale non consente di poter più differenziare i due tipi di sentenze, la cui equiparazione ai fini che qui rilevano è stata già affermata da precedenti pronunce di questa Corte, riguardanti proprio la fattispecie di cui alla L. n. 646 del 1982, artt. 30 e 31 (Cass. sez. 1, n. 5233 del 15/12/2005, Aiello, rv. 233104; sez. 1, n. 21233 del 30/5/2006, Musumeci, non massimata; sez. 1, n. 45378 del 27/10/2011, Aiello, rv. 251458), cui si ritiene di doversi uniformare.
3. Sotto diverso profilo il ricorrente contesta la ravvisabilità del "fumus commissi delicti" per la carenza dell’elemento soggettivo del dolo nella forma del dolo generico: fonda la doglianza sul ricorso alla forma negoziale dell’atto pubblico notarile e sull’inserimento nel contratto del valore delle quote in entità superiore alla soglia di punibilità, entrambe circostanze dimostrative della mancata intenzione di violare il precetto normativo e di occultare l’operazione negoziale.
Sul punto il Tribunale ha correttamente rilevato che nel procedimento di riesame avverso provvedimenti aventi ad oggetto misure reali non è devoluta alla cognizione del giudice la valutazione dei gravi indizi di reità, il che è certamente vero nel senso che resta precluso l’accertamento sul merito dell’azione penale ed anche la verifica sulla concreta fondatezza dell’accusa nella fase delle indagini preliminari; il controllo giurisdizionale dell’elemento fattuale nel singolo caso concreto inteso come astratta configurabilità del reato ipotizzato dall’accusa non può però prescindere dalla considerazione delle risultanze processuali e degli elementi rappresentati dalla difesa, potendosi estendere anche al rilievo del difetto dell’elemento soggettivo, purchè di immediata percezione (Corte Cost., ord. n. 153 del 2007; Cass. sez. 2, n. 7734 del 22/11/2011, PM in proc. Ierace, rv. 252219; sez. 4, n. 23944 del 21/5/2008, PM in proc. Di Fulvio, rv. 240521; sez. 1, n. 21736 del 14/5/2007, Citarella, rv. 236474). Tale situazione di palese constatazione non ricorre nel caso in esame, nella quale la scelta della forma pubblica per il regolamento negoziale non offre però sicuri indici di valutazione, dal momento che le eventuali verifiche conducibili su una transazione stipulata per atto pubblico non forniscono automaticamente notizie all’amministrazione preposta al controllo circa le variazioni patrimoniale riguardanti un condannato per fatti di mafia, sicchè per il soggetto agente il ricorso alla forma pubblica non comporta sotto questo aspetto la consapevolezza di una verifica da parte del Nucleo di Polizia Tributaria: in tal senso si è già più volte espressa questa Corte (Cass. sez. 2, n. 14332 del 5/4/2006, D’Aiello, rv. 234247) con argomenti pienamente condivisibili. Anche l’altra circostanza dedotta, inerente l’indicazione del valore del bene oggetto del contratto, non si presta a dimostrare con evidenza immediata l’assenza della volontà di omettere la dovuta comunicazione, fermo restando che anche il dubbio su tale volontà non potrebbe ritenersi sufficiente a consentire l’accoglimento del gravame e che una verifica più′ puntuale ed approfondita di tali elementi dovrà essere condotta in sede di cognizione ordinaria all’atto dell’assunzione della decisione sulla confisca.
Il ricorso va dunque respinto con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2013

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